Lo speciale del “Quotidiano della Calabria ” sul nuovo libro di Vito Teti (Il Quotidiano del Sud)

di Dante Maffia, del 3 Agosto 2015

Da Il Quotidiano del Sud 2 Agosto

VITO TETI, Terra inquieta – per un’antropologia dell’erranza meridionale, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2015.

Prima di entrare nel vivo di questo libro che ci porta dentro il cuore vero della Calabria più autentica bisogna sottolineare che Vito Teti lo ha scritto da studioso di antropologia ma soprattutto da romanziere. Infatti si legge come una storia che affascina e coinvolge, e i dati, i documenti, gli studi sono il lievito delle mille situazioni umane e storiche che s’intrecciano e danno il pathos di una condizione che per lungo tempo ha visto la Calabria come una fucina di contrasti e di erranze di cui all’inizio non si comprese neppure la portata e proprio perché “L’emigrazione” veniva vissuta “come una forma di morte”.
E’ estremamente difficile sintetizzare le quasi cinquecento pagine del volume nel quale Vito Teti ripercorre situazioni e condizioni delle varie epoche con riferimenti così precisi e così pertinenti da restare sbalorditi. Perché non si tratta di un argomento, da di cento, mille argomenti, le cui diramazioni si susseguono illuminando anfratti storici e culturali ai quali nessuno finora ha pensato e per il semplice motivo che ognuno si è mosso da studioso trascurando quelle annotazioni così dette marginali che spesso, come in questo caso, sono la chiave di volta per entrare nei segreti di mondi che sembravano blindati nelle valutazioni ormai sacre di critici e di scrittori non solo calabresi.
Vito Teti si muove disinvoltamente in questa immensa panoramica del “calabrese errante” e della “Calabria errante” e lo fa con la consapevolezza di compiere un viaggio necessario per uscire dai luoghi comuni, dai tradizionali risvolti a cui siamo stati abituati e spesso con intenzioni fraudolente.
Il suo punto di vista non è mai apodittico, viene soppesato e valutato alla luce di eventi che tra loro si sono succeduti e ripetuti in varia maniera, e il risultato è una immagine nuova, più vera a se stessa, più scoperta della Calabria.
Probabilmente questo approdo di Teti è dovuto in gran parte alla nuova chiave di lettura che egli ha spostato sul versante letterario e su quello personale, e infatti le pagine spesso hanno vibrazioni autentiche che fanno sentire la bellezza della verità acquisita.
Intendiamoci, Teti non diventa mai generico o approssimativo, tutt’altro, però, a differenza degli altri suoi libri, questo è condotto e portato avanti con una “forza creativa” che appartiene più al poeta e al romanziere anziché all’antropologo. Del resto egli stesso, nella parte iniziale del volume, confessa, proprio come succede ai romanzieri che in alcuni momenti perdono l’ispirazione, di avere messo da parte il progetto, e di non avere avuto voglia di andare avanti per realizzare uno di quei tanti “libri afftettati” di cui ormai sono pieni gli scaffali delle biblioteche di tutto il mondo.
E io dico che ha fatto bene, perché gli argomenti sono via via diventati momenti della sua esistenza, non solo pagine, seppure interessanti, del grande tassello della stroria dell’antropologia. Ci si soffermi sugli spaccati dedicati ai singoli paesi o alle singole persone, al coinvolgimento di se stesso in tanti incontri e si avrà l’idea di come lo scrittore non abbia voluto essere mai semplice tramite di un’idea o di un momento rituale, ma presenza costante che ravviva ogni cosa, paesaggio, paese, contrada, avvenimento o persona.
Vito Teti ha dalla sua la scrittura, pastosa e ariosa a un tempo, sempre precisa, dimostrativa, limpida, e ciò permette al lettore di non essere sopraffatto dalla temperie di riferimenti che costellano le pagine, dal fluire di innesti storici o letterari che illuminano, di volta in volta, le intenzioni sottese del racconto.
Vestendo per un attimo i panni dello studioso di narratologia, direi che Vito Teti ci ha dato un romanzo di memoria (non sociologico o politico, anche se la tentazione era forte), uno di quei libri che al primo impatto è quasi impossibile definire, ma che seguendoli nel loro sviluppo poi acquistano una fisionomia riconoscibile con una identità compatta e delineata perfino nei dettagli.
Ci sono pagine, poi, che isolate diventano racconti memorabili, quelle per esempio, che parlano di Don Massimo Alvaro. Uno spaccato umano che, senza dover ricorrere ad artifici romanzeschi, diventa emblematico e si staglia con nitidezza mostrando altri lati inediti di questa regione errante che, “come emerge dal folklore, ha una potenza d’immagine ed evocativa pari, forse, soltanto a quella dell’ebreo errante”, e che vive “il Doppio e la nostalgia” a cominciare da molto lontano, confermando quel che una volta ebbe a scrivere Corrado Alvaro:”La Calabria è in fuga da se stessa”.
E a proposito di Alvaro, Vito Teti si muove sotto le sue ali con fare discreto e sembra voglia amplificare alcune sue tesi e alcuni suoi racconti, ovviamente con la propria voce e con lo sguardo del presente. Un atto di agnizione molto bello che Teti porta nel suo mondo come un dono inesauribile e da porre in essere per continuare il processo di analisi in atto in tutte le direzioni.
Non nascondo d’essere rimasto affascinato di come Vito Teti abbia saputo coniugare la dovizia di informazioni, di studi, di letture, di indagini a una narrazione che pur restando “cosa”, intesa pasolinianamente, riesce a diventare soffio vitale che si apre verso il futuro. Del resto Carlo Levi, anch’egli citato, è l’autore di un’opera intitolata Il futuro ha un cuore antico, che è la lezione più bella e immediata offertaci da questo scrittore che di libro in libro ci sorprende sia per la bravura e sia per il senso alto degli esempi che si fanno etica ed estetica, bagno nell’avventura dello spirito propositivo della Storia.

Di Dante Maffia

Fra Antico e post-moderno

«Che ci faccio qui?» sembra chiedersi Melusina, la protagonista del racconto di Corrado Alvaro,immortalata sula tela da un pittore forestiero mentre il mondo contadino a cui appartiene sta per scomparire. «Che ci faccio qui?» è la domanda dei calabresi che arrivati a milioni in America tra Ottocento e Novecento inventano un mondo che non avrebbero saputo neanche sognare. «Che ci faccio qui?» è forse la domanda che si fanno i profughi che passano il Mediterraneo e arrivano sulle coste della Calabria. Una domanda di senso che risuona nella mente di chi fugge e chi resta, di tutti gli spaesati che provano, in qualche modo, ad appaesarsi.
É una domanda semplice, ma fondamentale per capire questa ragione. mentre tutti (da dentro e da fuori) tentavano di inchiodarla ad una immagine di immobilità permanente, la Calabria infatti sfuggiva, oscillava, spariva, sprofondava, andava e veniva. Anche quando restava apparentemente ferma, come Melusina, in posa di fronte al pittore, qualcosa si perdeva, rimanendo fuori dall’inquadratura.
Per questo, la terra che osserva, analizza e racconta nel suo ultimo libro Vito Teti, è una terra inquieta, mobile anzi mobilissima. il Sud e la Calabria non hanno mai smesso di mettersi in cammino, di praticare il viaggio. Viaggi per la terra e per il lavoro; andate e ritorni lungo le vi e dei canti; pellegrinaggi, processioni e sbarchi. Una teoria di immagini movimentate: separazioni temporanee e lacerazioni permanenti; sdoppiamenti e svuotamenti. In Terra inquieta la storia meridionale e calabrese appaiono come un laboratorio di mobilità individuali e collettive, religiose, rituali, di fatica e di liberazione, dove anche chi resta fermo, aspettando il movimento altrui, vibra e si muove.
L’inquietudine d cui scrive Teti è una passione minerale: riguarda la terra e gli uomini e la relazione che si stabilisce tra loro. Nella vita dei calabresi questa relazione si è tradotta in molti nomi: nostalgia, melanconia, precarietà, incompiutezza, utopia, gusto per l’erranza e la scoperta. Dando vita a quella che l’autore, nell’Introduzione al volume edito da Rubbettino definisce «una storia di linee: ondulate, curve, rette e spezzate. A ciascuna forma corrisponde un capitolo, e a ciscun capitolo un certo modo di dare forma al viaggio, alla mobilita, all’inquietudine. La metafora deve essere però accolta in un duplice senso: la linea è diagramma di un’esperienza, di un processo o di una forma di vita, ed è al contempo una traccia: la prova che c’è stato un passaggio , un gesto significativo di cui necessario custodire la memoria».
In questa storia, nulla è trascurato. Soprattutto le narrazioni minori, raccolte con pazienza in trent’anni di ricerca etnografica, di scritture, di scatti fotografici e di reportage, di ascolto dei paesi e delle comunità; condensate nel folklore popolare, nei proverbi, nei riti tradizionali, osservati a più riprese e diventati segni di una regione post-moderna senza mai essere stata moderna.
Si parte dal sottosuolo, dall’instabilità idrogeologica del territorio e della mentalità da catastrofe che ha innescato l’inquietudine della popolazione; si passa poi agli attraversamenti, ai viaggi e ai cicli eterni della mobile civiltà contadina che si interrompono, piena di speranza e di dolore, con la fuga in America e l’emigrazione di massa. Infine, gli ultimi decenni, la Calabria e il Mezzogiorno contemporanei, alle prese con lo svuotamento dell’interno, la fine del legame con le tante Calabrie doppie d’oltre oceano, la ricerca sgangherata e scomposta di identità fittizie, neoborboniche, antiunitarie, ambigue nei confronti della ‘ndrangheta e della malapolitica.
All’incrocio tra antropologia, storia e letteratura, Terra inquieta traccia il percorso di un mondo che, negli ultimi due secoli, per cambiare, ha dovuto re-inventare le forme e le parole della propria mobilità, al prezzo di diventare inafferrabile agli occhi degli osservatori, e spesso difficile, da raccontare oltre le apparenze e le semplificazioni. Si tratta di una geometria che è venuta formandosi nella lunga durata, ricca di pieghe e stratificazioni, e lontana dall’essere risolta. Il Sud e la Calabria, infatti oscillano ancora pericolosamente: tra immobilismi antichi, contraddizioni, fughe e nuovi arrivi, continuano a fare i conti con la propria inquietudine.

Di Albero Gangemi

Terra Inquieta inaugura la nuova collana di Rubbettino

C’è un mondo mobile che anche quando sta fermo non smette di sognare la partenza e il ritorno. Che si vuole appaesare, ma che è ovunque fuori posto.
Pesi che scivolano via, luoghi che mettono nuove radici, comunità e persone inquiete che segnano strade e cammini non ancora battuti, inventandosi tutto: lavori, relazioni, parole, rituali, immagini, la propria stessa presenza. É un mondo disordinato, che non comincia e non finisce, ma deve essere percorso da dentro e riguardato con vicinanza, studio, rigore. Non gli bastano le occhiate d sfuggita, i passaggi frettolosi.
Il punto di riferimento è il Sud e i Sud, il Mediterraneo, ma anche le periferie delle grandi città del Nord dell’Italia e dell’Europa: un mondo di schegge, di scarti, di frontiere che però fanno corpo, mandano segnali e lasciando tracce. La nuova collana intende partire da qui, contaminando sguardi e approcci, dall’antropologia alla letteratura, passando per la fotografia e la semiotica, per ritrovarne il senso e provare a raccontarlo.
Che ci faccio qui? è la domanda del viaggiatore paziente e insieme irrequieto, che vuole salvare le storie minori, compresa la sua. Dove i protagonisti non vincono. Ma intanto nessuno perde.

La grande incompiuta fra mobilità e precarietà

Gli effetti del terremoto dunque non finiscono mai. Restano vivi i segni nella memoria, nella mentalità, nel paesaggio. Sono segno della rovina, della provvisorietà eletta a norma, di rinvii a tempi imprecisati. Le baracche come mortificazione e quasi preludio, attesa, paura di una nuova fine. Le persone si sentono sempre precarie, mai definitive nei luoghi che potrebbero abbandonare da un momento all’altro. Ma sulle catastrofi della Calabria si sono formate fortune imponenti. Le tante calamità contribuiscono a farne una terra perennemente incompiuta, in continua riparazione. Acque, torrenti, alluvioni, frane anticipano e riassumono il destino della Calabria in fuga. Tutto sembra determinato dalla provvisorietà, dall’idea che nulla è durevole. Non vi è mai un progetto nuovo. È una storia antica.
Si dice che le costruzioni siano lasciate incompiute, rimandando a tempi migliori, sperando che poi i figli le ultimeranno in qualche modo. Ma non è più come durante la prima emigrazione, quando gli emigrati cominciavano un piano di casa, poi partivano per fare un po’ di soldi, tornavano, riprendevano la costruzione e così via, fino ad ultimarla, a volte dieci o quindici anni dopo averla iniziata. Alla fine le case pulite, finite, colorate, con il balcone e il portone, che suscitavano l’invidia e l’ironia dei signori, sorgevano come una novità in paesi di case fatiscenti e anguste e modificavano il paesaggio urbano. Non oggi. E non è così solo per le case. Guardiamo le opere pubbliche fatte di interminabili colate di cemento che non sono state mai ultimate. In Calabria se ne incontrano innumerevoli. Dighe mai terminate. Fabbriche sorte con il miraggio della salvezza e ormai dismesse. Letti di fiumi incustoditi dove prosperano detriti e immondizie. Montagne di sabbia scarnificate e dissanguate da ruspe impietose a cui non segue alcuna protezione dell’uomo. Baracche di lamiere e di tavole che circondano i paesi; staccionate precarie che delimitano rigorosamente terreni incolti: l’importante è separare, affermare un possesso, poco importa che poi il terreno non venga utilizzato. Le varianti chiamano varianti. A Nardodipace, tra l’alluvione del 1971, la decisione della ricostruzione e l’assegnazione delle case sono passati quasi trent’anni. E oggi le case sono disabitate, sono diventate vecchie, fuori tempo. Le persone che le attendevano sono morte o sono andate via.
Nel passato l’incompiutezza era strettamente connessa all’insicurezza e a vicende catastrofiche, oggi si lega piuttosto ad arricchimenti facili, a clientele che prosperano, a strategie dei gruppi dirigenti. In una terra sempre mobile e pericolante, sempre in viaggio, sempre soggetta ad aggiustamenti e a riparazioni, la filosofia del pubblico intervento ha finito col perpetuare il potere delle classi dominanti e ha contribuito ad alimentare affari, famiglie, gruppi. Nella regione tutto appare provvisorio e tutto è rinviato. «Ci dobbiamo vedere», dicono gli amici che s’incontrano dopo tanto tempo e, magari, sanno già che non si incontreranno mai. «Dobbiamo parlare» si dicono i calabresi e sanno che parleranno chissà quando o parleranno magari domani. Niente finisce mai in Calabria, nemmeno gli odi, nemmeno le amicizie. Le amicizie diventano odi, gli odi si trasformano in amicizie. «Domani» può significare domani, tra una settimana o mai. Non che non si voglia mantenere la parola, è che il domani è sempre un tempo vago, incerto. Vi sono situazioni in cui non mantenere le promesse è una regola condivisa. I calabresi raramente sanno dire di no a un impegno. Non vogliono che l’altro ci resti male. Il calabrese è ecumenico: vorrebbe stare con tutti e in tutti i posti. E le promesse diventano favole. C’è anche una bellezza del «poi», quasi una difficoltà a dire no, «poi vediamo» non è per non mantenere la parola,
ma perché non si vuole dispiacere l’amico.
Le case, dunque, non saranno mai ultimate: vi sono pilastri che spuntano ormai da cinquant’anni, intonaci mai fatti. Quelle case alzate e non finite sembrano una sorta di ipoteca sul futuro, un desiderio di controllare il tempo e quello che verrà. Ma proprio questa incompiutezza e questa attesa, questa sfiducia nell’oggi e l’ansia per il domani, non sono separabili da una storia di rovine e di catastrofi: un paesaggio discontinuo e senza centro che ha contribuito a trasformare in mentalità il sentimento dell’incertezza, della sfiducia, dell’incompiutezza e a fare, così, della Calabria, una «grande incompiuta».

Di  Vito Teti

Clicca qui per acquistare il volume al 15% di sconto

Altre Rassegne