La fabbrica degli scrittori

di GIUSEPPE LUPO, del 29 Luglio 2013

Da Domenica – Il Sole 24 Ore del 28/07/2013

E’ fin troppo banale affermare che la letteratura è lo specchio di un’epoca. Eppure non si sfugge a questa regola matematica, soprattutto quando si osserva un periodo come il nostro, fatto di generazioni precarie, progetti incompiuti, mestieri temporanei: l’età dell’incertezza o dell’insicurezza, secondo Zygmunt Bauman e Pierre Bordieu, in cui la crisi dell’economia viene interpretata quale eclisse di una società fondata sull’idea del posto fisso. Siamo in una fase di transizione, lo sappiamo, ognuno di noi è, per antonomasia, un homo instabilis e gran parte di questa provvisorietà si accumula in quelle forme di narrazioni contaminate – veri e propri miscugli di autobiografia, diario, reportage, documento, fiction, inchieste – che sono i libri ispirati al tema del lavoro (o del post-lavoro, forse si dovrebbe dire) e pubblicati negli ultimi anni. Probabilmente è ancora troppo presto per annunciare la nascita di un nuovo genere.
Di sicuro, però, siamo di fronte a una tendenza che va assumendo proporzioni macroscopiche, tutt’altra cosa rispetto alla letteratura industriale prodotta a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, ma non per questo meno agguerrita, meno aperta a sperimentazioni e, dal punto di vista dell’esemplarità, impostata sull’alienazione figlia del cali center anziché della catena di montaggio. Queste scritture, che potrebbero passare alla storia sotto l’etichetta del “realismo liquido”, fanno da sfondo a Letteratura e lavoro, un saggio in cui Paolo Chirumbolo adotta lo schema della conversazione a più voci per interrogarsi sulla narrabilità del presente, per analizzare i fantasmi che agitano i romanzi venuti alla luce dopo l’esperienza di Pennacchi e di Rea, cioè dopo Mammut e La dismissione .
Sono diciotto gli autori selezionati e trai più rappresentativi di questo filone (da Silvia Avallone a Giorgio Falco, da Angelo Ferracuti ad Andrea Kerbaker, da Nicola Lagioia a Massimo Lolli, da Michela Murgia a Marco Rove li, solo per citarne alcuni), a loro modo originali anche se compattati in un comune orizzonte, tenuti insieme da un’idea di scrittura che denuncia un’esasperata fame di realtà, che insegue ossessivamente le traiettorie della cronaca e fa suo il tentativo di recuperare i segni di un impegno morale. È legittimo domandarsi se davvero, di fronte a queste opere, non stiamo percorrendo i sentieri di un neo-realismo o se piuttosto non siamo approdati alla spiaggia di un realismo post-moderno. Le formule sono provvisorie e valgono relativamente in un mondo liquido.
Tuttavia il saggio introduttivo di Chirumbolo è un testo lucido, puntuale, da tener ben in mente prima di avventurarci nel labirinto di opinioni che sono il cuore di questo discorso, danno il senso della dissertazione maieutica e traghettano il volume dalla dimensione un po’ riduttiva di libro-intervista a quella, ben più autorevole, di politico sociologico. Al di là della moda editoriale e forse anche di un certo compiacimento estetico che conosce i limiti delle operazioni di maniera, gli scrittori intervistati da Chirumbolo amplificano i problemi che tocchiamo tutti i giorni nel quotidiano e ci ricordano, per esempio, che la condizione operaia è un enigma ancora irrisolto, ci dicono che l’industria non è morta, ha soltanto modificato il suo codice e la maniera di rapportarsi per vie mediatiche con noi. In fabbrica oggi si lavora, si soffre, ci si ammala e si muore; e solo morendo si esce dalla condizione di invisibilità.
Sarà anche vero che molte delle opere di questi autori stentano a varcare la soglia della denuncia e si pongono a testimonianza di un vissuto, ma è attraverso queste pagine che transita il lessico della contemporaneità e l’intellettuale cerca di ridiventare coscienza critica del tempo in cui gli è toccato vivere.

DI GIUSEPPE LUPO

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