Quando il fisco immorale blocca la crescita (Il Garantista)

di Florindo Rubbettino, del 30 Aprile 2015

Da Il Garantista del 30 aprile

I dati che emergono dal rapporto 2015 dell’Osservatorio Cna sulla tassazione delle piccole imprese di cui ha dato conto Il Garantista di ieri impongono alcune riflessioni. La leva fiscale costituisce senz’altro la ragion d’essere di quel pittoresco fenomeno rappresentato dallo Stato burocratico contemporaneo e dai suoi derivati locali. È necessaria al riprodursi di questi ultimi, anche a scapito di un’erosione del principio e della prassi della sovranità popolare che distinguono le forme democratiche da quelle autoritarie e totalitarie.
È evidente infatti come l’imposizione fiscale si risolva in una rendita di posizione per gli erogatori dei servizi sociali, spesso monopolisti, a scapito dei loro fruitori. I costi di gestione burocratica dello Stato e degli Enti locali assistenziali sono altissimi, ben al di là delle tasse corrisposte dai cittadini, peraltro a fronte di una qualità di servizi (sanitari, scolastici, ecc.) sempre più insoddisfacente. Tutto ciò è evidente nel nostro Paese e diventa tragicamente paradossale in una regione come la Calabria che scopriamo essere in cima alla classifica del Total Tax Rate e le cui performance sull’erogazione di servizi a imprese e cittadini sono note a tutti.
Se fossimo irriducibili anarchici potremmo concludere lapidariamente, ma con una buona dose di evidenze empiriche maturate nel tempo, che nel nostro Paese la tassazione è inutile, perché non genera giustizia sociale né assicura servizi, ma solo elefantiasi dell’apparato burocratico; è dannosa,perché grava su oltre il 50% dei redditi medi dei cittadini e delle imprese paralizzando la mobilità sociale e frenando crescita e innovazione; è, in ultima analisi, immorale, perché ipnotizza il ceto medio con la suggestione di un “obbligo di solidarietà sociale” che non serve a tutelare i più deboli, né garantisce loro condizioni di esistenza degne e sicurezza sociale.
Come è universalmente noto, il problema fondamentale del nostro Paese e del Mezzogiorno in particolare è la mancanza di crescita, giacché senza crescita economica non vi può essere uno sviluppo integrale delle nostre società (urbane, contadine, industriali, intellettuali). Quando dico integrale, mi riferisco allo stesso tempo ai valori materiali e a quelli immateriali, che sostanziano la vita quotidiana di ciascuno di noi, come singoli e nelle interazioni con gli altri nelle diverse sfere della vita associata. È, questa, inevitabilmente, una visione relazionale, che si contrappone a quella visione monista e top-down la quale vede nel Fisco l’unico legittimo interlocutore del cittadino e delle imprese, cui chiede obblighi e verità, come in uno sciocco gioco da adolescenti. Di più, queste pretese sono avanzate in nome di una presunta, e tutt’altro che facilmente dimostrabile, “equità”: termine davvero controverso, se è riuscito a essere persino inserito nel nome della famigerata agenzia di recupero crediti verso la quale si indirizzano i più veementi strali di una popolazione vessata dall’imposizione fiscale e umiliata dagli sprechi e dall’inefficienza del sistema redistributivo.
Se è vero che non vi è giustificazione alcuna all’antipolitica e alla rivolta fiscale in un Paese democratico, in cui cioè le leve della rappresentanza siano, per quanto compromesse, ancora nelle mani del popolo, occorre d’altra parte accogliere la domanda di giustizia sociale (un concetto eminentemente liberale) insita in questa protesta. In che maniera? Proprio rivalutando il concetto di equità, come suggerisce già da qualche anno Luca Antonini, secondo cui «il traguardo di una maggiore equità può discendere dall’enucleazione di un catalogo di nuovi diritti sociali costruiti sulla base del principio di sussidiarietà e strutturati in modo da recuperare equità e libertà al sistema». A ciò occorre aggiungere senz’altro il riconoscimento di una specifica cittadinanza fiscale delle imprese, in particolare delle Pmi, quale ossatura fondamentale della struttura produttiva del nostro Paese. Che producano beni agricoli, industriali o servizi, esse sono il canale privilegiato in cui la creatività dei territori italiani arriva all’attenzione dei mercati. Sono il volto dell’innovazione del nostro Paese, a patto che siano messe in condizione di crescere e di occupare le menti più brillanti uscite dalle nostre università e istituti tecnici.
È per questo che, sulla scorta dei grandi teorici dell’ordoliberalismo, la cui lezione è oggi riproposta nei lavori di Francesco Forte e Flavio Felice, possiamo affermare che ogni dibattito sul modello di crescita più opportuno per il nostro Paese rimarrà sterile se non inquadrerà la politica fiscale entro una prospettiva di sussidiarietà orizzontale, ovvero in una più ampia “costituzione fiscale”, che contemperi ragioni di equità e di sviluppo, tutelando e premiando chi risparmia nonché chi, come suggerisce Kirzner, in forza della creatività e della “prontezza imprenditoriale” rischia innovando.

di Florindo Rubbettino

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