“Padre vostro”, il bene e il perdono nel racconto introspettivo di Lou Palanca (Corriere della Calabria)

di Francesco Donnici, del 24 Aprile 2021

Qualche anno fa, un giovane scrittore campano disse che i libri spesso trovano il momento giusto in cui farsi leggere, come se avessero un’anima. Di certo non sapeva che il sesto lavoro del collettivo Lou Palanca sarebbe stato pubblicato nei giorni a ridosso dell’arrivo della morte (causa Covid) nel penitenziario di Catanzaro e della pronuncia della Consulta sull’ergastolo ostativo. Dinamiche di un sistema, quello carcerario, dimenticato: in prima istanza dai piani vaccinali, in definitiva dalla società “fuori”.
L’“anima”, in questo caso, emerge forte dalle pagine di un libro che induce a riflettere sulla capacità dell’individuo e soprattutto della collettività – di questa collettività – di perdonare. Nella capacità, laddove l’elemento centrale è il crimine, di guardare al dopo e non solo al prima.
Il collettivo di scrittura “a geometria variabile”, ad oggi l’unico calabrese, per indurre questa riflessione sceglie la storia di Francesco De Nardo. Nome che ai più non dice nulla se non accostato al suo “prima”, ovvero ad uno dei più tragici fatti di cronaca nera degli ultimi decenni: il delitto di Novi Ligure. Il 21 febbraio del 2001, nella cittadina dell’Alessandrino, Erika De Nardo, figlia di Francesco, insieme al fidanzato dell’epoca, “Omar”, uccideva la madre e il fratellino.
Seguiranno lo sgomento, la negazione, il vuoto, il carcere. La scelta.
Il libro parte proprio dalla scelta di Francesco De Nardo, senza indagare “quello che avrebbe potuto fare, ma quello che ha fatto”. Tale che un padre, figura non direttamente deputata a generare la vita, si rendesse capace di restituirla a quella figlia altrimenti perduta.
Padre vostro, edito da Rubbettino, da pochi giorni disponibile, racconta il dolore, l’amore e il perdono senza imporli, maturandoli attraverso una riflessione interiore, al tempo di un’epidemia globale.

Del perdono: intorno alla figura di Francesco De Nardo

Il libro si apre con una lettera. Lou Palanca scrive a Francesco De Nardo per spiegare perché, tra tante storie, abbia deciso di fermarsi a riflettere proprio sulla sua. È recente la notizia che la figlia Erika, uscita dal carcere, si è sposata. Un “lieto fine” che invoglia a guardare in avanti, inconcepibile – e per alcuni addirittura inaccettabile – se si guarda troppo indietro.
Altre lettere, i celebri scritti di Aldo Moro dalla prigionia, aprono invece ogni singolo capitolo. Già l’incipit chiarisce «l’amarezza», a poco a poco divenuta consapevolezza, che questo libro non conterrà altre voci se non quella dell’autore, che, per la prima volta nella storia del collettivo, narra in prima persona. Lo fa per rendere un’esperienza diretta del travaglio di questi mesi di segregazione e città vuote. Di immagini forti, destinate a rimanere scolpite nella storia e nella memoria. Del buio dell’indefinito che soprattutto durante la “fase uno” fino al “lockdown” invogliava nella ricerca di belle notizie e storie che dessero speranza. “C’è un disperato bisogno di Bene durante una pandemia? Ci può aiutare?” Si chiede l’autore. La risposta è affermativa, anche se il Bene di questo tempo, nella sua gratuità e fuggevolezza, non sarà raccontato nei libri di domani.
E forse in controtendenza rispetto a questa riflessione, l’autore si sofferma su quella che definisce la sua storia «in prima fila».
Protagonista è Francesco De Nardo, o meglio, lo spirito che ha ispirato le sue scelte dopo il “punto di rottura” subìto quel 21 febbraio 2001. Nel pensare la figura, l’autore ne ricorda l’origine calabrese. La Calabria – e in generale le storie di Sud – rimane il fil ruoge delle trame di Lou Palanca. L’ingegnere di Novi Ligure, direttore della Pernigotti, è originario di Maida, in provincia di Catanzaro, ma in pochi lo sanno e ancora meno ne hanno dato notizia. Qui matura un’ulteriore riflessione: “La Calabria sbaglia, perché non riconosce i suoi eroi e insegue la celebrità, l’apparenza, il titolo di giornale che la riscatti in un istante dal suo senso di inferiorità“. Sta tutta qui la volontà di ignorare le storie «in prima fila» come quella di De Nardo per dare risalto alla gloria effimera: così facendo si evita di guardare negli occhi ciò che si potrebbe essere, ma quotidianamente si rigetta. Venerare la celebrità è più molto più semplice. Gonfiare il petto, in fondo, non richiede che uno sforzo fine a se stesso.
Essere responsabili (e corresponsabili) richiede più sforzo. Perdonare richiede uno sforzo ulteriore. Ecco perché il racconto di Lou Palanca si accende nel capitolo che prende in prestito il titolo dal celebre saggio di Michel Foucault, “Sorvegliare e punire”. L’autore “entra” nelle carceri turbate dalle rivolte della prima ondata. I tredici detenuti morti in quella circostanza sono rimasti senza nome. Da qui l’ulteriore domanda: nella società che si evolve attraverso (e insieme) la pubblicità, può esserci spazio per la “giustizia riparativa” assunta come mezzo per la risocializzazione dei colpevoli? Nell’epoca dove le prigioni si riscoprono incapaci di rieducare e la collettività ripugna istanze umanitarie per i detenuti, la storia di Francesco De Nardo insegna che è possibile, ma tutt’altro che semplice. Ancor più quando il concetto di “comunità” è dilatato fino “alla platea televisiva” che segue processi di spersonalizzazione dei fatti e delle persone di cui dibatte, abbandonandosi al clamore mediatico che ottunde testa e cuore.
“Arriva un momento in cui il dolore non serve più e allora come soffiando un dente di leone per esprimere un desiderio devi lasciarlo andare, riconoscere di poterne fare a meno se vuoi tornare alla vita o se vuoi restituire la vita a tua figlia”. Impossibile dire quali spinte abbiano ispirato le scelte di Francesco De Nardo. Non è essenziale saperlo: più che indagarle, quelle scelte, è importante raccontarle. In questo tempo avaro di empatia prima ancora che di bellezza, essere ispirati da storie come la sua, in rappresentanza dei padri che sono padri, sullo sfondo di altre storie dimenticate troppo presto o da dimenticare, appare necessario.

Del bene: dialogo con Lou Palanca

“La dimensione collettiva è una preziosa ricchezza, è uno strapiombo che si apre sull’infinito. L’individuo mi stanca, mi annoia, mi intristisce“.
Lou Palanca «nasce per sperimentare» e si rinnova plasmandosi attraverso le proprie storie. Così facendo mantiene dei punti saldi che porta con sé tanto in eventuali romanzi gialli, com’era stato l’ultimo, Mistero al cubo, quanto nell’odierna riflessione interiore dell’individuo che trascende l’individualismo. Motivo in più per capire com’è nato quest’ultimo lavoro: «Il libro è fortemente legato al tempo in cui è stato scritto. – racconta il collettivo al Corriere della Calabria – Bisognava parlare di quello che ci accadeva intorno. Ci ha colpito il fatto che ad un certo momento si cercassero storie positive, ma al contempo avevamo la sensazione che durassero poco». La figura di Francesco De Nardo, invece, «attraversava vent’anni».
«Abbiamo iniziato a scrivere quando abbiamo saputo che Erika si era sposata, ci sembrava la vittoria del Bene. È come se De Nardo, attraverso la sua scelta, avesse restituito anche a sé una possibilità. Magari un domani avrà dei nipoti. Non è una cosa scontata».
La scelta è ricaduta su di lui in quanto «figura che ricuce, che ripara i danni». Testimone di una storia di “giustizia riparativa” «che non è vendetta, ma riparazione, ed è un elemento costante in tutto il libro».
L’idea originale era diversa. «A un certo punto abbiamo pensato di non scriverlo perché avremmo voluto sentire lo stesso De Nardo, che non ha mai rilasciato dichiarazioni. Poi abbiamo riflettuto sul fatto che questa figura vivesse al di là di quello che avrebbe potuto raccontarci». Così è nato un libro intorno a De Nardo: «L’idea era farlo diventare una figura di tutti, il padre di tutti. Anche per questo lo abbiamo intitolato “Padre vostro”. Il padre è una figura che parla a tutti e tutti dovrebbe interrogare». Con la speranza «di poterlo incontrare, un domani, per discuterne insieme».
Di fatti, il libro si chiude con la promessa di un viaggio. Un intento mutato, ma non sfumato rispetto al momento in cui era stato concepito.