Benedetto Croce davanti al fascismo (lanostrastoria.corriere.it)

di Gerardo Nicolosi, del 29 Gennaio 2021

Eugenio Di Rienzo

Benedetto Croce

Gli anni del fascismo

Sui liberali italiani nel passaggio attraverso il fascismo e nella fase fondativa della Repubblica esiste ormai un buon numero di studi e diverse sono state nel tempo le considerazioni sulle ragioni della svalorizzazione, in sede storiografica, che ha interessato la famiglia politica che pure era erede diretta dei “padri fondatori” dell’Italia unita. Fra queste ragioni, non si può fare a meno di considerare il fatto che i liberali italiani siano stati percepiti non solo come i portatori di una politica fallimentare e inadeguata ai tempi, di cui era stata prova il crollo del sistema seguito alla Grande Guerra, ma anche come coloro che, almeno sino al discorso del 3 gennaio del 1925, avevano fiancheggiato Mussolini nella sua scalata al potere. Rientra nell’ambito di questo complesso tema il recente volume di Eugenio Di Rienzo, dal titolo Croce. Gli anni del fascismo (Rubbettino Editore), uno studio in cui sono ben evidenziate le tappe del periodo forse politicamente più travagliato dell’esistenza del più grande intellettuale del Novecento.

La prima forte indicazione che emerge dal volume è quella relativa all’importanza del Croce “politico”, una dimensione per anni passata in secondo piano rispetto agli studi sul Croce filosofo, storico o letterato, se si fa eccezione per il ponderoso saggio, in due tomi, di Raffaele Colapietra del 1969-1970, oggettivamente ormai datato e animato da una preconcetta tendenza anti-crociana. Crediamo perciò di dover dare ragione a chi già qualche anno fa sosteneva che il ruolo politico di Croce sia stato negli anni sottovalutato, malgrado i suoi quarantatré anni di presenza in Senato, gli incarichi ministeriali in periodi particolarmente difficili della vita nazionale e la carica presidenziale assunta nel Pli, anche questa accettata, in un periodo turbolento, e “onorata” in modo tutt’altro che passivo. È stato scritto inoltre che questa sottovalutazione può essere stata indotta dallo stesso understatement di Croce, essendosi professato in molte occasioni come un «semplice uomo di pensiero».

In uno scritto del 1944 pubblicato sul «Risorgimento Liberale» di Mario Pannunzio dal titolo La superiorità ai partiti, che suonava come un vero invito all’impegno politico nell’ora in cui era necessario il massimo sforzo comune per risollevare le sorti dell’Italia, Croce giudicava, invece, come un sofisma – se pure, come ogni sofisma, basato su «una indubitabile verità» – l’affermazione che «scienza, storia, filosofia e poesia sono superiori alle contingenze della vita pratica, e anzi nascono per un atto di liberazione da quelle contingenze». Era piuttosto vero il contrario, infatti. E cioè che «il filosofo, lo scienziato, lo storico, il poeta è sempre un uomo che vive il mondo che lo circonda», essendo pura illusione, coltivata soprattutto da «certe teste deboli romantiche», continuava Croce, pensare che un intellettuale debba «sottrarsi ai doveri che gli spettano come uomo, non curarsi della propria famiglia, non curarsi della patria e chiudersi in una torre d’avorio». A proposito di sé stesso, Croce sottolineava però il suo essere stato per gran parte della vita soprattutto un “fuori partito” e di avere represso per molto tempo «ogni velleità di intervento nella politica», per la quale gli pareva «di non esser fatto», per non essere specificamente preparato a entrare nella trincea della politique politicienne, proprio per la natura dei suoi interessi intellettuali. In quello stesso scritto, Croce datava alla fine del 1924 il suo “calarsi” a pieno nell’agone politico, attraverso l’iscrizione al Pli, spintovi dal fatto che «il contrasto col fascismo pervenne a un punto nel quale non c’era più da nutrire illusioni».

Anche Di Rienzo nel suo saggio opta per una revisione dell’immagine di Croce giudicato come un inerme teorico e lo raffigura anzi come un politico realista, mosso piuttosto dalla convinzione della «durezza della politica», contrario agli astratti filosofismi settecenteschi ai quali opponeva un « concreto e vigoroso liberalismo nutrito dell’amara esperienza dello storicismo». Sarebbe questa la chiave per spiegare la buona disposizione di Croce nei confronti del primo fascismo, consapevole, come d’altronde larga parte del popolo italiano, che fosse la giusta soluzione per un Paese sull’orlo della tempesta perfetta di un collasso, economico, sociale e istituzionale. Di grande interesse sono dunque le pagine dedicate da Di Rienzo al sostanziale «equivoco» che indusse Croce e i liberali a vedere, sbagliando ogni calcolo, nel capo del fascismo l’uomo che, dopo aver sconfitto la minaccia della rivoluzione bolscevica, si sarebbe ritirato nell’ombra, alla stregua di una fuggevole comparsa della scena politica nazionale o al più di «nuovo Cincinnato» (il paragone fu avanzato da un altro liberale, Gaetano Mosca), pago di aver ripristinato «il normale funzionamento del sistema rappresentativo così come era accaduto a Roma nei migliori tempi della Repubblica, quando qualche volta, per la salvezza della patria, si ricorreva, per brevi periodi, alla dittatura provvisoria».

Questa disposizione nella fase della scalata al potere di Mussolini fu infatti anche di altri intellettuali, vicini all’ideologia liberale, se si pensa ad economisti come Maffeo Pantaleoni, Einaudi, Umberto Ricci, Alberto De Stefani, che fu ministro delle Finanze di Mussolini nel 1922 e che puntò ad una liberalizzazione dell’economia italiana che suscitò i favori di Luigi Einaudi. Quell’Einaudi che avrebbe visto nel fascismo il potente maglio capace di abbattere il conglobato improduttivo degli antichi e dei novissimi interessi costituiti, non senza risparmiare parole di lode rivolte ai «giovani ardenti che chiamarono gli italiani alla riscossa contro il bolscevismo», i quali avevano riportato la vittoria nella contesa ingaggiatasi «tra lo spirito di libertà e lo spirito di sopraffazione». Certo, non mancarono, sin dagli esordi dell’avventura mussoliniana, anche in area liberale, le voci discordanti e premonitrici dell’avvento della dittatura – nel saggio, Croce. Gli anni del fascismo, si ricordano quelle di Giustino Fortunato, Giuseppe Antonio Borgese, Guido D’Orso, Luigi Albertini, Ugo Zanotti Bianco e di altri happy few – ma l’autore restituisce bene quella che in casa liberale era una convinzione largamente condivisa.

Abbiamo possibilità di riscontrare quanto sostiene Di Rienzo, grazie ad un breve e dimenticato opuscolo pubblicato da Quintino Piras, il primo Segretario generale del Pli, poco prima che tutte le voci di dissenso fossero spente. A proposito del programma varato nel 1922 al primo Congresso di Bologna del Pli, in cui al primo punto vi era la «restaurazione in Italia dell’autorità dello stato», Piras si esprimeva in questi termini: «Perché negarlo? Eravamo forse più fascisti dei pochi fascisti di allora – se per fascismo si intendeva l’unione degli animi che volevano forte e rispettata nel mondo una Italia i cui figli fossero fratelli e non nemici, un’Italia in cui il tranquillo lavoro fosse la fonte di ogni benessere economico e sociale».

Questo dunque il clima che spinse Croce a dare fiducia a Mussolini, nella convinzione che quando il liberalismo degenera può essere benefico un periodo di sospensione delle libertà a patto che si restauri «un più severo e consapevole regime liberale», anche se questa affermazione, bisogna ammetterlo, è qualcosa di diverso da una piena conversione al fascismo che mai avvenne nel filosofo. D’altronde, la necessità di protezione dello Stato liberale era un problema non nuovo, avvertito almeno dalla crisi della Destra storica in poi e che si era riproposto in termini molto aggravati all’indomani della Grande Guerra. Nel delineare questa dinamica, il volume Di Rienzo si segnala anche per la capacità di ricostruzione degli opposti sentieri del liberalismo italiano (da Salvatorelli a Gobetti) avversi a settori cioè che confluirono convintamente nel fascismo, giustificandone l’esistenza come esito inevitabile del regime liberale. Molto puntuale in questo senso è la riproposizione della presa di distanze da Croce da parte di Gentile, quando questi ne metteva in evidenza l’impegno politico e la proposta di un nuovo liberalismo da lui giudicato “democratico”.

L’atteggiamento “benevolo” verso il regime che perdura anche nell’estate della “crisi Matteotti”, ha termine solo nel 1925, quando inizia un’altra storia, quella di Croce “oppositore”, per dirla con Gobetti, che diventò, scrive Di Rienzo, «il polo più forte e più autorevole, se non addirittura il solo, di tutto l’antifascismo italiano non emigrato». Ciò avvenne con La Storia d’Italia dal 1871 al 1915 del 1928, e con la partecipazione al VII Congresso Internazionale di Filosofia di Oxford nel 1930, in cui per la prima volta Croce avanzò il tema della “religione della libertà” e del senso storico come sintesi di civiltà e cultura. E questa parabola proseguì con la Storia d’Europa del secolo XIX (1932) e la Storia come pensiero e come azione (1938), opere sulle quali si formò tutta una generazione politica, non solo liberale, che segnano un percorso di sfida aperta e senza concessioni al fascismo.

Il lavoro di Di Rienzo ha però come obiettivo dichiarato sin dalle prime pagine quello di andare oltre non solo all’immagine dell’intellettuale désengagé, come dicevamo sopra, ma anche a quella di un Croce «liberale da sempre, forse addirittura liberal», la cui figura invece, come nel caso di tutte le grandi personalità intellettuali, necessita di una analisi che attraversa le luci e le ombre del loro pensiero. È vero infatti che dal fascismo Croce ne uscì come il capo indiscusso del liberalismo italiano, ma pur sempre, nella versione di Di Rienzo, lo fu come il portatore di un liberalismo conservatore, con qualche punta di autoritarismo, in cui era presente comunque anche la necessità di un pur moderato disegno riformistico.

Croce, infatti, sostiene Di Rienzo, cessato il suo giovanile innamoramento per il socialismo e per Marx critico degli ideali giusnaturalistici e profeta della violenza levatrice della storia, venuta meno l’infatuazione per il pensiero anti-sistema di Georges Sorel e per quello dei teorici tedeschi dello «Stato potenza», come Heinrich Treitschke, per il quale l’intima essenza dell’organizzazione politica era, appunto, «la forza, la forza e ancora la forza», che lasciarono in lui tracce più durature, fu sempre un uomo d’ordine. Un grande borghese, insomma, con un alto e orgoglioso senso dello Stato, della sua autorità e della sua missione costruttiva ma anche repressiva, in continuità con l’eredità ideologica trasmessagli da Silvio Spaventa. E, per meglio, dire, Croce rappresentò l’esponente idealtipico di un «liberalismo di frontiera», come quello italiano, scrive ancora Di Rienzo, che, fin dal 1861, dovette usare, per difendersi dalla duplice minaccia dei «rossi» e dei «neri» (per citare Guido de Ruggiero), mezzi eccezionali e straordinari andando persino al di là dei limiti posti dallo Statuto.

Croce fu, insomma, un liberale che aveva appreso (e qui senza facili forzature di Di Rienzo evoca, sommessamente, la necessità di un parallelo con la coeva meditazione di Carl Schmitt), la lezione della «triste scienza» dell’Adelchi di Manzoni secondo la quale «se una feroce forza il mondo possiede e loco a gentile opera non è, non resta che far torto o patirlo». Era quello, conclude Di Rienzo, un insegnamento che per il direttore de «La Critica» non derivava dalle pagine di Locke, nelle quali, pure, tale concetto è ben presente, ma da quelle di Machiavelli, Cuoco, Vico, da cui emergeva, in una prospettiva quasi agostiniana, l’amara sentenza secondo la quale, proprio per garantire le libertà del «vivere civile», le ragioni della politica dovevano cedere il passo, beninteso solo nel caso d’eccezione, e sempre per un tempo breve e definito, alla politica del conflitto.

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