«Le aree interne non sono un monolite. Le opportunità vanno colte, ma guardando alle nuove generazioni»: la visione al futuro di Luisa Corazza (orticalab.it)

di Maria Fioretti, del 29 Gennaio 2021

Aree interne

Per una rinascita dei territori rurali e montani

a cura di Marco Marchetti, Stefano Panunzi, Rossano Pazzagli

Quali risultati ci aspettiamo dal Piano Nazionale Ripresa e Resilienza? Si riuscirà a mettere insieme tutti i pezzi dell’Italia? E questo continuo ragionare di aree interne è solo piccoloborghismo oppure esiste una consapevolezza, una visione?

 

Di questi temi e di altri spazi abbiamo pensato di discutere con Luisa Corazza: Direttrice del Centro di Ricerca per le Aree Interne e gli Appennini. È Professore Ordinario di Diritto del Lavoro all’Università del Molise, si è formata all’Università di Bologna e ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Diritto del lavoro e relazioni industriali.

 

Tutto il suo percorso di formazione è stato improntato ad un approccio interdisciplinare, orientato all’integrazione tra diritto ed economia, testimoniato dalle esperienze di ricerca maturate all’estero – tra cui quella all’Università della California di Berkeley – nonché dalle implicazioni di carattere economico e sociale che connotano gli studi scientifici e l’analisi dell’attualità.
Accademica, il suo è un impegno lungo e profondo sui temi delle aree interne. Fin dall’anno della sua inaugurazione – 2016 – è stata parte attiva del Consiglio Scientifico del Centro ARIA, partecipando alla stesura del volume Aree Interne. Per una rinascita dei territori rurali e montani , edito da Rubettino.

Si torna a ragionare di terre dell’osso – arrivate addirittura all’attenzione di archistar e media mainstream – che si avviano verso una trasformazione: come le vede dal suo osservatorio?
«Il Centro di Ricerca è abituato a trattare le aree interne prendendo in considerazione molti aspetti, quello sociale, economico, giuridico, ma anche, ambientale, medico, demografico, strutturale, storico e culturale: è un grande tema che ha a che fare con la vita delle persone, con il loro benessere, e va affrontato in una maniera ampia. Perciò è difficile rispondere in una maniera univoca, ci sono segnali positivi e segnali negativi da prendere in considerazione».

Bene, proviamo a privilegiare una visione ottimistica, che futuro si prospetta?
«Il trend di lungo periodo sembra andare verso un progressivo spopolamento e bisogna anche dire che alcune riforme – portate avanti negli ultimi anni – hanno finito col rendere più difficile la vita nelle aree interne, mi riferisco soprattutto all’impatto sul sistema sanitario e sul mondo della scuola. E’ quindi importante tenere alta l’attenzione. Ma, allo stesso tempo, sono visibili quei segnali che fanno pensare ad un’inversione di questo trend e ad un momento di possibile rinascita. Lo vediamo prima di tutto nell’ambito delle politiche pubbliche, dove il problema della coesione territoriale e della necessità di ripensare ai territori dedicando una specifica attenzione alle aree interne è ormai da molti anni nell’agenda politica dell’Italia».

Si riferisce alla Strategia Nazionale Aree Interne?
«La SNAI ha innescato un processo di grande cambiamento, perché non c’è più l’idea che il destino di queste aree sia irreversibile. Oggi sappiamo che l’intervento pubblico può dare una forte spinta verso una politica diversa, che coinvolge gli agenti locali – a partire dai Comuni – e dialoga con le comunità. Un’altra opportunità ci arriva dall’Europa con il Next Generation EU, in cui le aree interne hanno un ruolo tutt’altro che marginale, anzi sono protagoniste di specifici interventi. Quello che è stato fatto dal 2014 al 2020 con la Strategia è stata un’importante piattaforma di lavoro, utile per immaginare le progettualità dei prossimi anni e pensare di fare assolutamente di più».

Abbiamo davanti il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, quale deve essere l’approccio per renderlo efficace sui territori interni?
«Intanto è una soddisfazione vedere al centro del Piano le aree interne. Credo che sia un’ipotesi di lavoro molto interessante che parte da una consapevolezza: l’Italia è un territorio frammentato e i frammenti hanno bisogno di attenzione. Gli interventi devono essere orientati ad un approccio Place-based, quindi legato alla dimensione locale dello sviluppo. Dopodiché c’è la necessità di rendere misurabili i dati, ponendosi degli obiettivi raggiungibili, adatti ai problemi delle aree interne, che non devono essere immaginate come un monolite, perché hanno invece delle specificità territoriali ed è su questa diversità che vanno misurati gli interventi ritenuti prioritari e la successiva individuazione dei risultati attesi, con la valutazione e la certificazione finale. Ci confrontiamo con un’idea di rilancio delle politiche pubbliche europee che guarda alle nuove generazioni».

Ma al di là degli interventi di politica strutturale, cosa ci fa ben sperare per la crescita di questi territori?
«Ci sono fenomeni che prescindono dagli incentivi e anche dalle politiche pubbliche, mi viene in mente la necessità di un riequilibrio tra gli abitanti delle città e quelli delle aree marginali, che si è determinato con questa emergenza sanitaria. Cambia il lavoro – che diventa agile, da remoto – si modifica il modo di concepire la fruizione di alcune utilità, ad esempio si stanno imponendo nuove forme di turismo. Se questi fenomeni dovessero diventare strutturali, anche le scelte delle persone potranno prendere direzioni diverse e potranno avviarsi verso la decisione di riabitare l’Italia marginale. Prima della pandemia, tutto questo era percepito come controcorrente, quasi come eroico, resistente, adesso probabilmente uno scenario di questo tipo risulta meno inusuale. Così è possibile innescare un trend positivo capace di generare esternalità, dalle scelte abitative possono nascere nuove opportunità economiche e da qui si innescherebbe un ciclo virtuoso che si autoalimenta. Dal trasferimento di una famiglia in un piccolo borgo scaturiscono una serie di bisogni e attività che inevitabilmente diventano un volano per l’economia di quel luogo».

Perciò bisogna pensare prima alla vivibilità e poi ai servizi, oppure è la presenza dei servizi a creare vivibilità? Sembra un po’ il quesito dell’uovo e della gallina, ma ci aiuta a capire da dove si parte per costruire questa nuova vita…
«Mettere un punto all’origine di questa grande domanda non è semplice. La SNAI ha avuto il grande merito – nella fase della sperimentazione – di affrontare il problema prendendo in considerazione entrambi gli aspetti, lo sviluppo economico e lo sviluppo dei servizi. Questo proprio perché ci si è resi conto del fatto che le aree interne hanno una peculiarità, ed è la disparità nell’erogazione dei servizi essenziali che costituisce uno dei fattori determinanti dello spopolamento. In questo momento storico, con la diffusione delle nuove tecnologie nell’ambito del lavoro, ci troviamo di fronte ad un fenomeno che non avevamo ancora affrontato. Ci può essere occupazione, anche senza che il luogo di lavoro coincida con la sede dell’impresa e questo determina una grande opportunità, perché le scelte abitative sono state sempre determinate dal luogo di lavoro, storicamente tutti i fenomeni migratori sono legati a questo presupposto. E’ una novità che offre nuove opportunità ai territori, sulla quale è necessario però riflettere, perché a queste condizioni i servizi diventano determinanti. Più viene favorita la libertà decisionale rispetto alle scelte abitative, più dobbiamo dotare i luoghi dei servizi essenziali, altrimenti è inevitabile che il divario non si assottigli. Generalmente, i servizi pre-esistono alle scelte abitative. Ma è vero anche che una volta insediate, le persone contribuiscono a creare sviluppo».

Sono reali dunque le occasioni che stanno venendo fuori da questa crisi: si passa da qui per ridurre il divario digitale, rafforzare i presidi sanitari nelle aree marginali, mettere un argine allo spopolamento?
«Sono tre questioni centrali. Questa crisi può costituire una possibilità, però bisogna fare attenzione. Affinché sia pienamente colta e non resti soltanto una bolla di speranza, senza contenuto, è necessario prendere in analisi le criticità. Molti territori sono ancora isolati rispetto ai servizi digitali, la connessione è scarsa e i progetti della banda larga sono ancora ipotetici. Senza garantire l’accessibilità digitale a queste aree sarà molto difficile andare avanti sulla strada dello sviluppo. Il servizio sanitario poi, è un presidio alla tutela della salute pubblica e – la pandemia ce lo ha insegnato – va assolutamente migliorato e incrementato nel livello dell’assistenza, opponendosi con forza ad un suo eventuale smantellamento e guardando alla tele-medicina o alla creazione di una medicina di prossimità, su cui bisogna avviare apposite sperimentazioni, seguendo i bisogni dei singoli territori».

E lo spopolamento? Resta sempre il punto di partenza…
«Nell’affrontare le criticità delle aree interne del futuro, dobbiamo pensare alle nuove generazioni che potenzialmente le abiteranno. E’ necessario abbandonare una narrazione prettamente riferita al patrimonio del passato di questi luoghi – che pure le rende uniche e preziose – perché temo non sarà più sufficiente per attrarre i giovani. Noto con soddisfazione una rinnovata attenzione verso il coinvolgimento giovanile – sia da parte dell’associazione Riabitare l’Italia, che da parte del Comitato Tecnico Aree Interne – ed è questo per me il traguardo verso cui tendere per disegnare politiche pubbliche che si avviino non tanto verso il contrasto allo spopolamento, quanto ad incentivare il ripopolamento. Spero ci sia questa idea alla base del rilancio».

 

Altre Rassegne