Alberto Benegas Lynch (h) e la postverità socialista (Opinione.it)

di Andrea Mancia, del 2 Ottobre 2023

È da oggi in libreria un volumetto, pubblicato dall’editore Rubbettino nella collana “La Politica” diretta da Dario Antiseri e curato da Claudia Razza, che ci porta per la prima volta in italiano la voce del più noto e autorevole degli economisti argentini, Alberto Benegas Lynch (la “h” che segue il suo nome sta per hijo, figlio dell’omonimo padre, pure economista e intellettuale liberale di grande prestigio, attivo soprattutto negli anni Quaranta e Cinquanta), il quale da quasi mezzo secolo – da una posizione accademica eminente (professore e rettore universitario e presidente della sezione Economia dell’Accademia Nazionale delle Scienze) e con una prospettiva liberale e liberista a tutto tondo – sviluppa un’approfondita riflessione di carattere etico-politico e svolge un incisivo ruolo nella formazione dell’opinione pubblica argentina. Già dal titolo si manifesta l’orientamento politico e culturale dell’Autore: La postverità socialistauna critica dell’ideologia comunista oggi ramificata in quella sorta di dittatura culturale che si definisce “politicamente corretto” e, al tempo stesso, una difesa del liberalismo, dei princìpi e dei valori che ne hanno caratterizzato la storia e che ne definiscono la presenza nella società. Qui la critica della postverità è connessa con la valorizzazione del concetto di libertà, intesa come il cardine antropologico, etico e politico su cui organizzare una società che sia aperta e che al tempo stesso, abbinando al concetto di libertà quello di verità, custodisca l’orizzonte storico-culturale della civiltà occidentale ovvero la tradizione ebraico-cristiana. Così si difende la libertà dalle aggressioni totalitarie e si protegge la verità dall’ideologia del politicamente corretto.

L’interesse intorno a questo libro, che raccoglie articoli pubblicati su vari quotidiani argentini tra il 2017 e il 2018, è ben chiarito da Renato Cristin nel saggio che introduce il volume, e risiede nel presentare una dimensione teorica – il liberismo economico e il liberalismo di coscienza – che oggi sembra quasi scontata (quasi tutti gli orientamenti politici e culturali vi fanno riferimento) ma che in realtà va costantemente indagata, compresa, ravvivata e diffusa, affinché non resti lettera morta. E in questo senso, il liberalismo di Benegas Lynch è, anche nella forma espressiva di questo suo libro (articoli brevi e di linguaggio agevole), un liberalismo vissuto e insegnato: merito assoluto in una realtà politica e sociale, quella latinoamericana e argentina in particolare, in cui le idee liberali sono osteggiate e spesso addirittura bandite.

L’attualità del libro consiste nel fatto che la teoria economica di Benegas Lynch ha costituito la base del discorso economico e politico di Javier Milei, candidato liberale e liberista alle elezioni presidenziali argentine del prossimo 22 ottobre. Uno degli esiti di maggiore successo di Alberto Benegas Lynch è caratterizzato infatti dall’influsso che il suo insegnamento ha avuto su Milei. Quando Benegas Lynch dice che Milei è “un miracolo per l’Argentina”, intende che la coincidenza fra la candidatura di Milei e le esigenze del suo Paese rappresenta un evento talmente raro e così provvidenziale da poter essere considerato come un miracolo, ma occorre aggiungere che l’evento Milei non si sarebbe prodotto, se alla base non ci fosse stata la grande lezione di liberalismo impartita appunto da Benegas Lynch, del quale Milei – da allievo perfetto – ha non solo acquisito e rilanciato la teoria economica, ma l’ha anche tradotta nel linguaggio politico pragmatico, perfino in quello elettorale, portando così le parole del liberalismo nelle strade ovvero nelle situazioni di vita quotidiana delle persone, infondendo speranza e restituendo dignità a un popolo che finora è stato strumentalizzato e utilizzato dal peronismo, nelle sue varianti, come carne da scheda elettorale; come mezzo e non come fine, direbbe Kant.

La persona intesa come fine dell’agire è invece al centro della riflessione di Benegas Lynch, perché egli concepisce la libertà tanto nell’individualità quanto nella declinazione plurale, come si vede nella sua proposizione forse più nota: “La libertà è il rispetto illimitato (irrestricto) dei progetti di vita degli altri”.

Come spiega Claudia Razza nella postfazione, “irrestricto vuol dire (…) senza restrizioni, e dunque in tal senso non ristretto, bensì ampio; ma – indagando oltre in una sorta di esegesi linguistico-traduttiva – significa al tempo stesso senza ristrettezze, ovvero senza disagio, e quindi, in ultima analisi, senza povertà. Perché rispettando la libertà – nel contesto dei valori con cui essa sta in piedi, che in Occidente sono quelli della tradizione giudaico-cristiana, a partire dai Dieci comandamenti – si ottiene, in proiezione, anche ricchezza (…). Quindi per Benegas Lynch il liberalismo è il rispetto senza riserve, (…) e senza paura, dei progetti di vita di ognuno, di consimili a cui a loro volta è richiesto di rispettare anche il mio, la prima persona – che egli pure rivendica –, e pertanto di non danneggiare (non nocere), né me né alcun altro. In questa dinamica di equilibrio, (…) avere libertà significa dunque anzitutto darne. La definizione è quindi rotonda, tanto semplice quanto completa”.

Lasciar fare e non nuocere: l’attualità della proposta liberale di questo libro è connessa anche allo sconvolgimento che la gestione della pandemia ha causato al senso di libertà radicato nel mondo occidentale. Precisa infatti Claudia Razza: “Proprio al termine di un tempo soffocante in cui il rischio sanitario ha tolto alla dominazione statale anche l’ultimo barlume di decenza, sdoganando il divieto del libero arbitrio e il sequestro di diritti fondamentali, la storia offre una chiave di volta: la libertà torna a essere un reclamo condiviso; non solo la più importante come parola, ma come esigenza nel cuore – e nella ragione – dei fatti (…); non è quindi un caso che, superata l’oscurità dei recenti mesi di chiusura – la pandemia di antiliberalismo che ha nuociuto al mondo intero –, l’editore Rubbettino abbia voluto ospitare la pubblicazione di questo che è un discorso di caparbia apertura”.

E, infine, l’attualità dell’economico in senso stretto. Se l’iniziativa privata viene lasciata libera, ovviamente entro i limiti dell’etica e della deontologia, il successo o il fallimento di un’impresa dipenderanno soprattutto dal libero mercato, ma in ogni caso sarà una questione di carattere privato. Se invece il fallimento avviene a causa della restrizione della libertà da parte dell’autorità statale, esso diventa una dolorosa ferita di carattere pubblico. Per definire il fallimento Benegas Lynch non usa semplicemente la parola “quiebra”, egli sceglie di parlare di “quebranto”, un termine che, come spiega la traduttrice, ha il senso affettivo di “spezzarsi anche nell’animo”, e che spalanca “la frattura (…) tra una parte del popolo che continua a essere diffusamente produttiva e una gestione politica insana che, nell’illusione di fare bottino anche contro ogni calcolo di fattibilità, sprofonda sempre più nella crisi, rendendo insostenibile il sistema, perché dissanguare le aziende significa immiserire (…) anche quel gettito fiscale che lo Stato, fallimentare, da esse non potrà ricavare più. Il quebranto è quindi (…) questo colpo al cuore dell’economia, che mette in luce la libertà come un valore vitale. Perché non si potrebbe più neanche rubare se più nessuno producesse”.

Per gentile concessione dell’editore Rubbettino, pubblichiamo qui alcuni stralci del primo capitolo de La postverità socialista.

“Com’è risaputo, la postverità (o il postfattuale) consiste in un discorso falso che, attribuendo più valore a ciò che fa appello alle emozioni che a ciò che accade nella realtà, ritiene che sia raccomandabile costruire e inventare i fatti invece di richiamarsi a ciò che è vero. A ricorrere per primo a questa terminologia fu, nel 1992, il drammaturgo Steve Tesich riferendosi all’intrigo Watergate, accaduto vent’anni prima. In realtà, nei fatti, ciò finisce con l’essere adeguato per platee ignoranti perfino di temi elementari. Come ha scritto Gustave Le Bon, “è la stupidità ciò che si accumula nelle masse, non il talento (…). La folla è un gregge servile che non può fare a meno di un padrone (…). Non è il bisogno di libertà ciò che sempre predomina nell’anima delle moltitudini, bensì quello di servitù”.

È chiaro che quando si accenna alla moltitudine o alle masse non si deve cadere in un antropomorfismo, poiché in tutti i casi si tratta di individui, in quel caso incoraggiati e stimolati dal gruppo. Allora certi intellettuali dallo spirito autoritario hanno ripetutamente suggerito che per contare sull’appoggio delle masse c’è bisogno di ricorrere a racconti che penetrino nei sentimenti con argomenti superficiali e a effetto. È questo il caso del socialismo, il che non esclude affatto la buona fede di molti dei suoi patrocinatori che credono a piè pari alla narrazione in questione, la quale sostanzialmente si fonda sulla distruzione delle autonomie individuali in favore di un supposto bene di un ente collettivo, per cui è necessario indebolire – quando non addirittura eliminare – l’istituzione della proprietà.

Procediamo adesso all’analisi di questo tema, non senza aver sottolineato, come spesso insisto, che la conoscenza è provvisoria, sempre soggetta a confutazioni. (…) Si tratta di un processo evolutivo che non ha fine, un processo di costante tentativo ed errore nel quale non vi sono parole ultime, come recita il motto della Royal Society di Londra: nullius in verba. Da ciò non consegue un relativismo epistemologico; piuttosto, al contrario, questa posizione significa, da una parte, che sarebbe relativo il relativismo stesso, e dall’altra, che non avrebbe alcun senso la ricerca, giacché non ci sarebbe nulla da ricercare. Ciò di cui si tratta è di compiere sforzi costanti per afferrare particelle di verità nel mare dell’ignoranza in cui ci troviamo immersi. Quando Emmanuel Carrère afferma che “il contrario della verità non sono le menzogne ma le certezze”, ciò che sta dicendo è che le certezze inamovibili cospirano contro la verità, poiché non permettono il dibattito aperto che, appunto, rende possibile l’avvicinarsi al vero. Questa è la ragione per cui è giusto dire che per incorporare conoscenza non vi sia di meglio che adottare l’atteggiamento del buono studente, vale a dire: fare domande e ancora domande, e che, come pure è stato affermato nel miglior stile popperiano, colui che perde in un dibattito vince, poiché porta con sé la ragione del suo contendente.

Riguardo al socialismo dobbiamo insistere, a partire da Ludwig von Mises, che esso è un impossibile tecnico. Indebolendo o eliminando la proprietà privata, i prezzi si sfocano e scompaiono, nel qual caso non è possibile la contabilità né la valutazione di progetti, per cui l’espressione “economia socialista” diviene un ossimoro, cioè una contraddizione in termini, perché non si può economizzare quando non c’è proprietà, e necessariamente si economizza male quando i prezzi non rispondono alle valutazioni incrociate fra le parti contraenti. In realtà il socialismo, in genere con le migliori intenzioni, pregiudica in modo grave specialmente i più bisognosi, e ciò si deve al fatto che non ha sufficientemente indagato il significato dell’economia, ragion per cui non percepisce che l’assegnazione delle risorse, sempre scarse, ad aree non volontariamente decise dai consumatori fa sì che il conseguente spreco ricada su salari e redditi in termini reali, giacché questi provengono solo dai tassi di capitalizzazione. È perciò che generano tanto danno le intromissioni degli apparati statali fuori dai loro compiti specifici, in un sistema repubblicano, di sicurezza e giustizia (che abitualmente sono le mansioni che non compiono i governi).

Indubbiamente il problema dei socialismi (compresi quelli fascisti) non è circoscritto a problemi economici; tanto più allora la questione centrale da considerare in questo contesto è anzitutto quella etica. Per questa ragione ritengo che la migliore definizione di liberalismo sia quella del rispetto incondizionato nei confronti dei progetti di vita degli altri, il che infatti rinvia al campo morale. In questa linea argomentativa risulta di vitale importanza il rispetto della proprietà, del corpo di ciascuno in primo luogo, poi del suo pensiero e della libera espressione del medesimo e, infine, ma non perciò meno importante, dell’uso e disposizione di quanto acquisito legittimamente, tutto sempre a condizione che non vengano lesi uguali diritti di terzi.

L’aspetto interessante riguardo all’ordine naturale preesistente agli esseri umani è che ciò che è buono sul terreno morale, è buono anche nel campo economico e giuridico. Di quest’ultimo ambito interessa osservare il deterioramento del concetto di diritto e la sua confusione con gli pseudodiritti, là dove si pretende di far accettare attribuzioni che implicano un porre mano compulsivamente al frutto del lavoro altrui. In grande misura questo si deve al fatto che non poche facoltà di giurisprudenza laureano studenti che possono recitare a memoria legislazioni, commi e paragrafi, ma non hanno idea di quali sono i pilastri o punti di riferimento all’infuori della norma positiva.

Può darsi che sia finora stato un difetto di noi liberali non aver reso esplicito con sufficiente chiarezza il vincolo stretto fra la libertà e la condizione sociale della gente, fra lo sbrigliare la costruttiva energia creativa e il rafforzamento della dignità di ciascuno. Come ho scritto tante volte, una delle fatiche che noi liberali dobbiamo compiere riguarda la permanente revisione del modo in cui si trasmette il messaggio, e invece di ripetere sonore critiche sull’incomprensione di molti è meglio farsi un esame di coscienza e qualche domanda sull’inettitudine nel trasmettere l’idea. E non si tratta di “vendere bene l’idea”, poiché, a differenza di un dentifricio o un deodorante, di cui ci si limita a mostrare le applicazioni senza bisogno di ripercorrere il processo di produzione, con le idee, se non si tratta di fanatici che le comprano a scatola chiusa, è imprescindibile transitare dalla loro genesi al fine di esibirne i fondamenti. (…)

È poi importante sottolineare, in questa introduzione, che l’appellativo di “neoliberale” è un’invenzione, una caricatura grottesca. Un’etichetta con la quale nessun liberale si identifica. Mario Vargas Llosa illustra l’idea quando scrive: “Mi considero un liberale e conosco molte persone che lo sono e molte di più che non lo sono. Ma, nel corso di un cammino, che comincia ad essere piuttosto lungo, non ho ancora conosciuto un solo neoliberale”. Come pure evidenzio in uno dei lavori pubblicati in questo libro, è rilevante tenere presente che, quando si segnala un problema, di solito se ne segnalano altri di equivalente tenore in altri ambiti, con l’intenzione di minimizzare quello che è sott’occhio, giacché se la questione si generalizza, perde la relativa posizione ciò di cui si sta discutendo.

Questo modo di trattare le cose è stato denominato “la teoria della mandria di elefanti”, ovvero quando si punta a un male, d’altra parte si pretende di inondare di mali il discorso con l’idea di relativizzare il problema: quando qualcuno segnala un elefante, ne irrompe sulla scena una mandria allo scopo di intorbidare la prospettiva. La cosa importante in questi casi è non perdere di vista quanto detto, poiché la moltiplicazione di problemi non giustifica l’esistenza del problema analizzato in primo luogo.

Nella narrazione della postverità socialista si colloca in prima fila la strampalata idea della cosiddetta giustizia sociale che ha avvelenato il discorso deviandolo dagli alvei della giustizia come tale. La postverità socialista fa lievitare in chi ne è convinto anche una dose di opportunismo a immagine e somiglianza di quel personaggio tenebroso che portava il nome di Joseph Fouché, il quale irruppe nella controrivoluzione francese come moderato, ma, accorgendosi della maggioranza radicalizzata, si piegò a essa e redasse un furioso primo manifesto comunista nel 1793 noto come Editto di Lione, e continuò a esercitare il potere nell’era napoleonica come pure nella prima parte della restaurazione della monarchia, attraverso Ministeri che controllarono l’azione di polizia.

La varietà di temi pubblicati in questo libro risponde alla concezione integrale del liberalismo che, come ribadisco nel capitolo su La fatica dell’economista, non è passibile di essere spezzettata: siccome si tratta del rispetto incondizionato verso i progetti di vita di ciascuno, esso è consustanziato in tutti i possibili risvolti nelle relazioni interindividuali, il che non toglie le radicate concezioni che il liberale può avere sulle proprie condotte e valori personali che non riguardano la sua vita con il prossimo.

La tolleranza o, meglio, il rispetto non significa affatto adesione ai progetti di vita degli altri. In tal senso il mestiere di economista richiede conoscenze di storia, diritto e filosofia (specialmente di epistemologia), proprio per essere un buon economista. (…) In verità i cosiddetti economisti che si limitano a grafici e statistiche nel contesto della semplice congiuntura devono essere sospettati di essere impostori e di avere scarsa conoscenza della loro stessa disciplina. (…)

Ricordo, in questo stesso senso, una delle lezioni di Leonard Read quando ebbi una borsa di ricerca dalla Foundation for Economic Education nel 1968 presso l’allora School of Political Economy della medesima Fondazione: egli aprì quella seduta spegnendo le luci dell’aula e accendendo un congegno che portava con sé, il quale irradiava una luce molto tenue. Poco dopo Read mostrava all’uditorio come tutti noi fossimo incuriositi da quella ridotta illuminazione, per quindi concludere che quando c’è oscurità il punto luce desta sempre attrazione, cioè in mezzo alla confusione le idee chiarificatrici vengono al centro della nostra attenzione. (…)

Sempre Read, all’apertura delle lezioni alla Fee disegnò due cerchi di differente diametro sulla lavagna, dicendoci che quelle figure illustravano diversi gradi della conoscenza. Quello di maggiore raggio significava maggiore conoscenza rispetto all’altro cerchio, entrambi circondati dall’ignoranza rappresentata dal resto della lavagna. Dopodiché ci invitò a soffermarci a considerare quanto più esposta all’ignoranza sia la circonferenza di dimensioni più grandi, per cui concluse, con Pascal, che quanto maggiore sia la conoscenza, più consapevolezza si ha di quanto poco si conosce. (…)

C’è da sperare che questa raccolta di articoli aiuti a pensare e a esplorare svariate vie tendenti a rafforzare i pilastri di base della società aperta, e a lasciarsi alle spalle la postverità socialista”.