«Mafiose convertitevi». Il Papa riconosce l’altra metà del male (Il Giornale)

di Gianpaolo Iacobini, del 29 Maggio 2013

Da Il Giornale – 27 maggio 2013

Francesco come Wojtyla nel ’93, ma si rivolge anche alle donne. Il loro ruolo nelle cosche ormai è riconosciuto pure dalle fiction
«I mafiosi non possono fare questo. Preghiamo che questi mafiosi e mafiose si convertano». C’è voluto il Papa venuto dalla fine del mondo perché pure la Chiesa rompesse un tabù: le mafie non sono cose solo da uomini. Papa Francesco, ricalcando le orme del suo predecessore Giovanni Paolo Il e riproponendone il grido levatosi alto dalla Valle dei Templi di Agrigento nel 1993, l’invito alla conversione (anche al femminile) lo ha lanciato da piazza San Pietro ricordando padre Puglisi, martire di mafia ucciso per ordine dei capi del mandamento di Brancaccio, dove Cosa Nostra è pure donna. «Nel 2000 – ha fatto mettere a verbale il pentito Fabio Tranchina – lei mi disse con la sua bocca, a casa sua, in via Randazzo: da questo momento ci sono io». Lei: Nunzia Graviano, a picciridda, germana di Filippo e Giuseppe, mandanti dell’omicidio Puglisi. Loro dietro le sbarre, la sorella fuori. A gestire gli affari d’una cosca che continua a dominare Brancaccio. Già condannata, viveva ai Pari oli, ma non aveva dimenticato la Sicilia. Ed a fine aprile s’è vista infliggere altri 8 anni di carcere. Eppure, nel tempo le donne erano sembrate limitarsi a vestirei panni delle vendicatrici.
Come Assunta «Pupetta» Maresca: il 15 agosto del1955 Tanino o bastimento, alias Gaetano Orlando, le uccide il marito, Pasquale Simonetti, boss di Palma Campania. Il giorno dopo lei ammazza il presunto mandante, Antonio Esposito. Così Serafina Battaglia: nel 1960, a Palermo, i sicari della famiglia Rimi assassinano il convivente. Sprona il figlio all’omicidio riparatore. Il giovane obbedisce, ma non basta. E Serafina va dai Carabinieri a vuotare il sacco sui nemici, divenendo una collaboratrice di giustizia ante litteram. Quasi vicende da folklore, per la criminologia e la magistratura, tanto che, ricorda Angela Iantosca nel suo libro «Onora la madre. Storie di ‘ndrangheta al femminile», dato alle stampe da Rubbettino, solo negli anni Novanta il ruolo delle malavitose «viene preso in considerazione: da una relazione del Ministero dell’Interno del 1996 si evince che nel 1990 in Italia solo una donna era stata incriminata di associazione mafiosa. Nel 1995 erano diventate 89».
A Catania, nel 1992, dopo l’arresto del consorte (e boss) Salvo Cinturino, la moglie Maria Filippa Messina ne prende il posto. Nel 1996 diventa la prima donna sottoposta al 41 bis. Non sfugge alla regola delle pari opportunità la ‘ndrangheta. Maria Serraino ne è l’emblema: nel 1963 emigra a Milano. Cura estorsioni, riciclaggio, delitti. Condannata

all’ergastolo, è una delle tre donne oggi sottoposta al carcere duro. E poi, ancora, Giusy Vitale: quando i fratelli finiscono al fresco, a Partinico il bastone del comando passa nelle sue mani. La prima donna capo mandamento. Insomma, madri al comando, spietate e feroci, tanto da conquistare persino il piccolo schermo, dalla leggendaria Pupetta Maresca di «La ragazza con la pistola» alla più moderna Rosy Abate di «Squadra antimafia». Nessuno spazio, invece, per chi alle cosche s’era ribellata, scegliendo di educare al bene i propri figli. La calabrese Lea Garofalo, per averci provato, è stata ammazzata. Il suo cadavere bruciato. Un modello che forse non farà audience, ma al quale sembra guardare, ora, la Chiesa dei Puglisi e del Papa giunto dall’altro capo della terra a ricordare che le mafie, come gli angeli, non hanno sesso, né mai, probabilmente, lo hanno avuto.

Di Gianpaolo Iacobini

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