La crisi? Produrre e tirar la cintura

di ERMANNO BENCIVENGA, del 21 Gennaio 2013

Il Sole 24 Ore – 20 gennaio 2013

«Il fatto che il progresso tecnico provochi un aumento del numero dei disoccupati» scrive Luigi Einaudi nel 1931, in un saggio ristampato nella raccolta Il mio piano non è quello di Keynes, «è una verità che da tempo nessuno pensa di contestare. Più di cento anni fa, Sismondi aveva già segnalato il paradosso che vede, da una parte, l’incremento continuo della produzione e, dall’altra, l’aumento costante del numero di operai senza lavoro». La depressione iniziata nel 1929 non è che un ulteriore esempio dello stesso fenomeno e gli allarmismi sono fuori luogo: «A leggere taluni articoli di gazzette quotidiane si ha l’impressione di trovarci oggi dinnanzi a un problema mai visto, minaccioso di finimondi e di terribili sconquassi sociali. A parte talune complicazioni belliche, monetarie e doganali, si tratta del solito, solitissimo problema delle crisi da perfezionamenti tecnici».
Rincuorati dal sapere che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, rimarremo però forse turbati dai patimenti che si accompagnano ai cicli capitalisti e riconosceremo apparenze familiari nel leggere Sismondi che dice (nel 1820): «Un grido di dolore si alza da tutte le città manufatturiere del vecchio mondo e vi fanno eco le campagne del nuovo mondo. Dappertutto il commercio è colpito dallo stesso languore, dappertutto esso si imbatte nella medesima impossibilità di vendere». E magari presteremo orecchio a sirene come Keynes, che esortano a stimolare la domanda in periodi di disoccupazione mediante un aumento della spesa pubblica e un sostegno ai salari. Scemenze, proclama Einaudi: questi ragionamenti «non hanno impedito che gli industriali, sotto al peso di salari artificialmente fissi, lavorassero a costi alti e vedessero ridotte vendite ed esportazioni, e che il peso dei sussidi, delle elemosine e dei lavori pubblici conducessero alla disperazione i contribuenti e alla rovina i bilanci statali».
Ma, stabilito che il piano di Keynes non va bene, qual è il piano di Einaudi? Beh, intanto c’è da osservare che «gli uomini sono uomini e non riescono a rimanere dello stesso umor nero per tutta la vita». «La ripresa è in noi e verrà da un mutamento delle nostre opinioni, del nostro sentire, dal color più rosa visto dall’occhio col quale contempliamo il mondo». Data la stura all’ottimismo, ci rivolgeremo alle tradizionali virtù italiche: «l’infrangibile unità familiare» e l’intraprendenza. Naturalmente, la famiglia deve essere laboriosa e fiduciosa: «Dove sono ordine e pulizia, dove la donna di casa non si dice stanca, dove l’uomo non accusa le stagioni avverse, ivi è la prosperità; dove l’aria è infetta e non si sa dove posare i piedi, e si sentono querimonie contro domeneddio e si narrano le meraviglie possibili se ci fossero denari, ivi regnano a giusta ragione miseria e crisi». E, se la crisi è universale, anche l’intraprendenza deve esserlo: quando per i vecchi prodotti non c’è più richiesta occorre inventarne di nuovi, perché «i bisogni degli uomini sono estensibili indefinitamente», soprattutto quelli di «prodotti fini, mutevoli, capricciosi», e sono indefinitamente estensibili anche i mercati: «Se in Cina, in Manciuria, nell’India, nel Messico esistessero governi capaci di tutelare l’ordine, di amministrare giustizia imparziale, di diffondere l’istruzione, quanti più beni i cinesi, gli indiani e i messicani produrrebbero e quanti più beni chiederebbero all’Europa!» Niente paura, dunque: «La cosa più importante è stringere la cintura, produrre e consumare meno beni finalizzati al godimento presente e produrre una maggior quantità di beni destinati al consumo». Il consumo degli altri, mentre noi stringiamo la cintura.
Nella prefazione, Francesco Forte ricorda che «Einaudi ama il linguaggio chiaro, con ragionamenti lineari» e lo stesso Einaudi ci invita a «diffidare delle spiegazioni complicate, macchinose». Ridotta all’osso, la situazione è la seguente: il capitalismo può mantenersi solo convincendoci a comprare oggetti che non ci servono con soldi che non abbiamo e dissipando le risorse del pianeta. Di fronte all’inevitabile sovrapproduzione che lo assedia, ha saputo trovare solo due strategie: sostenere artificiosamente la domanda interna o stringere la cintura. Oggi l’America di Obama favorisce la prima e l’Europa opta per lacrime e sangue. Nessuno di quelli che contano sembra pensare che sia la produzione il problema: che la “crescita” debba andare incontro allo stesso fato delle catene di Sant’Antonio.

DI ERMANNO BENCIVENGA

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