Le Monde Diplomatique tra le anime nere della Calabria

del 7 Novembre 2012

anime_nereIl numero di novembre di Le Monde Diplomatique dedica un interessante reportage di Serge Quadruppani dedicato alla Calabria e in particolar modo alla Locride. Quadruppani è un noto scrittore francese e direttore della collana Bibliothèque italienne edita dall’editore Metailie che ospita il meglio degli autori di gialli e noir italiani, da Lucarelli a Camilleri e che, di recente ha pubblicato il romanzo rivelazione dello scrittore calabrese Gioacchino Criaco, intitolato “Anime nere” edito in Italia da Rubbettino.
E proprio Criaco accompagna Quadruppani in questo viaggio insolito in una Calabria diversa dagli stereotipi che la vedono talvolta vincolata a un destino di regione-cartolina tutta mare, villaggi e bronzi oppure a quello di terra che vive immobile l’incontrastabile forza della ‘ndrangheta. Quella raccontata dall’autore di “Anime nere” è invece una Calabria che è stata in perenne rivolta e che ha dimostrato di essere capace, come la promessa sposa del frammento di racconto di Criaco che apre l’articolo di Le Monde di lanciarsi dal ponte pur di sfuggire all’ineluttabile destino, è una Calabria in cui Stato e ‘ndrangheta si confondono, e in cui i ruoli dell’uno e dell’altra hanno finito per coincidere in quello unico del contenimento della tensione sociale.
 
Di seguito proponiamo la versione integrale dell’articolo di “Le Monde Diplomatique” (traduzione nostra). 

Misteri calabresi
di Serge QUADRUPPANI 

(Da “Le Monde Diplomatique” Novembre 2012)
 
Mentre il governo di Mario Monti, in nome della libera concorrenza, vieta gli aiuti alla regione Calabria per le produzioni agricole locali, lo scrittore Serge Quadruppani ha voluto conoscere più da vicino la realtà storica e sociale che fa da sfondo ai romanzi di Gioacchino Criaco di cui è l’editore. 
 
Nei suoi veli, la promessa sposa avanza, il suo busto che dondola al ritmo della marcia, come un grande giglio bianco brandito davanti a tutte queste persone in nero, la sua famiglia. Sotto il cielo cocente, il corteo è l’unico movimento visibile nell’immensità dei monti dell’Aspromonte.
Sulla strada di pietra, unica via di comunicazione tra i villaggi, la giovanissima vergine marcia con passo fermo e cosciente, come se non ci fosse dietro di lei il parentado con la sua pancia vuota, le sue strategie di alleanza, le sue speranze di giorni migliori, come se andasse per sua sola volontà verso il suo destino di sposa di un uomo vecchio ma ricco. Come se fosse libera.
Il corteo si avvicina al ponte sotto cui scorre un torrente a trecento metri più in basso per diventare, avvicinandosi al mare, una fiumara, uno uadi del Sud Italia. D’improvviso, con movimenti dolci, la promessa sposa scioglie le sue braccia dalle braccia del padre e del fratello maggiore, li precede come se avesse fretta di raggiungere lo sposo che l’aspetta nell’altro villaggio. Si rigira verso i suoi e sorride loro.
Poi, con un salto da scoiattolo, è sul parapetto, li guarda ancora, muti, raggelati e salta.
Un istante, rotea, e i suoi veli nel vuoto volteggiano con lei, ali e sudari insieme. I suoi occhi si spalancano sulle montagne che le fanno da corona, il suo sguardo bacia le pendenze quasi a picco dove si aggrappano i terrazzi, gli oliveti e i boschi di castagni, le cascate e le terre bianche, le rocce scolpite dai popoli preistorici, e la cima che taglia il profilo di Zeus e quello dove brandisce il pugno, le cappelle bizantine ed i greggi di mucche selvagge, le orde dei maiali neri incrociati con i cinghiali, i lupi ed i caproni, le cave di marmo, le valli rifugi dei fuggitivi. Abbraccia tutto ciò nella sua caduta, nell’eternità della sua caduta le montagne della Calabria l’accompagnano, lei è libera.
 
Il 4×4 deve passare dal ponte della Fidanzata (Zita) per accedere alle strade interminabili ed accidentate che conducono ad Africo Vecchio, meta del viaggio. Chiunque percorre questo recesso del mondo, all’estremo sud della Penisola, se accompagnato da un nativo del posto innamorato della propria terra, vedrà ancora alzarsi, come divinità silvestri svegliate dal suo passaggio, storie vere e leggende ancora più vere, poiché esse racchiudono lo spirito del luogo e di coloro che lo abitano. Dopo millenni di influenza reciproca tra una terra e coloro che hanno cominciato a lavorarla molto prima dei Greci e dei Romani, come decidere chi per  primo, tra il suolo o il popolo, ha plasmato l’altro? In questa confusione di rilievi, questi paesaggi allucinatori dove le vette e gli abissi si confondono, non ci si stupisce di trovare dei festival di tarantella, danza di possesso che accoglie altre tradizioni estatiche venute dal Marocco o dall’India. E si ritiene naturale una storia ad alta densità di visionari, a partire da Gioacchino da Fiore (1132 -1202) che annunciava l’avvento di una terza età dell’umanità all’insegna della libertà, fino a Tommaso Campanella, il monaco utopista autore nel 1602 de La Città del sole.
 
Verso il 1860, Africo era una borgata prospera: sui suoi terrazzi prosperavano il grano, la vite, l’olivo ed in basso, a bordo del fiume, i gelsi offrivano il loro fogliame ai bachi da seta, l’acqua faceva girare i telai ed i frantoi. Poi i Piemontesi sono venuti ad imporre l’unità italiana in punta di sciabola.
Le loro violenze furono tali che le popolazioni si rivoltarono in tutto il meridione, e l’atroce repressione, battezzata “lotta contro il brigantaggio”, fece decine di migliaia di morti. Le terre confiscate furono attribuite ad alcuni baroni, servitori zelanti della monarchia, ed il popolo entrò in una miseria nera da cui non è uscito, se non parzialmente, che un secolo più tardi. È uno schema che ha conosciuto tutto il Sud Italia, qui come in Campania, in Sicilia o nell’Eboli di Carlo Levi.
 
Che Africo Vecchio – ribattezzato da alcuni “Africo vrai“, “Africo Vero”, – abbia conosciuto giorni migliori, lo si comprende semplicemente visitando le sue rovine. Invasa da edere robuste come liane, da grandi querce le cui radici sollevano i muri, da rovi, da cespugli di mirto e di fichi d’India, il borgo fantasma presenta ancora segni esterni di ricchezza: vasti terrazzi, finestre ad architravi, porte scolpite da incisioni misteriose di cui una, di origine massonica, sarebbe la traccia di una spedizione punitiva dei francesi.
 
È la nostra guida, lo scrittore Gioacchino Criaco, a raccontare dell’arrivo dei francesi al tempo del maresciallo Murât. Poiché la provincia, allora annessa al regno di Napoli, si opponeva alla conquista del protetto di Bonaparte, i soldati entrarono nel villaggio dove erano rimaste solo donne, bambini e vecchi, e li massacrarono. Ma gli uomini intanto, dopo essersi dati alla macchia, chiamarono i villaggi dei dintorni alla riscossa, e i francesi furono fatti a pezzi. È con lo stesso evidente piacere che questo figlio di Africo ci racconta, nel mezzo delle rovine della caserma dei carabinieri, che intorno al 1930, avendo questi ultimi torturato dei pastori per far loro confessare crimini che non avevano commesso, tutto il villaggio attaccò l’edificio con fucili e granate per punire i carabinieri e cacciarli nudi fuori dal paese.
Come molti villaggi dintorno, Africo porta il nome di un vento, poiché è raro, fortunatamente, su queste pendenze esposte al clima magrebino da dove si scorgono talvolta contemporaneamente due mari – il Tirreno e lo Jonio – che l’aria sia immobile.  Accade spesso che la stessa terra si muova. E fu invocando il rischio di frana, mentre una sola casa, alla fine, fu rovesciata, che lo Stato italiano negli anni 1950 ha finito di uccidere Africo Vecchio, trasferendo ciò che restava della sua popolazione sulla costa dove fu creato Africo Nuovo, un insieme di edifici mai completamente finiti, edificati con l’orrenda assenza di stile che regnava all’epoca – e regna ancora diffusamente – sulle coste del Mediterraneo.
 
Sulle alture che abbiamo raggiunto dalla strada costiera dopo un’ora e mezza di sobbalzi, Gioacchino ed i suoi amici ristrutturano vecchie abitazioni, coltivano lussureggianti orti, allevano maiali neri, bovini e capre dal lungo pelo stopposo e corna arcaiche, tutte specie certamente non riconosciute dall’Unione europea, che loro accudiscono lasciandole libere. Nel luogo dove alcuni uomini di Murat, venuti a prendersi la loro rivincita, si accamparono – facendosi nuovamente trucidare e scomparendo nell’oblio – i nostri amici hanno occupato un edificio che hanno adattato a dimora. Di sera, davanti a cibi succulenti in quantità considerevoli, essi raccontano l’insurrezione senza fine del Mezzogiorno.
 
La vibrazione sociale e generazionale che ha toccato durante quasi un decennio una buona parte del pianeta e che si ha l’abitudine di raggruppare sotto l’annata 1968 ha preso in queste regioni una forma particolare. Mentre i figli della terra, partiti per lavorare nelle grandi fabbriche del nord del paese, fornivano con gli altri emigrati del Sud Italia il grosso delle truppe degli autunni caldi della Penisola, quelli che erano restati al paese parteciparono al movimento in mille manifestazioni, di cui la più acuta e più conosciuta porta il nome di Moti di Reggio. Alcune manifestazioni molto dure, motivate all’inizio dallo spostamento del capoluogo da Reggio Calabria a Catanzaro, presero presto un carattere insurrezionale. Ci furono parecchi morti. L’infiltrazione dei neofascisti del Movimento sociale italiano, MSI, tra cui alcuni membri dei servizi segreti, contribuì largamente a sedare la ribellione che durò tuttavia parecchi mesi.
 
In seguito, racconta ancora Gioacchino, tutti i capi Mafia calabresi, la celebre ’Ndrangheta, furono fatti fuori, o dalle forze dell’ordine, o da presunti rivali. E furono in buona parte sostituiti, egli sostiene, da elementi legati ai servizi segreti. Da allora la ’Ndrangheta è, nei fatti, una sorta di quinto corpo di polizia di un certo Stato, quello che gestisce per suo conto l’economia sotterranea e contiene i movimenti di insubordinazione del Sud ribelle. Questo punto di vista è lontano dall’essere isolato, lo si può constatare discutendo con le persone del luogo, e non è irrilevante che venga espresso da un autore che scrive tutte le settimane sul periodico più diffuso della zona, “La Riviera”, su cui in ogni numero si discute di ’Ndrangheta – anche se lo si fa più sul registro della derisione che non su quello dell’indignazione magniloquente come di regola nei grandi quotidiani della Penisola. Per Criaco, come per molti suoi amici, il Sud d’Italia, e la Calabria in particolare, vive sempre una situazione coloniale. Non si è obbligati a condividere questi punti di vista per sentire che c’è, in queste terre, qualche cosa che non va.
 
Per rendersene conto, si può tornare sulla costa. Ancora più a sud, in direzione di Reggio Calabria, ci si imbatte sul sito di Saline Joniche. Un comignolo  di fabbrica  tanto alto e  sottile che si vede da lontano,  dei capannoni abbandonati, il tutto su ettari e ettari di piattezza catramata posata sopra ciò che fu un’oasi marina, tappa di migrazione per migliaia di uccelli tra Africa ed Europa.
 
In seguito alla rivolta di Reggio Calabria, il programma chiamato Pacchetto Colombo, dal nome del ministro dell’industria di allora, assegnava circa 2.000 miliardi di lire alla costruzione di stabilimenti industriali. Queste fabbriche portarono dei profitti giganteschi solo ad un gruppo ristretto di persone: ai boss della ’Ndrangheta, che ottennero l’aggiudicazione dei lavori, e agli industriali ai quali poi li subappaltarono.
Sul sito di Saline, dopo che fu costruito un porto e delle cisterne capaci di contenere duecentomila metri cubi di liquido, lo stesso Istituto che aveva lanciato l’idea della produzione, a partire da derivati del petrolio, di bioproteine per l’alimentazione animale, scoprì che si rischiava di rendere cancerogena tutta la catena alimentare, e la Liquichimica fu chiusa ancor prima di essere messa in funzione.
Ecco perché, là dove approdavano gli uccelli migratori, ora si stendono delle rovine postindustriali, senza che ci sia stata mai nessuna industria. Gli operai assunti è da trent’anni che sono in stato di disoccupazione tecnica; arriveranno alla pensione senza avere lavorato mai. Oggi, la Repower, impresa svizzera, vorrebbe costruire su questi luoghi una centrale termica a carbone, e i contestatori sempre più numerosi sbarrano le strade per opporsi.
 
Poco più a nord, sulle sconfinate spiagge di sabbia della costa ionica, si alternano degli stabilimenti balneari nuovi ma quasi vuoti per  buona parte dell’anno, altri in rovina che sembrano esserlo stati da sempre, delle lottizzazioni orrende mai finite.
Negli edifici abbandonati, errano talvolta solitari, di notte, i profili dei migranti curdi o africani che sono sfuggiti ai carabinieri al momento dell’arenamento del loro barcone. Quando provi a sapere chi è il proprietario di che cosa e perché tale edificio a cento metri dall’acqua, cinto da un giardino che dovette essere favoloso, è abbandonato da molto tempo alle intemperie e alle immondizie, si ottengono delle risposte incomprensibili per chi non è del luogo. Se si fa notare che, dall’altra parte della punta dello Stivale, sulla costa tirrenica della Calabria, le spiagge sono comunque frequentate e regna una certa animazione, ci si risponde che “anche laggiù fra non molto sarà come qui”.
 
Paesaggi sublimi, ricchezze storiche infinite, risorse agricole magnifiche: di fronte a queste enormi potenzialità, l’atonia generalizzata della società è tanto più sorprendente. Le forze vive della regione sembrano ancora condannate all’emigrazione e Gioacchino ha gioco facile nel dire che ciò continuerà a lungo, fino a quando la società italiana avrà bisogno di una manodopera nazionale a buon mercato. Si capisce allora perché, in una certa misura, qui, la crisi e la chiusura delle fabbriche al Nord potrebbero essere una fortuna. Alcune persone ritornano e altre ne arrivano – perché il paese attira anche stranieri, superando ogni difficoltà di comunicazione, animato da un senso dell’ospitalità tutto orientale – per tentare di coltivare i giardini calabresi. Ma ciò che resta della gioventù, sparsa sulla costa, sembra per lo più interessarsi ai computer e ai telefonini che non alle meraviglie montane alle loro spalle, ad un’ora o due di strada.
Qui come altrove la classe politica italiana ha perso da molto la fiducia della popolazione. Alcuni piccoli gruppi come quello che ci ha presentato Gioacchino, gruppi come quello che rifiuta il nuovo progetto di Saline Joniche incarnano tuttavia la resistenza a questa misteriosa legge di gravità che sembra affossare la Calabria. È solamente dalle profondità del popolo, delle sue reti e delle sue iniziative che possono venire la forza che gli eviterà il destino della promessa sposa, condannata a morire per essere libera.

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