La rabbia dopo la vittoria: la «vittoria mutilata» secondo Paolo Soave (indygesto.com)

di Lorenzo Terzi, del 11 Luglio 2020

Paolo Soave

Una vittoria mutilata?

L’Italia e la Conferenza di Pace di Parigi

Un libro documentatissimo ricostruisce il travagliato primo dopoguerra italiano, dagli intrighi diplomatici all’impresa di d’Annunzio

Il tema della vittoria mutilata conobbe larga fortuna nel nazionalismo italiano dopo la Prima guerra mondiale.

Questo mito negativo risuonò, già prima della fine del conflitto, nella lirica dannunziana Preghiera di Sernaglia: «Vittoria nostra, non sarai mutilata. Nessuno può frangerti i ginocchi né tarparti le penne». Il concetto fu ripreso con enfasi dalla pubblicistica postbellica, suggestionata dalla vista di tanti reduci menomati e dal timore, condiviso anche dalla classe politica, che i sacrifici del Paese non sarebbero stati ripagati una volta cessate le ostilità.

Non si trattava di un timore infondato. Paolo Soave, nella recente monografia Una vittoria mutilata? L’Italia e la Conferenza di Pace di Parigi, edita da Rubbettino, ha recuperato le riflessioni di Eugenio Di Rienzo sulla rinnovata attenzione della storiografia internazionale verso l’insoddisfazione dimostrata dall’Italia circa l’andamento e i risultati delle trattative di pace. Il dibattito fra gli storici ha portato alla conclusione che l’Italia venne a trovarsi in posizione isolata, ultima fra le potenze vincitrici, accusata di coltivare mire imperialiste. Paradossalmente, lo stesso addebito era rivolto anche agli sconfitti: sicché Luca Riccardi ha potuto efficacemente sintetizzare questa condizione con la formula «alleati non amici».

Il negoziato della primavera del 1915 con le forze dell’Intesa – che portò, il 26 aprile, alla firma del cosiddetto Patto di Londra – prevedeva l’attribuzione all’Italia, in caso di vittoria, del Trentino, del Tirolo cisalpino fino al Brennero, di Trieste, delle contee di Gorizia e Gradisca, dell’intera Istria sino al Quarnaro, comprese Volosca e le isole di Chierso, Lussino, Plavnik, Unie, Canidole, Palazzuoli, San Pietro di Nembi, Asinello, Grnca e gli isolotti limitrofi, nonché la Dalmazia, isole circostanti comprese, Valona, l’isola di Sasseno con l’entroterra necessario alla difesa; infine, la rappresentanza dell’Albania in ambito internazionale. Anche l’interesse italiano per l’Asia Minore venne soddisfatto mediante l’attribuzione a titolo definitivo del Dodecaneso e la cessione della provincia di Adalia in caso di spartizione dell’area.

Le ambizioni imperialistiche, propugnate da un ampio schieramento politico trasversale, trovavano anch’esse parziale realizzazione, nel dettato del Patto di Londra, con il definitivo passaggio delle regioni libiche dall’Impero ottomano all’Italia e con i compensi che l’Italia avrebbe potuto esigere, sotto forma di miglioramento dei confini coloniali, qualora Francia e Gran Bretagna avessero acquisito il controllo dei possedimenti tedeschi.

Non si giunse, invece, alla definizione degli obiettivi rappresentati da Gibuti, Chisimaio, Cassala e Giarabub, nonché della partizione delle influenze sull’Etiopia, perché il governo italiano non ritenne i suddetti punti prioritari nei negoziati con l’Intesa.

Le trattative, al temine del conflitto, vennero condizionate dalla presenza di un nuovo attore, gli Stati Uniti d’America, entrati in guerra nell’aprile del 1917. Il presidente americano Wilson si fece portatore di un suo personale progetto di pace, articolato nei Quattordici punti, forte del contributo statunitense alla vittoria dell’Intesa con ingenti prestiti, aiuti materiali, e infine con l’invio di due milioni di uomini. Il programma wilsoniano si basava sul principio dell’autodeterminazione dei popoli su base etno-nazionale, prospettiva che apparve da subito potenzialmente minacciosa per gli interessi coloniali delle potenze europee. I Quattordici punti, ricorda Soave, si proponevano di ridefinire profondamente le relazioni internazionali con l’abolizione della diplomazia segreta; la libertà assoluta di navigazione; la soppressione delle barriere economiche; il disarmo; la composizione delle questioni coloniali, tenendo conto anche degli interessi delle popolazioni soggette; la cooperazione con la Russia e il suo nuovo governo rivoluzionario; il ripristino del Belgio quale Stato sovrano; la restituzione dell’Alsazia e della Lorena alla Francia; la rettifica dei confini italiani secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili; l’autonomia per i popoli dell’Austria-Ungheria; l’evacuazione e il ripristino territoriale di Romania, Montenegro e Serbia, con uno sbocco sul mare per quest’ultima; il riconoscimento della sovranità turca e dell’autonomia per le popolazioni dell’ex Impero ottomano con libero accesso ai Dardanelli; la ricostituzione dello Stato polacco, anch’esso con uno sbocco sul mare; «e, punto culminante, la costituzione della Società delle Nazioni, organo al quale sarebbe stato affidato il compito di garantire la pace secondo il concetto, mai prima attuato, di sicurezza collettiva».

Nella Conferenza di Parigi l’Italia fu rappresentata dal capo del governo Vittorio Emanuele Orlando, dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino, dall’ex ambasciatore a Parigi e senatore Giuseppe Salvago Raggi, dal deputato triestino Salvatore Barzilai e da Antonio Salandra, coadiuvati da vari consiglieri tecnici e diplomatici.

I rapporti fra il presidente degli Stati Uniti e la delegazione italiana si rivelarono subito problematici: Wilson, infatti, dichiarò apertamente che avrebbe derogato ai suoi principi solo per il Brennero, mentre avrebbe concepito Fiume come città libera in territorio slavo. È pur vero, nota Soave, che l’acquisizione delle terre irredente e di un confine strategicamente in grado di porre il Regno d’Italia al riparo da eventuali future minacce lungo l’arco nord-orientale fu considerata dagli alleati come giusto compenso e parte meno discutibile del Patto di Londra. Lo stesso Wilson ritenne di avallare tali rivendicazioni, pur non essendo del tutto convinto della loro fondatezza, anche allo scopo di stroncare qualsiasi altra richiesta da parte italiana concernente la costa orientale dell’Adriatico.

Nel confronto fra americani e italiani svolse un ruolo cruciale la posizione assunta dalla Gran Bretagna e soprattutto dalla Francia, che sosteneva le ragioni del Regno jugoslavo dei serbi, dei croati e degli sloveni, considerato un valido partner nel prevenire l’influenza italiana nei Balcani. Il 13 aprile del 1919 una nota americana ribadì l’accettazione di quanto stabilito dal Patto di Londra riguardo al nuovo confine settentrionale del Regno d’Italia, ma chiarì che l’Istria sarebbe stata oggetto di una partizione italo-jugoslava, Fiume sarebbe diventata una città autonoma, nel rispetto della volontà della popolazione slava dell’entroterra, mentre la costa dalmata sarebbe stata neutralizzata per garantire la sicurezza dell’Italia che, infine, avrebbe anche ottenuto Lissa e Valona.

La dichiarazione ratificò, praticamente, un fatto compiuto: essa, pertanto, inasprì i rapporti con gli alleati, ma condizionò pure l’atteggiamento dell’opinione pubblica italiana, che finì per concordare con la tesi della vittoria mutilata.

Il 19 giugno l’esecutivo di Orlando cadde in Parlamento, anche a causa delle tensioni che avevano accompagnato la Conferenza di Parigi. Sonnino rimase nella capitale francese per firmare gli accordi di pace in qualità di semplice plenipotenziario. Le questioni italiane restavano irrisolte allorché, il 28 dello stesso mese, venne perfezionato il trattato di Versailles. In quell’atto finale, Wilson ribadì di aspettarsi la rinuncia a Fiume; in caso contrario, l’Italia avrebbe dovuto fare a meno del sostegno finanziario statunitense.

A complicare ulteriormente la situazione contribuì Gabriele d’Annunzio: questi, il 12 settembre 1919, occupò Fiume con un’azione che trasformò la vittoria mutilata in un concreto programma politico-militare. L’occupazione fiumana durò fino al Natale del 1921, quando Giolitti – nel frattempo divenuto capo del governo – dispose il bombardamento della città istriana, costringendo il poeta-soldato alla resa.

Il Trattato di Rapallo, firmato il 12 novembre 1920 con il Regno serbo-croato-sloveno, sancì la trasformazione di Fiume in Stato libero, come a suo tempo proposto da Wilson, e la rinuncia italiana a Porto Baros; le sue clausole vennero riviste e perfezionate nel 1922 a Santa Margherita Ligure. L’accordo fu apprezzato anche da Mussolini, in quanto scongiurava la perdita definitiva di Fiume a vantaggio degli jugoslavi ed eliminava a livello politico l’ingombrante figura di d’Annunzio, pur tenendo vivo il mito della vittoria mutilata, a disposizione della propaganda fascista.

«La politica estera liberale» conclude Soave «si dimostrò inesauribile e capace di ottenere non trascurabili risultati sino al suo crepuscolo».

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