L’eterna Primavera di Jan Palach (L'Unità)

di Francesco Leoncini, del 11 Marzo 2014

Da L’Unità dell’11 marzo

Se l’andamento delle borse e delle banche è l’indice dello stato di salute delle democrazie, se tutta la complessità sociale è ridotta a logica economica e la logica economica a logica aziendale, la Primavera di Praga può andare in soffitta e con essa tutto l’anelito libertario che animò dal 1953 al 1989 i movimenti di opposizione in quell’ «Occidente sequestrato» (Kundera) che fu l’Europa centrale sovietizzata. Il succedersi delle commemorazioni, ora del ’56 polacco-ungherese, ora della Primavera cecoslovacca, di Solidarnosc oppure della caduta del Muro, può diventare uno stanco rituale o un’operazione puramente accademica e un’occasione eminentemente celebrativa, se non si tenta di dissequestrare questi eventi dall’ambito spazio – temporale in cui si manifestarono, e valutare qual è il messaggio che da essi promana, qual è il contributo che essi possono dare a un’opera di trasformazione politica e culturale nelle società contemporanee percorse da profondo malessere e ad uno snodo forse epocale.
Cosa significa parlare oggi di Jan Palach, rievocarne la sua figura e il suo sacrificio in un mondo in cui spesso la protesta, l’affermazione di un’alternativa rispetto a quello che sembra essere il «pensiero unico», vengono duramente represse o emarginate verso un destino di inutilità? Il suo corpo ardente, ai piedi del Museo Nazionale nella famosissima Piazza Venceslao, voleva esprimere tutto il suo insopprimibile attaccamento a quella che era stata una rivoluzione pacifica fortemente partecipata avvenuta tra il gennaio e l’agosto del ’68 nel suo Paese e che aveva portato alla ribalta il «socialismo dal volto umano». Forse una tautologia, perché il socialismo deve essere «umano», nasce dall’esigenza di dare una vita degna di essere vissuta a quelle classi sociali alle quali questa possibilità viene negata, e tuttora sempre più si allarga la platea degli esclusi. Ma la forma di governo che si era imposta con quel nome in Cecoslovacchia a partire dal 1948, non aveva avuto nulla a che vedere con quell’ideale. Era nata però una speranza e a quella speranza Jan era indissolubilmente legato. Ce Io conferma la dottoressa Jaroslava Moserova, che lo assistette nei tre giorni dell’agonia, dal 16 al 19 gennaio, in una vibrante testimonianza pubblicata nel volume Alexander Dubcele e Jan Palach. Protagonisti della storia europea, curato dallo scrivente per Rubbettino nel 2009. «Egli apparteneva a quella generazione che credeva che la Primavera di Praga di Dubcek potesse avere successo. Molti di noi, non solo la sua generazione, nutrivano ammirazione per tutti quei giornalisti, scrittori, insegnanti, scienziati e persino politici di talento che erano emersi improvvisamente durante la Primavera di Praga e avevano sostituito la falsità e l’ipocrisia del totalitarismo con la verità e la sincerità.
Dopo l’occupazione da parte degli eserciti del Patto di Varsavia, alcune delle persone che ammiravamo negavano le loro precedenti affermazioni, altri persino si scusavano per le opinioni espresse qualche mese prima. Questo era senza dubbio insopportabile per Jan, giovane di altissima integrità che amava la verità. (…) Per tutto il tempo che rimase al Reparto Ustionati egli desiderava solo sentire che il suo sacrificio non era stato vano».Una persona, quindi, un giovane, uno studente che sa di morire e muore felice perché sa di essere stato compreso. Ma da dove veniva tutta questa sua forza d’animo tanto da fare olocausto di se stesso? Non per un atto terroristico, non per un’azione diretta a colpire dei nemici o degli innocenti, ma affinché la fiamma del suo corpo illuminasse la sua gente, fosse di luce ai suoi concittadini. Veniva da una profonda fede nell’uomo. Alexander Dubcek, parlando all’Università di Bologna in occasione del conferimento della laurea honoris causa nel novembre 1988, volle sottolineare: «abbiamo combattuto lungo l’intero corso della nostra storia, meglio sarebbe a dire che abbiamo sofferto a causa dell’umanesimo. Forse non sopravvaluto il carattere delle nostre due nazioni (ceca e slovacca) sostenendo che nel suo profondo, nella sua sostanza sono fissati la serietà, il rispetto per l’uomo e per i grandi valori umani». In precedenza aveva citato il fondatore dello Stato cecoslovacco Tomag Garrigue Masaryk, allorquando aveva dichiarato: «L’umanesimo è il nostro obiettivo ultimo, nazionale e storico». Nei suoi colloqui con lo scrittore Karel Capek nella seconda metà degli anni 20 Masaryk confessava: «La filantropia aiuta solamente qui e là, ma l’umanesimo cerca di migliorare le condizioni di vita tramite le leggi e il governo. Questo è il socialismo». E non poteva esserci sintonia più chiara con quello che avrebbe scritto qualche anno dopo Carlo Rosselli nel suo Socialismo liberale «Il socialismo non è che sviluppo logico, sino alle sue estreme conseguenze, del principio di libertà», poiché «la libertà non sorretta da un minimo di autonomia economica è un mero fantasma».
Ma veniva ancora da molto più lontano quel desiderio di giustizia e di libertà che portava Jan Palach ad immolarsi, quella spinta antiautoritaria e antirepressiva, quel suo disaccordo, quella sua rabbia nei confronti di una dirigenza politica che stava capitolando ai diktat di Mosca. Nasceva dall’humus della storia boema, da Jan Hus, da Petr Chelcicky, il precursore della non violenza, da Jan Amos Komensky (Comenio), il fondatore della moderna pedagogia, dalla contestazione di Jan Hus e dell’hussitismo al primato di Roma, dall’esigenza allora espressa di una profonda rigenerazione del Cristianesimo, dall’affermazione del primato della coscienza sull’autorità, cosa che aveva anticipato di un secolo il protestantesimo di Lutero. Hus afferma la necessità di un rapporto diretto con le Scritture, con la parola di Dio. E Palach si era confrontato sin dall’adolescenza con esse.
Ne dà testimonianza il fratello in un’intervista televisiva condotta da Enzo Biagi nell’aprile del ’90. Alla domanda del giornalista: «Suo fratello era credente?» Jiri risponde: «Sto pensando quanti anni aveva mio fratello, forse sedici, forse meno, quando mi ha detto che studiava la Bibbia e che l’aveva già letta quasi tutta. lo credo che considerasse la Bibbia un’opera storico-letteraria e per questo la studiasse».

UN BLOCCO GENERAZIONALE
Erano tutti questi gli elementi che componevano quella straordinaria «Primavera» del ’68 cecoslovacco ed era la «Primavera » dei giovani. Come ha osservato Gabriella Fusi nella sua analisi sociologica che compare nel citato volume edito da Rubbettino: «Di fatto si era creato un blocco generazionale e ora una generazione giovane, cresciuta nel socialismo, si presentava sullo scenario storico, una generazione critica nei confronti della realizzazione e destinata a partecipare in modo attivo agli avvenimenti». Era quindi tutta «sua», di Palach, quella stagione così coinvolgente e che si sarebbe presto dimostrata «irripetibile». Burning Bush, «il roveto ardente», il film, andato in onda su Rai 3 il 14 e il 15 febbraio, ha opportunamente voluto rievocare quegli eventi ma si è soffermato troppo sugli aspetti polizieschi e arbitrari del sistema nel quale Jan si era trovato a vivere e contro il quale combatteva, poco o niente ha detto da dove veniva e per che cosa era impegnato, riducendo poi gran parte della rappresentazione a una controversia giudiziaria, a una fiction processuale di sapore nordamericano, pur con ottime interpretazioni del ruolo dei protagonisti, la madre, il fratello, l’avvocatessa. Potremmo invece ricordare quanto scrisse Angelo Maria Ripellino su L’Espresso a un anno di distanza da quel tragico evento osservando come lo studente fosse «il portavoce di una splendida gioventù maturata in tempi di cecità e di caligine (…) che è venuta scoprendo le tradizioni bandite dagli accoliti di NovotnY (…) e la dottrina dell’umanesimo e della tolleranza di Masaryk.
Una gioventù ostile alle transazioni e incapace di rassegnarsi». Quando ci si domanda a quali esiti sarebbe giunta la Primavera di Praga qualora avesse potuto continuare il suo corso, penso non si vada lontano dal vero se si risponde che sarebbe approdata a un tipo di sistema sociale quale venne prefigurato nella nostra Costituzione, a quella saldatura tra socialismo, inteso come realizzazione dei diritti sociali, e libertà che è l’anima stessa della Costituzione del 1948 e che si inseriva organicamente nel processo di riscatto democratico che pervadeva i Paesi dell’Europa occidentale nell’immediato secondo dopoguerra con i vasti programmi di riforma approntati dal laburismo inglese, dalla Resistenza francese e dalla socialdemocrazia tedesca. Quest’ultima giungerà al potere con Willy Brandt proprio un anno dopo le vicende luminose e tragiche della Cecoslovacchia. Palach e la sua ostinazione a non arrendersi precorre già Charta 77, il pensiero del filosofo Jan Patocka e di Vàclav Havel nella loro irriducibile lotta contro la «vita nella menzogna».

di Francesco Leoncini

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