Strenuamente antiscientifica

di Giuseppe Bedeschi, del 14 Ottobre 2013

Dal “Domenicale” del Sole 24 Ore del 13 ottobre 2013

La scienza e il pensiero scientifico non hanno mai trovato, nel nostro Paese, un terreno favorevole, né nell’alta cultura né nelle ideologie politiche. Agli inizi del Novecento, Benedetto Croce affermava, nella sua Logica come scienza del concetto puro, che «le scienze naturali non erano altro che edifizi di pseudoconcetti», che con le loro “astrazioni e matematizzazioni”, «mutilavano la vivente realtà del mondo, onde le cose venivano fermate e contrassegnate per ritrovarle e servirsene all’uopo. Non già per intenderle»: talché esse venivano ridotte a “oggetti senz’anima”. E parimenti “senz’anima” era per Giovanni Gentile la scienza: in essa «c’era sempre un difetto, una certa materialità e astrattezza, che era, in fondo, l’astrattezza del logo astratto (e di un logo concreto decaduto a logo astratto)»: donde la «tendenza logicamente necessaria della scienza» a percepire la natura come una realtà “senza fini, estranea allo spirito”.
Nelle ideologie politiche, dicevamo, le cose non sono andate meglio: anche qui la scienza, e l’organizzazione industriale del mondo moderno intimamente legata agli sviluppi della scienza, sono state spesso oggetto di critiche aspre e distruttive. Il fascismo, in nome dell’Uomo Nuovo che doveva nascere dalla Rivoluzione nazionale, contrappose alla società industriale l’ideale arcaicizzante del “ritorno alla terra”, per salvare l’Italia da quello che Mussolini chiamava con disprezzo il “supercapitalismo”: al quale imputava la «standardizzazione del genere umano dalla culla alla bara», che aveva trovato nella società americana la sua realizzazione più compiuta e pericolosa. Di qui l’accanita, instancabile polemica degli intellettuali fascisti contro l’America.
Su queste premesse filosofiche e ideologico-politiche si soffermano largamente, e giustamente, Elio Cadelo e Luciano Pellicani nel loro bel saggio Contro la modernità. Le radici della cultura antiscientifica in Italia. Gli autori mostrano anche come questa ispirazione antiscientifica caratterizzi non solo le ideologie “di destra”, ma anche importanti filoni delle ideologie “di sinistra”. Basti pensare alla enorme fortuna che da noi ebbero nel Sessantotto e negli anni successivi le opere della Scuole di Francoforte. Fu uno straordinario revival di autori tedeschi emigrati negli Stati Uniti (Adorno, Horkheimer, Marcuse, eccetera), i cui scritti non avevano avuto largo corso prima. Gli autori della Scuola di Francoforte si ispiravano a un hegelo-marxismo, in cui Hegel aveva completamente sopraffatto Marx: mentre per questi, infatti, il capitalismo aveva un ruolo fondamentale nella storia, quello di sviluppare enormemente le forze produttive, con l’applicazione della scienza ai processi produttivi (e di qui un alto apprezzamento per la scienza medesima), per i filosofi “francofortesi”, invece, la struttura metodica delle scienze naturali era un prodotto della reificazione capitalistica, sicché le scienze venivano messe sotto accusa in quanto manifestazione genuina del capitalismo. Se questa critica era importata (massicciamente) dall’estero, non mancarono da noi teorizzazioni fatte da studiosi italiani in questa direzione. Nel 1976 un gruppo di fisici pubblicò un libro (che ebbe allora vasta eco), L’ape e l’architetto, a cura di un noto fisico, Marcello Cini, il quale scriveva che non era sufficiente «fermarsi alla critica dell’uso capitalistico della scienza, ma occorreva spingersi oltre, fino a esaminare se anche nel tessuto stesso della scienza – nei suoi contenuti e nei suoi metodi, nella scelta dei problemi da risolvere e nella definizione delle priorità da rispettare, nella stessa formulazione delle sue ipotesi e nella costruzione dei suoi strumenti – non si potessero rintracciare le impronte dei rapporti sociali di produzione capitalistici, nell’ambito dei quali essa veniva prodotta». Di conseguenza, «non solo la cosiddetta razionalità economica, ma la stessa pretesa razionalità scientifica si identificavano con la logica irrazionale del capitalismo». Era assolutamente necessario, pertanto, denunziare in tutti i modi la natura irrimediabilmente classista della scienza.
Questo atteggiamento negativo verso la scienza, proveniente da tante direzioni e da tanti rivoli diversi, ha inciso senza dubbio sulla mentalità media degli intellettuali italiani, e quindi della nostra classe dirigente in senso lato. Così non può meravigliare il fatto che il nostro Paese mostri una stupefacente insensibilità per i problemi della ricerca e dello sviluppo scientifici, e che in questo settore vitale siamo inchiodati da quasi trent’anni a una spesa che oscilla tra l’1,1 e l’1,3 % del Pil (che è la metà della media europea). E non solo: in Italia c’è il numero più basso di ricercatori in campo scientifico rispetto ai Paesi del G8: solo 70mila rispetto ai 640mila del Giappone o ai 147mila del Regno Unito. Tutto ciò non è certo frutto del caso, come Cadelo e Pellicani mostrano in capitoli appassionanti.

Di Giuseppe Bedeschi

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