Stefano Marelli, ”Pochi lettori? Colpa degli scrittori lontani dalla quotidianità”

del 10 Settembre 2013

Da Libreriamo.it del 9 settembre 2013

L’autore del libro “Altre stelle uruguayane”, vincitore del premio Parole nel Vento 2012, spiega il concetto di calcio come riscatto sociale e illustra le differenze tra Italia e USA in ambito letterario

MILANO – Pochi lettori in Italia? Potrebbe dipendere dal fatto che negli anni i migliori scrittori italiani, invece di dedicarsi a temi vicini alla gente comune, abbiano invece quasi sempre scelto argomenti da club esclusivo, utilizzando stili e linguaggi lontanissimi dalla quotidianità delle persone normali. Mentre, negli USA, gli scrittori più validi non si sono mai vergognati di occuparsi di temi comuni e ben conosciuti dalle masse, usando la stessa lingua parlata dalla gente. E’ quanto affermato da Stefano Marelli, scrittore ticinese di origine italiana (Cantù), al suo esordio con “Altre stelle uruguayane” e vincitore del premio Parole nel Vento 2012. L’autore spiega il concetto di calcio come riscatto sociale e illustra le differenze tra Italia e USA in ambito letterario.

Come è nata l’idea di scrivere questo libro?
Io sono sempre stato affascinato dai primi cinque decenni del ‘900. A livello storico, artistico, politico e di costume. Mi sarebbe dunque piaciuto inventare una storia che avesse come sfondo proprio quell’epoca, con tutte le sue contraddizioni, le sue bellezze, i suoi aspetti terribili. Non potendo mettermi a scrivere un trattato di storia, ho scelto dei temi attraverso i quali provare a tratteggiare quel periodo. Il gioco del calcio e il Sudamerica sono fra i pochi argomenti di cui saprei parlare senza fare troppi errori.

Possiamo affermare che il vero protagonista del romanzo sia il calcio?
Il pallone occupa senz’altro uno spazio rilevante in questo romanzo, benché non si tratti di un libro sul calcio. La vicenda -come dice chi se ne intende- è di più ampio respiro. Ad ogni modo, in Sudamerica come in Italia, già all’epoca, questa disciplina era molto popolare e stava per trasformarsi in autentico fenomeno di massa. I gerarchi del fascismo lo avevano capito bene e fecero di tutto per appropriarsene e farne un simbolo di propaganda del regime. I successi della Nazionale italiana negli anni ’30 vennero sapientemente strumentalizzati dalla dittatura. Inoltre, oggi come allora, il calcio offre una possibilità di riscatto sociale e persone che altrimenti non avrebbero alcuna chance di affrancarsi dall’ambiente svantaggiato da cui provengono. E’ proprio ciò che succede al protagonista principale del mio romanzo, la cui esistenza, grazie al pallone, è un continuo alternarsi alti e bassi, splendori e miserie, cadute e ritorni, lusso e povertà.

La storia dei tre protagonisti è molto affascinante ed avvincente. Ha tratto ispirazione da qualche personaggio reale in particolare per definire i tratti del “Brujo”?
Il Brujo è un personaggio del tutto inventato. Ma si inserisce in un contesto storico ben preciso. A partire dalla fine degli anni ’20, le squadre italiane davvero setacciarono il Sudamerica in cerca dei migliori calciatori del continente, a patto che portassero un cognome italiano. Parliamo di gente come Monti, Orsi, Andreolo, Guaita, Mascheroni, Libonatti, Cesarini, Puricelli, Sallustro e moltissimi altri. Questi ragazzi non solo avrebbero fatto la fortuna dei loro nuovi club. Ma, forniti in un lampo del passaporto italiano, sarebbero addirittura diventati la spina dorsale della Nazionale di Vittorio Pozzo che negli anni ’30 vinse tutto ciò che c’era da vincere. Questo, come detto, è il quadro storico in cui inserisce la vicenda del Brujo. Ma le sue vicissitudini, per quanto verosimili, sono del tutto frutto della mia fantasia.

Che cosa l’ha spinta ad intraprendere la carriera di scrittore?
Ho sempre invidiato ai miei scrittori preferiti la libertà di inventarsi migliaia di altre vite e di muovere i personaggi a proprio piacimento. Il bello di leggere, secondo me, sta proprio in questo: poter vivere un sacco di altre esistenze oltre alla nostra. E quando si passa dalla lettura alla scrittura –ho scoperto- il piacere diventa ancor più intenso. Si tratta, comunque, di un lavoraccio. Una volta architettata una vicenda forte e credibile –cosa per niente scontata- poi bisogna decidere come raccontarla. Fra i mille modi possibili di narrare una storia, è davvero complicato trovare quello più efficace. Scrivere in maniera semplice è difficilissimo. Ma, quando ci riesci, è una vera goduria.

Che importanza hanno avuto e hanno i libri nella sua vita?
Fondamentale. Fin da ragazzino. Notti insonni a vivere altre vite, magari in altre epoche, spesso in luoghi magici e lontani. La lettura è sempre stata rifugio, protezione, consolazione. Ma anche apertura, stimolo, scoperta, fuga. Senza i libri, sarei stato una persona diversa, più povera, più triste e meno capace.

Perché, a suo avviso, la lettura e i libri non sono così popolari come lo è il calcio in Italia?
In Italia il calcio è senz’altro molto popolare. Tutti lo seguono e tutti ne parlano. Ma sono proprio pochi quelli che davvero ne capiscono e ne sanno discutere. Tutto si riduce al tifo, all’appartenenza, alla fazione, all’idolatria. Di rado si sente parlare con cognizione di tecnica, di tattica, di storia. Eppure ci sono giornalisti davvero in gamba, che ne sanno scrivere con dovizia. Io però ho il sospetto che i loro lettori abituali raramente vadano allo stadio. Se ne vergognerebbero, temo. Perché in Italia, salvo rarissime eccezioni, gli intellettuali hanno sempre avuto un atteggiamento razzista verso il calcio e i suoi seguaci. Proprio questa attitudine provinciale ha favorito una certa ghettizzazione del calcio, diventato col tempo feudo quasi esclusivo delle masse –diciamo così- meno scolarizzate, quelle che probabilmente non hanno il tempo, la voglia e forse nemmeno la capacità di capire ed apprezzare i migliori editoriali ed elzeviri. E che si nutrono, tutt’al più, dei facili slogan degli opinionisti televisivi, che niente hanno a che vedere con il calcio vero. Tutto ciò ha fatto del male ai tifosi, che si sono sempre più abbrutiti. Ma anche al mondo del pallone, pronto ad assecondare le derive ultras. E alla maggior parte degli intellettuali, che nemmeno immagina quale sublime spettacolo si sia lasciata sfuggire.
Per ciò che concerne i libri, il discorso non è molto diverso. In Italia, stando alle statistiche, ci sono pochi lettori. Potrebbe dipendere dal fatto che, durante gli ultimi 150 anni –quelli dell’alfabetizzazione di massa- i migliori scrittori italiani, invece di dedicarsi a temi vicini alla gente comune, abbiano invece quasi sempre scelto argomenti da club esclusivo. Oltretutto, usando stili e linguaggi lontanissimi dalla quotidianità delle persone normali. Un sacco di seghe mentali e sfoggio di una presunta cultura superiore –insomma- e poca sostanza. Di conseguenza, alle masse poco scolarizzate di cui parlavamo sopra, restavano soltanto i feuilleton, i drammoni popolari e Carolina Invernizio, col tempo sostituiti quasi del tutto dalle telenovelas. Negli USA, invece, gli scrittori più validi non si sono mai vergognati di occuparsi di baseball, caccia, Depressione, New Deal, corse di cavalli, pugilato, e criminalità, tutti temi ben conosciuti dalle masse. E, soprattutto, usavano la stessa lingua parlata dalla gente. Non a caso, i migliori scrittori americani si sono sempre occupati anche di cinema. In Italia, invece, solo di rado gli intellettuali si degnavano di scrivere sceneggiature. E, quando capitava, volevano curare anche la regia. Risultato: i film che ne uscivano erano uguali ai loro romanzi pallosi. Alla gente normale non piacevano e la loro sola utilità stava nel far chiacchierare, a vuoto, le élite istruite e snob. Per contro, i migliori scrittori italiani del ‘900 sono stati gli sceneggiatori di professione. Loro sì che scrivevano storie come si deve, vicine alla realtà della gente, con parole comprensibili a tutti. Scrittori eccezionali di cui, purtroppo, a fatica si ricordano i nomi. Ma erano in gambissima: scrivevano i migliori film del mondo. E le sale erano sempre piene.

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