Libertà economica e felicità (Domenica)

di Alberto Mingardi, del 23 Dicembre 2013

Dalla Domenica del Sole 24 Ore del 22 dicembre

Quando Vallecchi tradusse per la prima volta in italiano Capitalism and Freedom di Milton Friedman cambiò quasi per pudore il titolo in Efficienza economica e libertà. Che il capitalismo avesse qualcosa a che fare con la libertà, vale a dire con il ventaglio di scelte concretamente a disposizione dei singoli individui, appariva nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta un’idea talmente esotica che era meglio tacerla. Nel loro Il vantaggio delle libertà, Sebastiano Bavetta e Pietro Navarra sostengono che il capitalismo ha persino a che fare con la felicità delle persone. «Un aumento della libertà, accrescendo le opportunità delle persone di essere artefici del proprio destino, renderebbe gli italiani un popolo più felice». Limitare la libertà economica significa ridurre le opportunità di realizzare se stessi. Bavetta e Navarra calano la loro interpretazione della libertà come “autonomia” («per essere autonoma, una persona deve disporre di diverse opzioni tra cui poter scegliere e dev’essere responsabile delle proprie scelte») all’interno di una discussione sul declino italiano. Il nuovo lavoro dei due economisti siciliani s’innesta su un’ampia ricerca da loro condotta a livello internazionale, che mira a dar conto del legame fra libertà percepita e istituzioni. Proprio questa attenzione al modo in cui le persone si sentono libere segna l’originalità di questo saggio, pure scritto con ironia e piglio divulgativo. Più che presentare un’agenda di riforme per l’Italia, Bavetta e Navarra ragionano sul poco di zucchero necessario affinché la pillola vada giù. Gli autori esprimono insoddisfazione per come gli economisti accademici (che «non hanno mai amministrato la cosa pubblica, né mai hanno rischiato i propri soldi in un’avventura imprenditoriale») s’avvicinano a questo tema: le variabili culturali non vengono sufficientemente considerate, e l’esito è la moltiplicazione dei libri dei sogni perché «iniettare la libertà dall’alto è impossibile se questa non gode di un diffuso consenso politico». La transizione verso un’economia più libera, però, presuppone l’erosione di rendite di posizione e anche la disponibilità ad accettare che sia il mercato a decretare vincitori e vinti della gara economica. Le persone possono essere indotte ad acconsentire a una vita con meno certezze, solo se comprendono che essa darebbe loro maggiore sovranità sul proprio destino. Detto in altri termini: ciò di cui si sente la mancanza è uno spirito imprenditorialediffuso.
«Una maggiore diseguaglianza esercita un significativo effetto negativo sulla felicità degli individui in Europa, ma non negli Stati Uniti». Il problema non sono dunque le diseguaglianze: ma il fatto che esse siano ritenute meritate o meno. In Italia, «nel nome della giustizia sociale si dà spazio a iniziative di politica economica che possono produrre l’esatto contrario di quanto immaginato: un sistema profondamente ingiusto e gravido di garanzie e di privilegi». La spesa pubblica è ovunque uno strumento elettorale. Ma «dove la qualità delle istituzioni è alta,», sostengono Bavetta e Navarra, «lo Stato cresce meno e, comunque, la sua crescita è sottoposta a un efficace controllo democratico». Gli autori parlano dell’Italia ma hanno in mente soprattutto il Mezzogiorno.
Il libro è, in prima battuta, una scommessa che viene proposta ai giovani del Sud. «Lì dove ciascuno si sente protagonista nella propria vita e ritiene, correttamente o meno, che i traguardi raggiunti siano frutto delle proprie scelte, si crede doveroso il riconoscimento del merito e si ritiene giusto premiare il talento e le capacità individuali».
L’incastro fra la dimensione psicologica (soggettiva) dellalibertà e la sua dimensione istituzionale (oggettiva) è un puzzle affascinante. Bavetta e Navarra ci ricordano che le idee politiche che professiamo hanno qualche cosa a che vedere con quello che vediamo allo specchio la mattina. Un Paese non sarà mai libero, se chi ci vive non si sente tale.

Di Alberto Mingardi

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