“Giornale di guerra 1915-17” di Mussolini e la vita primitiva in trincea (Barbadillo.it)

del 8 Gennaio 2016

Da Barbadillo.it

A lungo dimenticato dagli storici, torna in libreria – a partire dal prossimo 14 gennaio – il diario dal fronte del soldato Benito Mussolini (Giornale di guerra. 1915-1917, pp. 336, euro 16, con numerose illustrazioni e cartine, Rubbettino Editore), in un’edizione curata dalla storico Alessandro Campi, autore della lunga introduzione e delle oltre 300 note che corredano il testo e ne fanno una sorta di edizione critica.
Mussolini partì per il fronte, richiamato con gli appartenenti alla classe 1884, il 3 settembre 1915 e fu inquadrato nell’XI reggimento bersaglieri. La sua esperienza di guerra terminò il 23 febbraio 1917, dopo il ferimento causato dallo scoppio accidentale di un lanciamine nel corso di un’esercitazione. Antimilitarista quando militava nei ranghi del socialismo massimalista, Mussolini era poi divenuto uno dei più convinti sostenitori della partecipazione italiana alla Prima guerra mondiale. Lasciata la direzione dell’Avanti!, il 15 novembre 1914 aveva mandato in edicola il ‘Popolo d’Italia’, divenuto l’organo ufficiale degli interventisti.
Il suo diario, sotto forma di corrispondenze di guerra, fu pubblicato sul quotidiano milanese tra il dicembre 1915 e il febbraio 1917. Fu poi riproposto in volume negli anni del regime, a partire dal 1923, ma in versioni censurate, dalle quali erano spariti tutti i brani critici nei confronti della religione e della Chiesa (finalmente ripristinati nell’edizione Rubbettino).
Proponiamo un estratto che si riferisce alle prime settimane della guerra di Mussolini: quelle del suo battesimo di fuoco sull’Alto Isonzo (successivamente sarebbe stato trasferito col suo reggimento in Carnia e nel Carso friulano).

DAL “GIORNALE DI GUERRA” DI MUSSOLINI
13 settembre 1915
Ore due: sveglia e in rango. C’è da ricevere la cinquina, un paio di scarpe da fatica, una coperta da campo e una scatoletta di carne da consumare durante il viaggio. Quest’operazione dura un paio d’ore. I bersaglieri si pigiano dinanzi alla fureria. È l’alba! «Zaino in spalla!».
In marcia verso la stazione. Il treno è pronto, ma si parte con un lieve ritardo. Siamo 351, compresi i tre ufficiali, un tenente e due sottotenenti, che ci accompagnano. Occupiamo i vagoni. Nell’attesa, una donna completamente vestita di nero taglia i gruppi delle persone raccolte attorno al treno e si getta fra le braccia del marito che parte. Il marito, col ciglio asciutto, si divincola dolcemente dalla stretta affettuosa e incuora la donna che si allontana, adagio, colle mani sulla faccia, per nascondere le lacrime. È l’unico episodio patetico della partenza. Il nostro vagone è adornato di rami. Una prima scossa. Un fischio breve. Ecco: il treno va. Addio! Addio! Un agitare convulso di mani fuori dai finestrini e un gridare tumultuoso: Addio! Addio! Poi canti a voce spiegata. I miei amici gridano: Viva l’Italia!
14 settembre 1915
Sveglia alle cinque. Sento che le mie ossa sono un po’ ammaccate. Un’ora di marcia, con uno zaino che pesa trenta chili, mi rimetterà in forma. Siamo nel cortile dell’accantonamento e attendiamo l’ordine di partire per Caporetto.
Nella notte romba il cannone, verso Gorizia. Nell’accampamento, vigilato dalle sentinelle, silenzio alto. Si «sente» la guerra.
16 settembre 1915
Mattina fredda. Sull’Isonzo è un velo di nebbia. La notizia del mio arrivo a Caporetto si è diffusa. Discorsi e impressioni. Due sodati d’artiglieria. Accidenti! A sentirli, il nostro esercito è quasi interamente distrutto; l’Inghilterra dorme, la Francia è spezzata, la Russia finita.
Durante la distribuzione del rancio, un capitano medico mi cerca tra le file. «Voglio stringer la mano al direttore del Popolo d’Italia».
17 settembre 1915
Verso sera giungiamo nella zona battuta dall’artiglieria austriaca. Fischiano nell’aria, col loro sibilo caratteristico, le granate. Sono formidabili. Qualche bersagliere è un po’ emozionato. Io che marcio in fondo alla colonna, incoraggio coloro che mi stanno vicini.
Passata la prima e comprensibile emozione, la marcia faticosa con lo zaino completamente affardellato riprende, sotto il fuoco abbastanza accelerato dell’artiglieria nemica. Una granata scoppia vicino a una colonna di muli, ma non fa vittime. Un’altra cade e scoppia in prossimità di un gruppo di bersaglieri e solleva un turbine di schegge.
Un bersagliere grida che è ferito. Ha avuto la clavicola frantumata. Un’altra granata scoppia accanto a un altro gruppo nel quale mi trovo io. Spezza diversi grossi rami di un albero. Siamo coperti di foglie e terriccio. Nessun ferito.
Sabato, 18 settembre 1915
Ci siamo accovacciati fra i sassi, sotto le stelle. Un ufficiale è passato fra noi e ci ha ordinato di caricare i fucili e di innestare le baionette. Nessuno, per nessun motivo, deve abbandonare il proprio posto!
Alle dieci è incominciata l’azione. Ecco il pam secco e fragoroso dei fucili italiani. I fucili austriaci affrettano il loro ta-pum. Le «motociclette della morte» incominciano a galoppare. Il loro ta-ta-ta-ta ha una velocità fantastica. Seicento colpi al minuto. Le bombe a mano lacerano l’aria. Dopo mezzanotte il fuoco è di una intensità infernale. Razzi luminosi solcano ininterrottamente il cielo, mentre si spara disperatamente su tutta la linea. Raffiche di pallottole scrosciano sulle nostre teste. «A terra! A terra!», si grida.
23 settembre
Siamo a 1897 metri d’altezza. Il pendio della montagna è del settantacinque-ottanta per cento. Una vera parete. Guai a rotolare un sasso! Per salire e scendere ci gioviamo di una corda che, legata agli alberi, va dal Comando della compagnia al posto estremo di collegamento, in fondo valle. Ieri sera, pioggia eccezionale di bombe. Sono bombe che si annunciano con un sibilo curiosissimo. Quasi umano. Sono lanciate col fucile. Se trovano il terreno molle, non scoppiano. Ma ieri sera sono scoppiate quasi tutte. Nessuno di noi ha potuto chiudere occhio. Un morto e un ferito.
25 settembre 1915
Stanotte dalle due e trenta alle quattro e un quarto sono montato di vedetta per la nostra squadra che si trova a un posto avanzato. Era con me, altra vedetta, un certaldese. vero toscano del paese di Boccaccio: ogni parola due bestemmie. Sono stato con orecchi ed occhi spalancati, ma nessuno si è visto. Quattro bombe sono scoppiate a pochi metri dal nostro posto. Luna velata da nubi bianche. Veniva dal burrone il tanfo dei cadaveri dissepolti. Il bel tempo è finito. Ieri, ancora il sole, un po’ stanco, del settembre; oggi la nebbia, la pioggia, il freddo dell’inverno. Turbinìo di foglie che cadono con rumore secco sui nostri teli da tenda. I miei compagni, della prima squadra, accovacciati come me sulla nuda terra, nel cavo di una roccia, dalla quale filtra l’acqua, sono silenziosi. Qualcuno dorme. Piove.
27 settembre.
Sul terreno tormentato e sconvolto sono disseminati, in disordine, bossoli di proiettili d’ogni calibro, giberne, scarpe, zaini, pacchi di cartucce, fucili, cassette di legno sventrate, tronchi d’alberi abbattuti, reticolati di ferro travolti, scatolette di carne vuote con diciture tedesche e ungheresi, fazzoletti, teli da tenda. Qua e là sono degli austriaci morti e malamente sepolti. Tra gli altri un ufficiale.
10 ottobre.
Mattinata meravigliosa di sole. Orizzonte limpidissimo. Si ordina la statistica dei caricatori. Ogni soldato deve averne ventotto. Ore dieci. Uno shrapnel è passato fischiando sulle nostre teste. In alto. Non trascorrono cinque minuti, che un secondo shrapnel scoppia con immenso fragore a tre metri di distanza del mio «ricovero», a un metro appena dalla tenda del mio capitano. Ero in piedi. Ho sentito una ventata violenta, seguìta da un grandinare di schegge. Esco. Qualcuno rantola. Si grida: «Portaferiti! Portaferiti!».
Sotto al mio ricovero ci sono due feriti che sembrano gravissimi. Un grosso macigno è letteralmente innaffiato di sangue. Gli ufficiali sono in piedi che impartiscono ordini.
Quando lo spettacolo della morte diventa abitudinario, non fa più impressione. Oggi, per la prima volta, ho corso pericolo di vita.
Non ci penso.
11 ottobre 1915
La vita in trincea è la vita naturale, primitiva. Un po’ monotona. Ecco l’orario delle mie giornate. Alla mattina non c’è sveglia. Ognuno dorme quanto vuole. Di giorno non si fa nulla. Si può andare, con rischio e pericolo di essere colpiti dall’implacabile «cecchino», a trovare gli amici delle altre compagnie; si gioca a sette e mezzo o, in mancanza di carte, a testa e croce; quando tuona il cannone, si contano i colpi. La distribuzione dei viveri è l’unica variazione della giornata: di liquido, ci dànno una tazza di caffè, una di vino e un poco di grappa: di solido, un pezzo di formaggio che può valere venti centesimi e mezza scatoletta di carne. Pane buono e quasi a volontà. Di rancio caldo, non è questione. Gli austriaci, tempo fa, hanno bombardato coi 305 le cucine e hanno fatto saltar per aria muli, marmitte e cucinieri.
16 ottobre.
Qui, nessuno dice: torno al mio paese! Si dice: tornare in Italia. L’Italia appare così, forse per la prima volta, nella coscienza di tanti suoi figli, come una realtà una e vivente, come la patria comune, insomma.
19 ottobre.
Notte agitata. Bombardamenti lontani e profondi. Dicono che è in direzione di Tolmino e Gorizia. L’«azione» sembra fissata per domani. Sole. Comincia il concerto maestoso, formidabile delle nostre artiglierie. Chi sta, anche per una giornata sola, sotto il bombardamento di un centinaio di cannoni che sparano simultaneamente, riporta una impressione indimenticabile, sbalorditiva. Alla sera, si è intontiti. I nervi non rispondono più.
21 ottobre.
Ieri gli austriaci hanno sparato sui portaferiti che passavano per la mulattiera in fondo alla valle. Un portaferiti è stato mortalmente colpito. È nella zona di Tolmino-Monte Nero che romba, da stamani, più profondamente il cannone. Fra un’ora dovrebbe iniziarsi l’azione del nostro reggimento. Il mio battaglione è di «rincalzo» fra il ventisettesimo e il trentanovesimo. Il capitano mi ha proposto, con motivazioni assai lusinghiere, per la promozione a caporale. Mezzogiorno. Una voce ci grida, dall’alto: «Tutti nei ripari!».
Io tardo un poco, ma due granate che sfiorano il nostro riparo mi spingono nella tana. S’inizia il concerto delle artiglierie. Ore lunghe di attesa e di immobilità. I nostri cannoni tuonano sempre per proteggere l’avanzata di alcune squadre del ventisettesimo battaglione. Ore cinque. Usciamo dalla buca, a dispetto del solito cannoncino austriaco che ci batte a shrapnels. Passano, nel crepuscolo, i feriti dell’«azione». Il trentanovesimo battaglione ha avuto cinquantaquattro feriti e nemmeno un morto. Intanto gli austriaci hanno incendiato il «boschetto» per impedire la nostra avanzata. Le fiamme altissime arrossano l’orizzonte.
22 ottobre.
Tre mine di proporzioni colossali sono state fatte scoppiare dagli austriaci sulla cima dello Jaworcek, sollevando un turbine di macigni e di sassi. Nessuna vittima.
23 ottobre
Non comprendo perché si faccia una distribuzione quotidiana di grappa ai soldati. In quantità minima, è vero, ma si dà ai soldati una pessima abitudine. Il «sorso» d’oggi predispone al bicchierino di domani. Inoltre c’è chi riesce qualche volta a berne troppa e offre uno spettacolo poco edificante.
La nostra guerra, come tutte le altre, è una guerra di posizione, di logoramento. Guerra grigia. Guerra di rassegnazione, di pazienza, di tenacia. Di giorno si sta sotto terra: è di notte che si può vivere un po’ più liberi e tranquilli. Tutta la decorazione della vecchia guerra è scomparsa. Lo stesso fucile sta per diventare inutile. Si va all’assalto di una trincea colle bombe, colle micidialissime granate a mano. Questa guerra è la più antitetica al «temperamento» degli italiani. Eppure colle nostre meravigliose facoltà di adattamento ci siamo abituati alla guerra delle trincee, alla guerra del fango, dell’insidia continua, che pone il sistema nervoso a una prova durissima. È straordinaria la resistenza ai disagi e al freddo dell’alta montagna, in uomini che vengono da paesi dove non nevica mai.
30 ottobre.
Notte agitata. Ieri sera gli austriaci hanno fatto esplodere una mina di proporzioni enormi. Pareva che tutta la montagna dovesse «saltare». Le signorine impiegate del Credito Italiano, sezione di Milano, mi hanno mandato due grossi pacchi di indumenti di lana. Prima novità gentile di questa mattinata grigia di pioggia e raffiche.
1 novembre.
L’ingegnosità dei soldati italiani si rivela nelle trincee. Avere una candela in trincea è un privilegio, consentito soltanto agli ufficiali, e non sempre. Ma i bersaglieri hanno risolto, con la massima economia di mezzi e con la più grande semplicità di apparecchi, il problema della illuminazione serale. Le notti sono ora così lunghe! Si prende una scatola di carne in conserva vuota. Si versa dentro un po’ d’olio di scatola di sardine, insieme a un po’ di grasso liquefatto della scatoletta di carne. Colle pezze da piedi, debitamente sfilacciate, si fa lo stoppino che si immerge nell’interno, mentre una delle sue estremità esce fuori da un buco praticato verso il fondo della scatola. Si accende e se lo stoppino è bene inzuppato, si ottiene una luce un pochino più scialba di quella di una lampada ad arco, ma sufficiente per leggere e scrivere una lettera. Provare per credere.

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