Un’«Ultima cena» di piombo e di cera (Corriere della sera)

di Stefano Bucci, del 19 Maggio 2015

Da Corriere della sera del 19 maggio

Tra stanza vuota, un tavolo lungo e stretto ispirato all’Ultima cena di Leonardo da Vinci. Una stanza e un tavolo che raccontano però anche altre variazioni sullo stesso episodio ad opera di altri grandi maestri della pittura: Duccio di Boninsegna, Andrea del Sarto, Cosimo Rosselli, Andrea del Castagno. Gregorio Botta (Napoli, 1953) per la sua mostra alla Triennale di Milano ha cercato di non fermarsi solo ad una rappresentazione «classica» della religiosità. Ma piuttosto di proporre una lettura nuova di quel momento.
Nata dalla collaborazione tra la Triennale e l’Università Iulm di Milano, la mostra (curata dagli studenti del Corso di Laurea magistrale in arti, patrimoni e mercati coordinati da Vincenzo Trione con Anna Luigia De Simone e Renato Boccali) rilegge e attualizza l’Ultima cena in virtù di una più generale riflessione sulla sacralità del nutrimento,proprio nell’anno dell’Expo, dedicato a tutto il cibo del mondo.
Per questo progetto Botta ha preso a modello la Cena di Emmaus, quando Gesù appare ai discepoli dopo la Crocifissione: «Per me l’Ultima cena è sempre stata questa, quando tutto è compiuto, quando si apre un altro tempo dopo la Resurrezione, quando il momento della tristezza è finito e comincia quello della gioia». All’interno della grande sala della Triennale l’artista ha collocato un tavolo lungo e stretto con una intenzione precisa: dimostrare che quella tovaglia non è semplicemente «una inquadratura stupefacente di una forza visiva impareggiabile», ma anche il simbolo evidente di un confine da superare, di una soglia che va oltrepassata lasciandosi vincere «dal senso di comunione che abbatte tutte le barriere tra gli uni e gli altri, tra gli uomini e il creato, tra la terra e il cielo».
Il tema del nutrimento, inteso in senso corporeo e spirituale, è stavolta stato concepito come un rito di condivisione. Il tavolo coperto di una tovaglia-sudario di piombo è diventato la soglia di un luogo familiare (che Botta ha replicato, in lino, sulla parete della stessa sala), le dodici coppe di cera hanno voluto rievocare il gesto del dare e del ricevere. Mentre l’acqua e la parola (proiettata in forma di luce) si sono trasformati in mezzi per esprimere «quella consapevolezza di un’esistenza transitoria, che ci spinge a lasciare delle tracce scritte per mantenere la nostra stessa memoria nel corso del tempo».

di Stefano Bucci

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