L’Europa ci strozza: ecco perché non cresciamo (Cronache del Garantista)

di Paolo Savona, del 16 Luglio 2015

Da Cronache del Garantista del 15 luglio

Dopo la mia lettera aperta a Pier Carlo Padoan pubblicata su «Milano Finanza» del 1° maggio scorso mi hanno scritto in molti chiedendomi chiarimenti sul perché ritenessi che spingere le esportazioni non sia soluzione efficace per la ripresa della crescita e dell’occupazione in Italia e che occorra invece rilanciare la domanda interna. Lo ripeto, le imprese capaci di esportare devono farlo, anche approfittando dell’euro debole, ma per il sistema nel suo complesso l’effetto sulla crescita non potrà essere tale da portare il saggio di sviluppo sopra il 3-4%, necessario per sperare di solo cominciare a riassorbire la disoccupazione alle attuali dinamiche delle innovazioni tecnologiche. Senza rilanciare la domanda interna, cominciando dalle costruzioni, la speranza che si ottenga questo risultato resta un’illusione.
L’Italia ha già un avanzo di bilancia corrente estera dell’1,9% del pil su base annua, ossia vive al di sotto delle risorse che produce senza poterle mobilitare a causa dei vincoli fiscali europei che accetta di rispettare.
A queste condizioni il sistema bancario non aiuta la crescita endogena della domanda interna perché i rischi che corre sono troppo elevati e, per giunta, non li sa valutare. Nella stessa condizione di eccesso di risparmio inutilizzato vi sono 7 tra gli 8 Paesi principali dell’Unione Europea, Olanda e Germania in testa con un attivo rispettivamente di 9,2 e 7,6% del loro pil. L’unica che si distingue è la Francia, con un modesto passivo di bilancia estera (-0,9%) e un eccesso di disavanzo pubblico significativo rispetto ai parametri europei (-4,2%); in breve il suo è l’unico modello simile a quello americano e inglese che prescinde dai vincoli europei. L’euroarea presenta attualmente un risparmio inutilizzato di circa 300mld di dollari e una disoccupazione dell’11,3%. La mente corre agli equilibrismi finanziari escogitati per attuare il Piano Juncker di investimenti europei che hanno invece disponibile risparmi in eccesso che non vengono utilizzati perché la politica monetaria e fiscale non si prefiggono di rilanciare la domanda interna. Attraverso le riforme destinate a migliorare la competizione delle merci europee la politica europea programma di peggiorare questo quadro: è una vera vergogna sociale che crea disoccupazione. Gli Stati Uniti e il Fondo Monetario Internazionale denunciano da tempo questa grave lacuna.
A Maastricht si è dato vita a un vitello d’oro da adorare, senza speranza che scenda un Mosè con tavole diverse da quelle dei Trattati europei che l’Italia ha troppo affrettatamente firmato. Sono stati anche provati i successivi inasprimenti del Patto di stabilità, che avrebbe dovuto avere una parte per lo sviluppo, e del fiscal compact. Non c’è un leader di Paese membro, non uno, che gridi «basta!» Tutti però si lamentano, chi perché si fa troppo poco, chi perché se ne fa troppo. Il documento inviato dal Governo italiano a Bruxelles per «completare e rafforzare l’EMU» tenta una conciliazione tra l’irreversibilità dell’euro, il rispetto dei parametri fiscali e la domanda di maggiori riforme, che condivide, con le difficoltà frapposte a una politica di rilancio della domanda interna.
Dopo i guai che gli accordi di Maastrict e le politiche monetarie restrittive hanno causato per inseguire le fisime dei bilanci pubblici in pareggio e le paure dell’inflazione dietro l’angolo, tardivamente la Bce si è data una politica che ha rimosso il contrappeso degli attivi e passivi di bilancia estera sull’euro, ottenendo una svalutazione rilevante del cambio e lanciando ancor più le esportazioni, sia tedesche che degli altri, italiane comprese. Per farlo la Bce ha però ratificato le politiche di austerità che gravano sulla domanda interna e si è guardata bene di applicare il suo quantitative easing direttamente alla crescita dell’attività produttiva, ad esempio nel settore delle costruzioni, prendendo come obiettivo l’occupazione, come hanno fatto gli Stati Uniti.
Questa politica è sbagliata ed è stata passivamente accettata dalla Banca d’Italia, che ha posto fine al suo tradizionale e indispensabile ruolo per l’Italia di centro di analisi e propulsivo dello sviluppo. La crisi italiana è crisi dell’indipendenza di giudizio e di azione della Banca d’Italia, perché il Parlamento e i Governi sono in tutt’altre faccende affaccendati e non hanno mai avuto un centro studi equivalente a quello della nostra Banca centrale e quel poco che aveva lo ha smantellato.
Restano tracce di questa cultura e del ruolo svolto dalla nostra Banca centrale nelle Conclusioni finali di quest’anno, allorché vengono criticate la mancata condivisione dei rischi da parte della Bce in sede di attuazione della politica di quantitative easing, le lungaggini nella trattativa con la Grecia e nell’attuazione del Piano di investimenti per l’Europa. Ma nel complesso però il modello condiviso resta quello della Bce e dell’Ue: «Interventi e riforme volti a innalzare la produttività e il potenziale di crescita», ossia operare dal lato dell’offerta e non della domanda.
E’ tragico che di fronte a una situazione favorevole come quella che si è presentata – energia che costa un terzo rispetto al passato, il mondo pieno di finanza inutilizzata, l’euro svilito, abbondante mano d’opera e risparmio in eccesso – la Banca d’Italia non abbia guidato, visto che crede nell’irreversibilità dell’euro e nelle supreme sorti che attendono l’Europa (dimostri però di crederci veramente!), un’operazione di sistemazione a lungo termine del debito pubblico italiano, dando se necessario a garanzia il patrimonio pubblico. Esistono Paesi e imprese che offrono titoli con scadenza a cento anni a tassi non superiori a quelli medi pagati attualmente dall’Italia, che finiscono facilmente nei portafogli dei fondi di investimento e dei sistemi pensionistici mondiali affamati di rendimenti, sui quali le già citate Considerazioni finali si soffermano con preoccupazione. Perché non lo fa anche l’Italia? E’ tragico che il Governo, approfittando della situazione favorevole, non abbia promosso un’azione energica di rilancio della domanda interna, chiedendo una diversa applicazione da parte della Banca d’Italia, ossia di non acquistare titoli del debito pubblico in circolazione, ma finanziare nuovi investimenti pubblici. In ciò denota una povertà di preparazione scientifica in materia economica, e anche di afflato ideale e sociale, che sarebbe stato invece legittimo attendersi in quanto si dichiara di sinistra. Non siamo quindi vittime di economisti morti come sostenne Keynes, ma di economisti vivi, ma poco vegeti. Non si può pretendere che un manipolo di giovanotti entusiasti, mossi dall’abilità di un signore che si sa muovere bene nella politica spicciola, abbiano il coraggio di intraprendere questa difficile strada controcorrente in Europa, scommettendo di vincere la sfida e andandosene a casa se non riescono a farlo.
Perciò affermo che l’acquiescenza della Banca d’Italia alla politica europea, essendo l’unico centro politico cosciente e con un servizio studi organizzato e teoricamente dotato di una visone globale, è la componente oggi dominante della perpetuazione della crisi italiana.
Quando capiremo che il punto è questo, spero che non sia troppo tardi per rimediare.
Lettera aperta a Pier Carlo Padoan
Si sente ripetere in continuazione che bisogna fare le riforme per migliorare la competitività e, a quel punto, la ripresa dell’economia italiana diverrà soddisfacente.
Viene però trascurata l’indicazione dello schema di riferimento economico entro cui questa politica andrebbe attuata. Eppure è il fondamento logico su cui basare tutte le decisioni. Tralasciamo come la pensa in proposito l’Europa, divenuta patria di superbie intellettuali inaccettabili, ma accettate senza far nulla, e veniamo all’Italia.
L’economia del nostro Paese presenta un avanzo di parte corrente della sua bilancia estera che The Economist colloca a 42 mld di euro su base annua, pari circa il 2% del suo pil; è questa una percentuale di eccesso di risparmio che, se impiegata all’interno, potrebbe portare la nostra crescita a livello tale da consentire una ripresa dell’occupazione. Ciò di cui abbisogna il Paese è quindi di tramutare l’eccesso di risparmio in domanda interna, meglio dal lato degli investimenti, ma andrebbe bene anche da quello dei consumi. Invece si suggerisce di rafforzare le riforme per migliorare la competitività delle nostre esportazioni, ossia aumentare il nostro surplus sull’estero, essendo proibito in Europa varcare la soglia del 3% di deficit di bilancio pubblico per riciclare nell’economia l’eccesso di risparmio che causa deflazione. La conclusione è che non resta che seguire la via deflazionistica inventando piccoli marchingegni che diano l’illusione che l’intero Paese sia in condizioni di uscire dalla crisi. La Francia ha un passivo di bilancia estera di circa l’1%, usa cioè risparmio estero per sostenere la domanda interna, e la Spagna un attivo inferiore a mezzo punto del rispettivo pil, nonostante abbia il doppio della disoccupazione dell’Italia. Come Marco Fortis non si stanca giustamente di ripetere, il grado di competizione dell’Italia sul mercato globale è evidentemente molto più elevato di quello dei due Paesi latini. Lo schema di riferimento per i tre Paesi considerati è quindi diverso, ossia sollecita politiche ad hoc, mentre si tenta di calarne una sola, sia monetaria che fiscale, con conseguenze scoraggianti. La risposta sarebbe di permettere scelte consone alle situazioni da affrontare, non quelle scritte nei manuali di Bruxelles.
Se continuiamo a chiamare politiche di austerità quelle imposteci dai Trattati europei che abbiamo inconsciamente firmato, confondiamo una malattia grave con un’influenza stagionale e si preferisce pensare che quando verrà la primavera delle riforme il malessere passerà. La Grecia, che avrebbe bisogno di una politica specifica, da tempo viene sospinta verso il default o la rivoluzione sociale.
Le riforme sono e devono essere, caro Ministro, e ben lo sai, processi lenti e continui per assorbire le tossine accumulate nei decenni, dove le cure da cavallo non solo non possono essere pratiche – e, infatti, non lo sono – ma possono entrare in conflitto con la realtà economica da affrontare. Come quella che deve essere affrontata, che richiede maggiore domanda interna, l’unico modello di sviluppo che può funzionare, e non maggiori esportazioni, come quelle che si auspicano. La percentuale di esportazioni è pari a circa un quinto del totale. Come è possibile affidare ad esse il compito di trainare l’intera economia? Ciò non significa che una singola impresa esportatrice non possa aumentare la sua presenza all’estero se può, ma che la polita deve indirizzare il suo intervento verso l’aumento della domanda interna. Poiché la spending review richiede un consenso più generale e la riduzione delle tasse non è praticabile perché abbaiano i cani da guardia, non resta che riaccendere il motore dell’edilizia, che ha sempre ben funzionato. L’obiezione che le imprese edili hanno abusato di questo strumento macroeconomico non vale, perché l’abuso, quando c’è stato, è stato permesso dagli organi dello Stato ed è da questi che si deve partire.
Queste sono vere riforme urgenti coerenti con il modello di riferimento della nostra economia. So bene che l’obiezione consueta è l’esistenza del nostro debito pubblico, che paralizza le scelte perché si vuole che le paralizzino. Mi domando perché, approfittando dei bassi tassi e dell’abbondante liquidità, non si riprende in mano un’operazione straordinaria di allungamento del debito a condizioni vantaggiose per i titolari, ponendo a garanzia il patrimonio dello Stato, secondo le linee che tempo addietro su MF-Milano Finanza ho avanzato con Michele Fratianni e Antonio Rinaldi. So altrettanto bene che quando si parla di «usare» il patrimonio pubblico si raddrizzano i capelli di molti benpensanti, spero non i tuoi. Vogliamo disfarci di questo macigno che grava sul nostro futuro? Oppure esso è necessario così com’è per mantenere il controllo politico della situazione, come accadde con il Governo Ciampi? Se il livello del debito funge nell’immediato da barriera protettiva contro le pressioni per maggiore spesa pubblica, nel più lungo andare – e già ci siamo – è un nodo scorsoio attorno al collo del Paese.

Di Paolo Savona

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