Spirito di un secolo (Caffè Michelangiolo)

di Daniele Bronzuoli, del 18 Maggio 2012

Da Caffè Michelangiolo – 18 maggio 2012
Fra ideologie e rivoluzioni il viaggio intellettuale di un filosofo del Novecento attraverso documenti e carteggi inediti
Dietro l’equivoco volutamente riprodotto nel titolo si cela il senso dell’ultimo lavoro di Danilo Breschi su Ugo Spirito. Forse nessuno più del filosofo aretino ha saputo incarnare – con i suoi pregi e i suoi limiti – la figura dell’intellettuale novecentesco alle prese con il disorientamento indotto dai processi di modernizzazione intervenuti in Europa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del ventesimo secolo.

L’avvento della democrazia di massa, la crescita industriale con la conseguente «esplosione del fenomeno sindacale», i primi abbozzi della globalizzazione economica e, soprattutto, lo scoppio della Grande Guerra, fanno da cornice e nutrimento ad un pensiero disposto ad accogliere la complessità del reale solo come momento negativo di una superiore ricomposizione filosofica. Ugo Spirito non sarebbe tuttavia ancora – come vuole Breschi – «il filosofo del Novecento» (p. 268) par excellence, se non avesse inteso ricavare da questa sistemazione teorica un modello e una ricetta di azione politica applicabile alla pratica. E non saremmo – per dirla con Bracher – nel «secolo delle ideologie» se alle motivazioni filosofiche e politiche dell’autore non si intrecciasse e sovrapponesse la ricerca spasmodica di un «assoluto» inteso insieme come principio fondativo della realtà e presupposto logico dell’agire storico. Per comprendere «d ‘esigenza di unità» (p. 13) che anima tanto la speculazione di Ugo Spirito quanto quella del suo maestro Giovanni Gentile, non è sufficiente infatti ricordare le dinamiche di differenziazione sociale che lacerano l’armonia dell’universo chiuso tipico delle società preindustriali, ma occorre anche guardare alla condizione psicologica dei sopravvissuti alla «morte di Dio» profeticamente annunciata da Nietzsche sul finire del secolo XIX.

La «crisi dei valori tradizionali» è il titolo di uno dei due documenti finora inediti pubblicati nelle pagine conclusive del volume. E disarmati da questa crisi, oltreché abbagliati dai progressi della scienza e della tecnica, convinti infine di poter ancora svolgere il ruolo di ispiratori dei processi decisionali in società sempre più orientate a privilegiare e promuovere la competenza tecnica, gli intellettuali del ventesimo secolo hanno contribuito a formulare, promuovere e giustificare – ad uso anche delle masse – quelle che Aron definiva «religioni secolari ». Il pensatore francese intendeva indicare con questa locuzione le «dottrine che nell’animo dei nostri contemporanei, prendono il posto della fede perduta, e che collocano la salvezza dell’umanità in questo mondo, in un avvenire lontano, nella forma di un ordine sociale ancora da costruire». Il tema del rapporto tra modernità e totalitarismo, ampiamente visitato e sviluppato da autori come Hannah Arendt, Bertrand de Jouvenel e lo stesso Raymond Aron, viene da Breschi ripreso in maniera originale e svolto alla luce della parabola biografica, intellettuale – e finanche psicologica – dell’allievo di Gentile, m volta in volta presentato come intellettuale romantico «orfano dell’Assoluto» (p. 186), come «consigliere del Principe» (p. 96) – molto stretti furono infatti, dal 1941 al 1943, i suoi rapporti con l’allora Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai – ma anche come «filosofo a caccia di rivoluzioni» (p. 237), come «teorico del corporativismo» e, infine, come ingenuo «candido nazionale» apologeta delle «meraviglie maoiste» (p. 241).

Chi pensasse di rintracciare in tale lista (incompleta) di definizioni apparentemente contraddittorie un’incoerenza attribuibile alla penna dell’autore, potrebbe rimanere sorpreso nel constatare come l’obiettivo della monografia di Breschi sia invece quello di dimostrare, al di là delle «oscillazioni .. prodotte dall’itinerario speculativo di Ugo Spirito, la continuità m attitudini e assunti teorici che rimangono sullo sfondo della sua impresa conoscitiva: «una certa coerenza m posizioni – scrive infatti Breschi – Spirito l’ha sempre avuta e [ … j consiste nel cercare una filosofia che si inveri nel mondo» (pp. 243-244). Il fatto è che per scandagliare la Weltanschauung di molti intellettuali del Novecento – secolo di intensa polarizzazione ideologica -le tradizionali categorie e distinzioni (ad esempio «destra» e «sinistra») con le quali siamo soliti guardare alla vita istituzionale e politica delle collettività organizzate, si rivelano inefficaci strumenti di analisi. La battaglia campale che ha dominato e attraversato quasi per intero il ventesimo secolo, si è rivelata in effetti essere quella tra democrazie liberali e regimi totalitari, tra «società aperte» e dittature alimentate da sistemi di pensiero «chiusi», fossero essi di matrice marxista-leninista o di natura reazionaria o razzista. Come anche rileva Bracher in Il Novecento secolo delle ideologie, «ciò che unisce le due versioni totalitarie è la concezione fondamentalmente antiliberale e antiparlamentare della politica, nonché la pretesa delle élite al potere di «modellare in maniera pianificata l’inevitabile mutamento sociale mediante l’organizzazione, la mobilitazione e l’arruolamento di tutta la popolazione». Breschi ricostruisce magistralmente le finalità teoriche di Ugo Spirito intese a sollecitare la classe dirigente fascista nell’opera di edificazione di un sistema politico e sociale sostanzialmente «dinamico», nel quale sia possibile realizzare la completa identificazione tra individuo e Stato e che sia inoltre capace di «plasmare se stesso e le proprie strutture giuridiche ed economiche conformemente ai mutamenti della storia» (p. 23). In altri termini, Spirito ha in mente un modello di società che, fortemente connotata in senso organicistico e comunitario, rifletta in ambito pratico sia quell’esigenza di unità che è alla base dell’intera speculazione gentiliana, sia quel postulato della natura relazionale dell’«Io» che della riflessione del maestro costituisce logico corollario. Addirittura, con la teoria della «corporazione proprietaria., elaborata nei primi anni Trenta, egli procede oltre la formula dello Stato etico proposta da Gentile, arrivando a prefiguare il superamento della moderna statualità – «estrinseca e trascendente. – in direzione di una autorganizzazione delle unità produttive e degli interessi scaturenti dal seno dell’ aggregato sociale. Come meravigliarsi, dunque, che lo stesso filosofo che negli anni Trenta perorava l‘immanentizzazione dello Stato alla vita dei «cittadini soci» (p. 69) si sia lasciato abbagliare – una volta spente le speranze di palingenesi riposte nel fascismo – dalle esperienze del comunismo realizzato, tanto nella sua versione sovietica, quanto – e soprattutto – nella sua variante cinese? E come rimanere sorpresi dal fatto che egli, una volta scoperta «l’inerzia del reale» all’opera dietro la cristallizzazione in «sistemi ecclesiastici di carattere poliziesco» (p. 241) di tali regimi, abbia, nel 1968, volto per un momento lo sguardo all’«ondata di contestazione globale dei giovani contro gli adulti» (p. 258)? Ciò che infatti sorregge e garantisce l’esercizio delle libertà individuali nelle democrazie liberali, ovvero la separazione tra Stato e società civile, Spirito l’ha sempre giudicato come forma di «alienazione », mentre l’esercizio del dubbio, che rappresenta l’ingrediente fondamentale di una società aperta alla valorizzazione dei contrasti e delle differenze, è da lui sempre stato vissuto come una «diminutio capitis, un arretramento, una condizione che si accetta in mancanza di meglio e in attesa dell’optimum, della definitiva risoluzione di ogni divisione, conflitto, antinomia» (p. 199). Non di contraddizione spiritiana dovremmo dunque parlare, quanto piuttosto di talune «affinità sotterranee tra comunismo e fascismo […] soprattutto sul piano dei presupposti filosofici e anche […] delle predisposizioni di tipo psicologico» (pp. 246-247). Non bisogna infatti dimenticare che Gentile maturò la riforma attualistica dell’ hegelismo attraverso il confronto con gli scritti di Marx, in particolar modo con le celebri Tesi su Feuerbach del 1845. E non è da sottovalutare la comune matrice hegeliana tanto dell’idealismo gentiliano (e spiritiano) – quanto della filosofia marxiana. Non è dunque casuale che tanto l’interpretazione del fascismo come sintesi di socialismo e liberalismo, quanto la visione del comunismo realizzato come «società di liberi ed eguali» (p. 234), traggano alimento – in Ugo Spirito – dalla medesima filosofia dell’ immanenza di ispirazione hegeliana. E proprio in questa visione della storia prendono corpo gli equivoci, i fraintendimenti e le incomprensioni che finiscono col produrre «l’esito totalitario» (p. 16) interno alla riflessione spiritiana. La politica non è infatti strumento di realizzazione di una verità svelata dalla filosofia della storia, ma esercizio prudente del compromesso fra opposte visioni e interessi contrapposti. Ad essa non spetta il compito né di mutare, né di «inverare» l’uomo, ma semmai quello di utilizzare le sue caratteristiche per trovare, tra le possibilità reali, il modello di convivenza più efficace. La volontà manifestata dai regimi totalitari di piegare la società ai disegni utopistici delle ideologie – ovvero delle filosofie della storia elette a giustificazione del potere – tradisce, oltre all’umana illusione di potere con la tecnica trasformare tanto gli uomini quanto la natura, la convinzione idealistica in base alla quale la Storia e lo Spirito procederebbero obbedendo alle medesime leggi. Il passaggio da una simile opinione alla politica di potenza delle tirannie novecentesche è breve: quando le élite poste ai vertici del comando si rendono conto che il reale non è materia docile e plasmabile su cui mettere le mani, esse ricorrono all’estrema risorsa della violenza. Per questo ogni ideologia è la negazione della politica.

Di Daniele Bronzuoli

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