Un affare chiamato calcio

di Piero Ferrante, del 11 Settembre 2012

Da Macondo-Città dei libri – 08 settembre 2012
Un tempo era Gianni Rivera, erano gli stadi con le tribune in legno, erano le carrellate sorridenti delle telecamere sui volti dei tifosi. Un tempo erano i bandieroni, drappi di passione popolare, era Gigi Meroni, era George Best, era Paolo Sollier con il pugno alzato in mezzo al campo, schierato sulla mediana. Un tempo erano le maglie dalla 1 alla 11, portieri-stopper-libero-terzini-mediani-attaccanti-ali-mezz’ali. Era il calcio totale di Rinus Michels, era Pierpaolo Pasolini, erano i voli di Lev Jašin, erano le compagini operaie che si tramutavano in gruppi sportivi. Un tempo erano le radio e la Domenica Sportiva. Un tempo erano Paolo Valenti e novantesimo minuti, le coppe al martedì. Un tempo era la Coppe delle Coppe, la Coppa dei Campioni e la Coppa Uefa non era un contentino.
Un tempo era il calcio, il sudore, la lotta leale per la vittoria. Poi divenne affare. I diritti tv, le schedine e le scommesse. Capitani per nulla coraggiosi pronti a vendersi le partite; calciatori e dirigenti minacciati dai tifosi e tifosi controllati dalle cosche, dai clan, dalle ‘ndrine; presidenti esperti in maquillage finanziari ed altri che sfruttano il ruolo per scalare i pioli della politica. Bagarinaggio, controllo delle scuole calcio, lotte per il business delle bancarelle di merchandising non ufficiale.
Un sistema a lungo sommerso, sottaciuto. Un sistema omertoso, vincolante, incatenante. Perché il calcio può fermare un Paese, ma il Paese non può fermare il calco. Ci hanno sguazzato in tanti in questo mare, bandiera blu dell’slealtà, dell’antisportività, della frode. Pierpaolo Romani, giornalista e ricercatore, Coordinatore di Avviso Pubblico (che è la rete di Enti ed istituzioni per la formazione civile contro le mafie) lo ha bollato, senza mezze misure, Calcio Criminale. E “Calcio Criminale” è anche il titolo del suo ultimo libro, edito a fine giugno per Rubbettino (prefazione di Damiano Tommasi).
Un saggio preciso e documentato, che è in buona sostanza figlio del suo tempo, dell’era degli scommettitori e del tifoso sciocco, del presidente politico e del capitano venduto. Romani pennella la caduta di un mito, il tramonto dello sport popolare per eccellenza. Lo fa attraverso piccole e grandi storie, raccolte spulciando le grandi inchieste, ma anche raggranellando materiale prezioso nelle tante periferie nascoste (specie del meridione, ma non solo). Quelle dove le squadre di calcio creano consenso e una buona copertura per le attività illecite; quelle dove non si muove una foglia senza che lo sappia il presidente o il capo ultrà; quelle dove la stampa camuffa le carte e dove adolescenti bizzosi e viziati vengono strappati alla dimensione del gioco per finire in un grande macello mediatico. Romani s’insinua nell’antropologia variegata del football italico, porta all’emersione nomi di squadre apparentemente insospettabili ed invece tarlate dall’interno da insetti del malaffare, rose dalla corruzione e dall’opportunismo. Dalla Liguria alla Calabria, e poi ancora Lombardia e Sicilia, Lucania e Puglia, Lazio e Piemonte: la sfera rotola e finisce sempre nella porta dell’affare.
Calcio Criminale” smonta insomma il costrutto mitizzato del pallone. Quell’impalcatura secolare che l’ha ammantato d’un alone di sacralità e che ne ha offuscato i peccati capitali. Merito di Romani è quello di (ri)mettere a nudo il suo vero corpo, nei compresi, di esporlo pubblicamente affinché tutti possano guardarlo. Perseguire la verità. Come un modello castrato di fronte ad una classe di pittori neofiti, lo sport più popolare del mondo suscita dubbi e domande. Quando è incominciata la caduta? Per quale bramosia? Chi fu il padre di ogni male?
Non si esce indenni dalla lettura dell’inchiesta di Romani. “Calcio criminale” è più di un titolo. È uno slogan, un brand, un inno. È un tarlo che batte e che disturba le voci gracchianti degli opinionisti tv. Perché se tutto è falso, allora nulla ha più senso. Il calcio come un carrozzone pesante. E costoso. Come il wrestling negli Stati Uniti: una commedia burlesque, inscenata non tra le corde di un ring, ma in 100 metri per 60 di erba verde. Eppure l’impressione definitiva è che Romani non voglia far detestare il calcio. Anzi, il suo è un invito al tifo sfegatato per quella parte sana e pulita del gioco, la stessa che, ogni giorno, muove generazioni di marmocchi a scendere in strada con un vecchio Supersantos, quattro pietre e la maglietta del proprio beniamino.

Di Piero Ferrante

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