I demoni del Mezzogiorno: cosa succedeva quando c’erano i manicomi (esquire.com)

di Gaetano Moraca, del 1 Agosto 2018

Oscar Greco

I demoni del Mezzogiorno

Follia, pregiudizio e marginalità nel manicomio di Girifalco (1881-1921)

Nel 2018 ricorrono i quarant’anni dell’approvazione della cosiddetta legge Basaglia (180/78) che portò alla chiusura dei manicomi, regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio e riformò l’intera psichiatria italiana in senso meno restrittivo e repressivo, con una spiccata attenzione alla riabilitazione psichica e sociale del malato. Nel luglio 2018 il Ministro dell’Interno Salvini dal palco di Pontida si è riferito a quella legge come a “una assurda riforma che ha lasciato nella miseria migliaia di famiglie con parenti malati psichiatrici”. 

Le parole di Salvini si collocano nell’ambito di una precisa dialettica che ha lo scopo di aggregare una comunità che si riconosce intorno ai valori di Patria, Dio e famiglia, che crede nella pulizia e nell’ordine, che respinge e ricaccia chiunque non rientri in questa concezione. Non è un caso che le prime affermazioni politiche sue e dei suoi seguaci abbiano toccato migranti, rom, gay e “malati psichiatrici”, categorie che sparigliano i concetti di ordine e pulizia, all’interno delle quali fino pochissimo tempo fa rientravano anche gli abitanti del Sud Italia.

Di preconcetti, meridionali e malati di mente parla anche il recente saggio dello storico Oscar Greco, ricercatore presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria, intitolato I demoni del Mezzogiorno. Follia, pregiudizio e marginalità nel manicomio di Girifalco (1881-1921) uscito per Rubbettino Editore. Attraverso l’analisi del materiale d’archivio del manicomio (in provincia di Catanzaro, seconda struttura del sud Italia dopo Aversa), Greco offre uno splendido esempio di come l’analisi microstorica sia in grado di fornire aspetti essenziali per comprendere i macro eventi che hanno segnato la società e leggere il presente. Il libro ha due grandi meriti. 

Il primo è dimostrare attraverso lo studio delle cartelle cliniche e della corrispondenza con le famiglie degli internati, che i manicomi, soprattutto a cavallo tra Ottocento e Novecento, erano considerati luoghi idonei alla segregazione dei cittadini ritenuti non presentabili, oltre che di quelli effettivamente malati. Durante il lento processo di formazione dell’identità nazionale i manicomi servivano a nascondere quanti non erano in grado di contribuire alla nascita di questa nuova società e che non s’integravano con i canoni della cultura borghese e liberale. Non per niente Basaglia parlava di discarica sociale volta all’esclusione. 

Dalle carte emerge chiaramente come il manicomio di Girifalco, con la complicità delle autorità locali, diviene presto un ricettacolo di vagabondi, mendicanti, alcolisti, ritardati, ma anche di anziani dementi, malati o persone in fin di vita di cui le famiglie non riuscivano più a farsi carico. A queste categorie di soggetti, di cui fare pulizia, si aggiunge anche un altissimo numero di donne. Al pari delle vere malate, finivano in manicomio tutte quelle donne che si discostavano dall’ideale di sposa e madre esemplare, quelle che non volevano sottostare ai dettami o alla violenza di mariti, padri e fratelli, le adultere, le madri di figli illegittime e anche le donne vittime di stupro. Così come tutte quelle che avevano introiettato una condizione d’inferiorità tale da perdere il senno alla morte o alla partenza (per emigrazione o guerra) dell’uomo da cui dipendevano. E non mancano i casi d’internamento di oppositori politici o di uomini considerati effemminati o “invertiti”, quindi folli. 

Superfluo, ma non troppo, evidenziare che quasi tutti questi malacapitati condividessero la medesima condizione sociale di povertà e analfabetismo. Perché i borghesi o gli altolocati, quando non potevano più celare in casa la propria vergogna, beneficiavano di un padiglione separato dal resto della struttura e di un trattamento privilegiato. Le loro cartelle cliniche, a differenza di quelle dei poveri, abbondano di particolari diagnostici e terapeutici, nonché di attenzioni umane.

I MANICOMI SERVIVANO A NASCONDERE QUANTI NON ERANO IN GRADO DI CONTRIBUIRE ALLA NASCITA DELLA NUOVA SOCIETÀ

L’altro grande merito del libro di Greco è aver evidenziato quanto l’operato della classe medica della struttura calabrese, per altro di provenienza extraregionale, fosse fortemente influenzato dal positivismo lombrosiano, imperniato sulle dottrine della degenerazione e dell’atavismo. Tradotto: il disagio mentale è interpretato in maniera organicistica, ossia si è biologicamente ed ereditariamente folli. Non si tratta di un unicum né di un sintomo di arretratezza della struttura calabrese: è l’approccio usuale di gran parte della psichiatria italiana nei confronti della follia. 

Le teorie lombrosiane arrivarono a sostenere che il malato di mente ha ereditato geneticamente la follia e la esprime attraverso tratti somatici che ne definiscono la forma del cranio e del volto. Questo approcciò trovò facile legame con la teoria delle razze delinquenti (Niceforo, Sergi) che vedeva le popolazioni del Sud come portatrici di tare ereditarie che generano tratti somatici riconoscibili e comportamenti barbari e criminali. Come osserva l’antropologo Vito Teti, il manicomio di Girifalco diventa così il luogo simbolico dell’incomprensione che subiscono i calabresi e i meridionali in genere, nonché sede della costruzione “scientifica” del carattere criminale e inferiore di un’intera popolazione. E in questa visione, aggiunge Greco, è possibile riconoscere anche i segni premonitori di quella tendenza a rappresentare in maniera caricaturale le popolazioni meridionali che tanto poi influirà sulle successive politiche per il Mezzogiorno. 

Ma in questa temperie culturale il manicomio periferico di Girifalco si distinse per la sperimentazione di terapie innovative e progressiste volte alla riabilitazione del paziente e non solo al suo contenimento, circa settant’anni prima delle conquiste di Basaglia. Come le pratiche di no restraint e open door, per cui i pazienti venivano lasciati liberi di uscire dalla struttura e circolare in paese, fino all’ergoterapia, ovvero il trattamento della patologia attraverso il lavoro inteso come strumento terapeutico sistematizzato. 

La struttura contemplava una calzoleria, una sartoria, uno stagnino, un fabbro, un laboratorio di tappeti e di scope, oltre a campi e giardini da coltivare dove pazienti erano impiegati in base alle loro inclinazioni e abilità (seppur è facile notare come ciò comportasse un latente sfruttamento del lavoro degli internati). Le teorie organicistiche subirono ben presto uno scossone sia grazie a risultati positivi di queste pratiche, sia quando si riversarono nei manicomi di tutta Italia, compreso quello di Girifalco, migliaia di soldati dal fronte affetti da nevrosi e squilibri psichici provocati dalla Grande Guerra, ma senza quei requisiti somatici o ereditari cari alle classificazioni lombrosiane. 

Il manicomio di Girifalco col tempo s’inserì gradualmente nella realtà rurale che lo circondava, diventando propaggine attiva della cittadina che lo ospitava. “Sanus Egredieris” (Uscirai Sano) era la promessa scolpita nella pietra della struttura, nonché il titolo del documentario di Barbara Rosanò e Valentina Pellegrino (prodotto dall’Associazione Culturale Kinema e da cui sono tratte le immagini che vedete) che mostra come le pratiche dell’open door abbiano generato una contaminazione unica tra il mondo interno dell’ospedale e quello esterno della comunità. Contaminazione che ha influenzato anche la penna di Domenico Dara che ha ambientato due libri (l’ultimo, Appunti di meccanica celeste, candidato allo Strega 2017) proprio a Girifalco, paese reale e insieme suggestiva Macondo magno-greca, “delimitata a nord dal manicomio e a sud dal cimitero, così che le sue genti si muovevano tutte tra la follia e la morte”.

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