H.G.Wells: «Gli italiani, gran combattenti» (Libero Quotidiano)

di Nicholas Farrel e Giancarlo Mazzuca, del 24 Febbraio 2014

Nicholas Farrell, Giancarlo Mazzuca

Il compagno Mussolini

La metamorfosi di un giovane rivoluzionario

da Libero Quotidiano del 22 febbraio

Quando il futuro Duce raggiunse il fronte per impegnarsi nella guerra di trincea sulle montagne, nel settembre 1915, gli italiani avevano già subito 130.000 perdite (con «perdite» si intendono sia i morti sia i feriti) dallo scoppio delle ostilità, nel giugno dello stesso anno, ed erano avanzati non più di qualche metro. Avrebbero subìto altre 116.000 perdite entro Natale. 7. Questa guerra sulle montagne era a suo modo atroce quanto quella combattuta nelle pianure della Francia e del Belgio. Lo scrittore inglese H.G. Wells – autore de La macchina del tempo e de L’uomo invisibile -visitò il fronte austroitaliano nell’agosto 1916, poco prima della dichiarazione di guerra dell’Italia alla Germania del 28 dello stesso mese. Vide tutti i luoghi principali del conflitto e rimase colpito sia dal coraggio e dalla grinta dei militari italiani sia dalle loro capacità organizzative. Il suo racconto della guerra sulle Dolomiti rende bene ciò che fu la Prima guerra mondiale degli italiani: «L’aspetto di queste montagne è particolarmente torvo e malvagio; sono monti antichi ed erosi che torreggiano in enormi p areti verticali di un grigio giallastro, spigoli appuntiti costellati qua e là da fenditure e guglie con le estremità seghettate e frastagliate; il sentiero sale e passa attorno al bordo della montagna sopravaste pietraie che degradano ripidamente verso dei precipizi. In lontananza si ergono altre masse montuose aspre e dall’aspetto desolato, sulle quali brillano talvolta i segni di vecchie nevi. […] Mentre salivo verso la parte superiore, due feriti stavano scendendo su dei muli. Nonostante fosse metà agosto, erano vittime di congelamento. […] All’inizio tutte queste creste erano in mano austriaca; furono prese  d’assalto dagli Alpini in condizioni pressoché incredibili. Per quindici giorni, ad esempio, salirono combattendo i ghiaioni sui fianchi della Tofana N. 2 fino all’ultima balza, percorrendo forse un centinaio di metri d’ascesa al giorno, nascondendosi sotto le rocce e nelle buche di giorno e ricevendo rifornimenti e munizioni, e avanzando di notte. […] In un’occasione si arrampicarono su per un camino la cui difficoltà alpinistica era ben al di sopra della media. Deve essere stato come prendere d’assalto i cieli. I morti ed i feriti rotolavano in burroni inaccessibili. Scheletri solitari, brandelli di uniforme, frammenti d’arma si aggiungeranno agli interessi alpinistici di queste sparute vette per molti anni a venire. In questo modo venne conquistata la Tofana N. 2.». Wells rimase molto colpito dal coraggio non solo dei militari italiani, ma anche del governo e del popolo italiano. Scrisse: «Io dubito che il popolo inglese si renda conto sia della robustezza economica che del coraggio politico del loro alleato italiano. L’Italia non solo sta combattendo una guerra di prima classe, in maniera di prima classe, ma solo nel combattere affatto, sta facendo una cosa grande, pericolosa, generosa e lungimirante. La Francia e l’Inghilterra furono costrette a combattere: la necessità fu chiara come la luce del giorno. La partecipazione dell’Italia richiese della saggezza più remota. Se non avesse combattuto, sarebbe stata nel lungo andare inghiottita economicamente e politicamente dalla Germania».[…] In parole povere la mentalità dell’italiano singolo è questa: «A noi non piacciono gli austriaci e i tedeschi. Questi imperialismi guardano sempre al di là delle Alpi. Qualunque cosa aumenta l’influenza tedesca qui, minaccia la vita italiana. Il tedesco è un tedesco prima di tutto e poi un essere umano …». Dunque, quella dell’Italia fu, secondo Wells, una guerra «di emancipazione» non solo dei territori italiani sotto dominio austriaco, ma in tutti i sensi.. […] Fu nel maggio del 1917 che arrivò in Italia il mitico scrittore inglese Rudyard Kipling – autore dei due Jungle Books, ma soprattutto cronista romanziere dell’Impero britannico e del suo esercito – per scrivere una serie di cinque lunghi articoli dal fronte per la stampa inglese («The Daily Telegraph») e americana («The NewYork Tribune»). Kipling era stato invitato in Italia dall’ ambasciatore inglese a Roma per motivi di propaganda, ma, nonostante ciò, anche lui, come H.G. Wells nell’anno precedente, era stato sinceramente colpito dalla grinta, dalla disciplina e dal patriottismo dei soldati italiani. Nell’ultimo saggio The Trentino Front, pubblicato il 20 giugno 1917, commentò: «L’Italia inoltre ha rispetto alle altre nazioni – un assai maggiore numero di suoi figli, i quali dalle Repubbliche occidentali, dove si guadagnamolto danaro, son ritornati in patria e si sono stabiliti nuovamente nei loro focolari. (Li chiamano Americani; hanno sfruttato il nuovo mondo, ma amano il vecchio). La loro influenza è largamente diffusa e, operando sull’agilità della mente e del senso artistico nazionale, rende possibile – mi sembra – una maggiore facilità di invenzioni e di singolari attitudini. Aggiungete a ciò la coscienza della nuova Italia, creata dai suoi stessi immensi sforzi e dalle sue stesse necessità, e si potrà avere un’idea approssimativadel grande avvenire che è riservato a questa che è la più vecchia e la più giovane fra le nazioni. )[…] Gli italiani combattono ora come combatte tutta la Civiltà, contro l’anima diabolica dei Boches, che conoscono assai meglio di noi Inglesi, perché furono, una volta, loro alleati. […] ». Queste sono cose ben dure: ma essa è più dura e resistente ancora. […] In un albero, aspettando un treno di mezzanotte, un ufficiale stava parlando di alcune poesie di D’Annunzio, di quelle poesie che effettivamente hanno contribuito a smuovere le montagne in questa guerra. Egli ne spiegava un brano, citando Dante. Unvecchio facchino che aspettava i nostri bagagli stava sonnecchiando rannicchiato in una sedia, vicino ad una veranda. Quando afferrò la lunga vibrazione dei versi, i suoi occhi si aprirono, il suo mento si sollevò dallo sparato della camicia; e rimase così, attento ad ogni verso, mentre il suo piede ne seguiva lievemente la cadenza. Lo storico inglese G.M. Trevelyan (che era ancora in prima linea, al comando del suo gruppo di ambulanze britanniche) si era già posto domande all’inizio della guerra nel 1915 (durante «le notti di fango e sangue»), sullo stato d’animo dei soldati italiani: «Ma ce la faranno a resistere per un altro anno?». Trevelyan ci ha lasciato un ritratto particolarmente evocativo del tipico soldato italiano, che lui chiama «Giuseppe».Giuseppe è un contadino dell’Appennino con una moglie e cinque figli piccoli in carico, che non ha nessuna esperienza della vita fuori del suo paesino, «al di là della sua curiosità simpatica ma ineducata». Ha sentito parlare di Garibaldi e gli austriaci sono, perché questo lo sa, delle «brutte bestie». Sa anche leggere, a differenza del 25 per cento del suo Reggimento, specialmente di quelli provenienti dal sud. Di politica «non sa nulla», ma è silenziosamente sospettoso sia del parroco (che gli dice di non votare perché lo Stato è «malefico») sia del socialista (che gli dice di «impossessarsi della terra»). Sì, le esortazioni di entrambi indeboliscono il suo patriottismo, «che deve essere per forza istintivo piuttosto che inculcato, visto che nessuno glielo aveva mai insegnato». […] E poi venne Caporetto. Il grande storico inglese si meravigliò del patriottismo degli italiani, così forte da sopravvivere persino alla sconfitta schiacciante di Caporetto e alla quasi fatale ritirata successiva. Ecco cosa scrisse a proposito: «Per me la cosa che bisogna spiegare non è perché è successa la Ritirata ma perchè non è successa prima, e come mai l’esercito italiano e la nazione italiana furono in grado di riprendersi e ritirare su il loro morale, ed imporsi una disciplina nuova e migliore? Questi soldati contadini non furono né educati abbastanza per capire gli obiettivi e ideali della guerra come il soldato inglese o americano, né terrorizzati come il soldato nei ranghi nemici. Fu il suo patriottismo istintivo, il suo coraggio naturale, e la sua grinta e pazienza contadinesca, che permise all’italiano di subire per così tanto tempo tali condizioni di vita, e di sopportare la perdita di 460.000 morti, in una popolazione solo la metà della popolazione bianca dell’Impero britannico. […] Era già chiaro che l’esercito ci stava, se il Paese dietro prendesse il coraggio a due mani. Tutto girava attorno a quel «se» tremendo. Ora, nelle anime di 34 milioni persone dagliAlpi alla Sicilia, una battaglia decisiva fu combattuta nel conflitto secolare tra il materialismo persistente e il non meno persistente idealismo tipico della natura italiana. […] La paura condivisa dei«Tedeschi» in arrivo legava tutti insieme in un legame comune di fraternità al quale gli italiani sanno dare così tanta espressione simpatica […] Solo vedere le città di mercato del Veneto, e le loro mura difensive di mattone, e i loro ombrosi e misteriosi colonnati, confortava il cuore. Era impossibile credere che una tale bellezza sarebbe stata consegnata ai Vandali»

di Nicholas Farrel e Giancarlo Mazzuca

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