Il sogno italiano della famiglia (albanese) Tota (lacittanuova.milano.corriere.it)

di Stefano Pasta, del 19 Ottobre 2016

All’inizio degli anni Ottanta, circa 40mila persone, l’1,5% della popolazione, erano detenute nei campi di lavoro forzato nell’Albania comunista (ideologia rivista in chiave nazionalista) di Enver Hoxha. Nel 1991 erano ancora 31 i campi attivi secondo Amnesty International. È nel giorno del funerale del dittatore, il 15 aprile 1985 – il regime da lui creato nel 1944 sopravvivrà ancora cinque anni –, che prende avvio il romanzo “Il sogno italiano” di Ylljet Aliçka, pubblicato da Rubbettino. La storia trae spunto da una vicenda vera, quella dei sei fratelli e sorelle della famiglia albanese Tota, che chiedono e ottengono rifugio nell’ambasciata italiana a Tirana. «Cosa capirò? Che c’entriamo con l’Italia? Per l’amor di Dio, dimmi dove ci stai portando? Cos’hai in testa stavolta?». «Niente, faremo una visita all’ambasciata italiana. Tutto qui. Ho previsto ogni cosa, non ti preoccupare, cammina tranquillo e, quando saremo lì vicino, parla italiano». È lo scambio tra Simon e Vangjel, quando il primo rivela al fratello il piano. In realtà, nonostante la propaganda marxista-leninista, l’Italia continuava a essere il sogno, più o meno nascosto, di tanti. E, infatti, la sorella Ileana, al momento di uscire di casa per tentare l’impresa, ha il capo avvolto da un ampio foulard di color lilla e spiega al resto della famiglia che la guarda stupita: «Come Silvana Pampanini, non mi ricordo in che film l’ho vista, mi è semplicemente balenata l’idea di imitarla».

Le frontiere dell’etere, allo stesso modo di oggi quelle di Facebook e del Web, non si possono sigillare come quelle di terra: nonostante le campagne governative contro le antenne, negli anni Settanta si diffonde la televisione italiana e l’immaginario albanese si popola via via di automobili private, abiti alla moda, supermercati, lotterie, Coca Cola, panettoni e pandori. Così, parlando dei Chianti di Toscana e dei vini piemontesi, i Tota ingannano i poliziotti albanesi di guardia ed entrano nell’ambasciata. «Siamo liberi, siamo liberi, viva l’Italia!», può gridare Vangjel. Lo smacco scatena le intimidazioni del Governo di Tirana e le proteste di molti albanesi contro i pipini, come venivano derisi gli italiani. Sulle due sponde dell’Adriatico, la vicenda diventa un caso diplomatico. A Roma, in Parlamento e nelle piazze, l’opposizione lo sfrutta per accusare di debolezza il Governo (premier Craxi, con Andreotti ministro degli Esteri), che farebbe volentieri a meno di occuparsene. D’altro canto, da parte italiana, il rispetto delle norme internazionali sul diritto d’asilo non è mai messo in discussione e l’accoglienza nella sede diplomatica a Tirana dura cinque anni.

La prima parte del libro racconta proprio la permanenza dei sei, senza mai poter uscire, tra le mura dell’edificio diplomatico. La breve storia d’amore tra Ileana e il carabiniere Saverio, che dopo pochi mesi fa ritorno in Italia dalla moglie. L’emozione per la libertà apparentemente conquistata, per un cd di De André o per i libri della biblioteca dell’ambasciata, e la disillusione per giornate vuote e mesi d’attesa che diventano anni. La visita della delegazione dei sei parlamentari italiani (comunisti, democristiani e socialisti), a cui i Tota chiedono di aumentare la razione di antidepressivi. Di fronte agli insulti alla moglie quando attraversano Tirana, i nervi cedono anche all’ambasciatore, «che negli ultimi tempi fumava di più, dormiva male e mangiava poco». Il Ministero dell’Interno fa internare in un campo una famiglia di cognome Papa, poiché serve un gesto per evitare che l’esempio sia seguito da altri: non hanno alcun legame con i Tota, ma viene diffusa la falsa voce che siano parenti alla lontana che avevano in passato cambiato cognome.

Intanto, fuori dalle sede diplomatica, si mangia essenzialmente pane, insaporito con pomodori e cipolle. Il reddito pro capite annuo dichiarato nel 1989, gonfiato da ottimismo di regime, sfiora i 750 dollari, in ogni caso comparabili più ai 610 dell’Angola che ai 15.120 dell’Italia dell’altra sponda dell’Adriatico. Quando l’onda lunga dell’Ottantanove fa cadere il regime, anche il caso volge a conclusione e i fratelli vengono trasferiti in Italia. Inizia la seconda parte del romanzo, quella ambientata nel “nuovo mondo”, dove Vangjel vede un gruppo di ragazze che chiacchierano, ciascuna con un gelato in mano, ed esclama incredulo: «Come in televisione». Vivono in un campo rifugiati della periferia romana, in cui va in scena l’improbabile incontro con altri immigrati senegalesi. Siamo al principio degli anni Novanta, ma la vicenda ricorda il problema di stretta attualità di tanti richiedenti asilo con giornate “in attesa”, senza fare nulla, tra trafile burocratiche.

All’inizio c’è comunque l’euforia, ma presto passa: «I Tota – racconta Alicka – ottennero l’asilo politico dopo due anni in Italia, tempo sufficiente, questo, per capire che, talvolta, l’invecchiamento degli esseri umani procede più rapidamente del tempo. Simon aveva abbandonato, nel frattempo, le letture nell’ambito della diplomazia, quindi non andava più alla biblioteca del quartiere e accompagnava Vangjel alla sala da biliardo, dove le sue conoscenze diplomatiche non c’entravano molto». Intanto, anche gli altri immigrati albanesi imparano “la storia giusta” per ottenere lo status di rifugiato politico, quella della statua di Enver Hoxha nella piazza di Tirana. Era «molto grande e pesante» – sbotta un impiegato italiano – tanto che in diecimila passati dal suo ufficio dichiarano di aver partecipato all’abbattimento. Tra le pagine proseguono le vicissitudini dei Tota, tra una sorella che attende che il suo Saverio torni dalla guerra in Iraq e un’altra che accetta di partire con un senegalese conosciuto nel campo, con la promessa di un posto da vicemacellaio. Il tutto è descritto con una vena tragicomica. Scorrendo le righe de “Il sogno italiano”, si ride amaro, ma si ride. L’autore, Ylljet Aliçka, viene indicato tra i più importanti scrittori albanesi contemporanei (l’altro suo libro tradotto in italiano è “I compagni di pietra”). Diplomatico in carriera, già ambasciatore in Francia, Portogallo e presso l’Unesco, è stato sceneggiatore di alcuni film, tra cui “Slogans”.

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