Léonida Repaci e l’anima della Calabria (Corriere della sera)

di Sebastiano Grasso, del 31 Luglio 2015

Da Corriere della sera 31 Luglio

Nel 1926 Orio Vergani fonda a Milano il Premio Bagutta. Nel1929, sotto un ombrellone sulla spiaggia della Versilia, Carlo Salsa, Alberto Colantuoni e Leonida Rèpaci decidono di dar vita al Premi Viareggio. Alla serata inaugurale partecipano anche Luigi Pirandello e Massimo Bontempelli. La prima edizione (1930) viene vinta da due pittori-scrittori: Lorenzo Viani (Ritorno alla patria) e Anselmo Bucci (Il pittore volante). Il
Premio avrà alterne vicende. Con incursioni, sino al ’39, di Galeazzo Ciano e di Lando Ferretti, capo ufficio stampa di Mussolini; poi il Viareggio si interrompe. Riprenderà nel ’45, sempre con Rèpaci presidente, col quale il Premio si identificherà sino alla morte dell’autore de fratelli Rupe, avvenuta nel luglio 1985. Vale a dire trent’anni fa. Naturalmente, navigando sempre in mezzo alle polemiche: dato il temperamento di Rèpaci, non poteva essere diversamente.
«Chi ha carattere ha cattivo carattere» diceva La Rochefoucauld. E di carattere lo scrittore calabrese ne aveva da vendere. Testa più dura d’una roccia, ma anche gran cuore. Bastavano pochi minuti per rendersene conto.
L’ho incontrato a Roma, verso la metà degli anni Settanta, in piazza Colonna. Assieme ad Altomonte, eravamo appena usciti dalla redazione de «Il Tempo» – dove Antonio lavorava – quando Répaci ci fece un cenno dall’altra parte della strada. Passava casualmente da lì e aveva alzato la mano amo’ di saluto. Eravamo diretti ad una trattoria vicina; Répaci si unì a noi. Non fu un dialogo, ma un interrogatorio. Buona parte dei miei compagni d’università erano calabresi e questo lo induceva a fare una domanda
dopo l’altra, mentre aspettava incuriosito le risposte. L’impressione finale? Una splendida persona, di quelle che anche se le vedi una volta sola riescono a lasciarti un segno, anche se minimo.
Fra Rèpaci e Altomonte c’erano 36 anni di differenza, ma avevano tanto in comune. Non solo il luogp di nascita, Palmi (nel 1898, l’uno; nel 1934, l’altro), ma anche il fatto che Antonio lavorasse nel giornale fondato da lui, nel ’44, assieme a Renato Angiolillo. Rèpaci ne era stato condirettore per nove mesi, sino a quando, per dissensi sulla gestione, aveva sbattuto la porta ed era andato a dirigere il quotidiano romano «L’Epoca».
Perì trent’anni dalla morte, Rubbettino – editore dell’opera omnia di Rèpaci – ha deciso di offrire online, a 99 centesimi di euro, Calabria grande e amara, una sorta di zibaldone sulla regione che ha dato i natali anche a Corrado Alvaro e Saverio Strati, uscito la prima volta nel1964 e ristampato dalla casa editrice silana nel 2000, a cura di Luigi Maria Lombardi Satriani.
«Per me la Calabria significa categoria morale, prima che espressione geografica – spiegherà Rèpaci -. Nei momenti gravi della vita, quando nella tempesta delle avversità l’uomo si rivela, ho sentito in me qualcosa di molto somigliante a quegli scogli della Pietrosa dove il mare torna all’innocenza primordiale in uno scenario gigantesco di rupi che salgono la montagna, ripetendo il mito dei Titani lasciati a scalare il cielo». Ecco, qui c’è tutto Rèpaci.
Guardando il suo viso, che talvolta poteva sembrare arcigno, soprattutto per le sopracciglia cespugliose e le labbra sottili, si aveva la sensazione di trovarsi davvero davanti a una sorta di «innocenza primordiale». La qualcosa richiama un’espressione rivolta dal poeta russo Evgenij Evtushenko a un suo amico, davanti al Politehnicheskij di Mosca: «Qualunque cosa facciamo, tu ed io, siamo sempre innocenti».Per un poeta non potrebbe essere diversamente.

Di Sebastiano Grasso

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