Intervista a Michele Donno (Letture.org)

del 5 Marzo 2018

Michele Donno

Storia dei socialisti democratici italiani

Dalla scissione di Palazzo Barberini alla riunificazione con il PSI 1945-1968

Professor Donno, Lei è autore del libro Storia dei socialisti democratici italiani. Dalla scissione di Palazzo Barberini alla riunificazione con il PSI. 1945-1968 edito da Rubbettino. «La storia ha dato loro ragione» verrebbe da affermare leggendo il Suo libro.
Storia dei socialisti democratici italiani, in realtà, è un cofanetto che racchiude due mei libri (per un totale di quasi 800 pagine) e che ripercorre, con riferimento al primo ventennio di storia repubblicana, le vicende politiche di Giuseppe Saragat e di quei socialisti riformisti i quali, nel 1947, agli albori della guerra fredda, aderirono alla scissione socialista di palazzo Barberini scegliendo il sistema di governo occidentale, accettando gli aiuti americani del piano Marshall, condividendo le posizioni democratiche ed europeiste dei socialisti francesi, dei socialdemocratici tedeschi e dei laburisti inglesi. I socialisti democratici italiani criticavano fortemente l’URSS e i neo-nati regimi comunisti dell’Europa orientale, destinati inevitabilmente – come costantemente denunciato da Saragat e compagni in approfondite analisi sul loro quotidiano ufficiale “L’Umanità” (uscito dal 1947 al 1949) – a degenerare nelle peggiori forme di oppressione e violenza totalitaria.

La vera anomalia, quindi, fra i socialisti italiani eletti nel primo Parlamento repubblicano del 1948, non fu rappresentata – come vasta parte della storiografia italiana per decenni ha sostenuto – dagli scissionisti di Saragat, che avevano peraltro il sostegno dei principali partiti socialisti europei, ma da quei socialisti guidati da Pietro Nenni che scelsero il Fronte popolare, la stretta alleanza con i comunisti, la subordinazione al totalitarismo staliniano.

Possiamo, quindi, certamente affermare, parlando di Saragat e dei socialisti democratici italiani, che «la storia ha dato loro ragione». E con questa affermazione il mio editore, Florindo Rubbettino, ha voluto aprire la breve presentazione di questo cofanetto, pubblicata sulla quarta di copertina e che ho piacere nel riproporre ai vostri lettori:
«La storia ha dato loro ragione», si potrebbe affermare, leggendo i due volumi di Michele Donno, dedicati alla vicenda politica dei Socialisti democratici italiani nel primo ventennio di costruzione della Repubblica, “Socialisti democratici. Giuseppe Saragat e il PSLI (1945-1952)” e “I socialisti democratici italiani e il centro-sinistra. Dall’incontro di Pralognan alla riunificazione con il PSI (1956-1968)”, pubblicati rispettivamente nel 2009 e nel 2014 ed ora riuniti in questo cofanetto. Ed infatti, i motivi allora al centro della visione di Giuseppe Saragat e dei socialisti democratici (europeismo e atlantismo, riformismo socialista e alleanza con i cattolici, americanismo e anticomunismo, economia sociale di mercato per la tutela delle fasce meno abbienti, sostegno ai ceti medi, unità e autonomia dei socialisti), a lungo negletti e criticati dalle maggiori forze politiche, soprattutto di sinistra, hanno mostrato nel tempo validità e fondatezza, a tal punto che oggi si possono riproporre come tematiche centrali nella discussione politica in Italia e per un rinnovamento radicale della visione culturale della sinistra, in crisi di identità e alla ricerca di radici.

Come ho detto, la vicenda dei Socialisti democratici italiani, sin dalla costituzione in partito nel gennaio 1947, è stata a lungo trascurata da una storiografia peraltro assai fluente nell’analisi del sistema dei partiti politici italiani nel dopoguerra. Su questa damnatio memoriae ha pesato un insieme di pregiudizi ideologici, luoghi comuni storiografici, strumentale propaganda politica, accomunati in un giudizio liquidatorio, che attribuiva al partito di Saragat la responsabilità di aver favorito la sconfitta del Fronte popolare alle elezioni dell’aprile 1948 e, da qui, la pluridecennale egemonia democristiana e conservatrice. Secondo questa vulgata, il PSLI (poi PSDI), sostenendo la “scelta di campo occidentale” dell’Italia e collaborando al governo con De Gasperi, avrebbe operato un vero e proprio “tradimento” delle istanze dei ceti operai e popolari, con un asservimento alle politiche democristiane e, sul piano internazionale, statunitensi.
Analoga valutazione superficiale e censoria ha riguardato le vicende del PSDI negli anni Cinquanta e Sessanta, dall’incontro di Pralognan tra Saragat e Nenni sino alla partecipazione ai governi di centro-sinistra guidati da Aldo Moro.
Nella mia Storia dei socialisti democratici italiani, quindi, viene approfondito l’esame sulle origini del centro-sinistra italiano, in una vicenda politica che cominciò a delinearsi dalla seconda metà degli anni Cinquanta, avendo le sue premesse appunto nella scissione socialista democratica del 1947. Le figure e l’azione politica di Saragat, Roberto Tremelloni e anche di Luigi Preti – gli esponenti più attivi e maggiormente impegnati nell’azione governativa del PSDI, promotori, nel 1962, con l’ingresso del PSI nella maggioranza di governo, di una seconda e decisiva svolta nella politica italiana, dopo quella di palazzo Barberini – vengono riproposte in una più equilibrata attenzione.

L’impegno di Saragat, Tremelloni e dei loro colleghi di partito fu volto alla riunificazione del socialismo italiano, con la costruzione di una grande forza socialista democratica, sul modello delle socialdemocrazie europee, che enucleasse il PSI di Nenni dall’inconcludente frontismo con il PCI, facendolo approdare alle rive della cultura occidentale e socialista-liberale, con l’assunzione di responsabilità di governo assieme alla DC. Un impegno di lungo periodo, durato un quindicennio, con l’obiettivo – avviata la Ricostruzione e superata la fase del “centrismo degasperiano” – di condurre il sistema politico italiano verso una nuova e duratura configurazione, con la partecipazione alla gestione della cosa pubblica di quelle forze riformiste, come il PSI, espressione più diretta delle classi lavoratrici messe a dura prova dagli scompensi sociali generati dal “boom economico” e dalla crisi finanziaria internazionale. È la storia, quindi, del successivo formarsi, agli inizi degli anni Sessanta, dell’esperienza politica che portò con Amintore Fanfani e Moro ai primi governi di centro-sinistra “organico”, seguiti dall’elezione di Saragat a Presidente della Repubblica (1964) e dalla riunificazione socialista del 1966.

Così, nel biennio 1962-’63, come in quello 1947-‘48, il sistema politico italiano segnò una svolta positiva – verso il consolidamento di libere istituzioni democratiche e di un’economia di mercato, in direzione europeista e atlantista – nella quale i socialisti democratici furono decisivi protagonisti; l’“autonomismo” socialista, affermato infine da Nenni – con il sostegno alla formula del centro-sinistra e alla riunificazione dei socialisti italiani –, era nato e cresciuto da due lustri in casa socialista democratica e il PSI finalmente lo faceva proprio, rompendo il legame di ferro con i comunisti e rendendosi disponibile al difficile governo di una società capitalistica avanzata.
Alla valutazione storiografica dei lunghi percorsi della socialdemocrazia italiana in età repubblicana, si aggiunge, infine, nei miei studi, l’esame – fra luci e ombre – della concreta azione politica svolta dal partito di Saragat al governo

A quali ideali si ispirava la visione di Giuseppe Saragat e dei socialisti democratici?
Nel 1922, il giovane Saragat, a 24 anni, si iscrisse al PSU di Filippo Turati e Claudio Treves, usciti dal PSI in polemica con i massimalisti. La sua visione politica era d’un socialismo riformista, gradualista, democratico, molto lontano dalle tesi del marxismo rivoluzionario e del marxismo leninismo.
Con l’avvento del fascismo, Saragat andò in esilio prima in Austria, dove conobbe l’austromarxismo di Otto Bauer, e poi per diversi anni in Francia. Dopo la riunificazione fra PSI e PSU, Saragat si impegnò nel partito, affinché venissero scongiurate le ipotesi di “fusione” con il PCI, in quanto riteneva che il socialismo italiano ed internazionale poco avesse a che condividere con il comunismo di stampo soviettista. E in questa azione subì certamente l’influsso del socialista francese Léon Blum, fieramente contrario al comunismo francese ed internazionale.
L’esperienza di ambasciatore in Francia (1945-1946) consentì a Saragat una immersione nelle problematiche politiche internazionali del dopoguerra, sempre più – per la concretezza d’azione che esse richiedevano – allontanandosi dalla elaborazione dottrinale. Maturò definitivamente in Saragat la concezione di un socialismo che coniugasse democrazia e libertà, fieramente critico dei totalitarismi, nei quali iscriveva anche l’ormai degenerata situazione interna ed internazionale dell’URSS. Furono queste le premesse culturali e politiche della fondazione del Partito socialista dei lavoratori italiani, con la scissione di palazzo Barberini del gennaio 1947.

L’ideale del socialismo democratico e riformatore, non rivoluzionario né classista, improntò la sua visione ed azione politica. Dopo un viaggio negli Stati Uniti nel giugno 1947, Saragat comprese che il sistema capitalistico, americano in particolare, permetteva il pieno sviluppo delle libertà democratiche, il progresso dell’organizzazione sindacale e quindi il miglioramento generale delle condizioni economiche della classe lavoratrice. A ciò si aggiunse la visione europeistica, ereditata dai fondatori del Partito socialista, Turati e Treves, suoi maestri, che Saragat rielaborò nella proposta degli Stati Uniti d’Europa, oggi sorprendentemente ripresa da Matteo Renzi.
Europeismo, quindi, ma anche atlantismo, cioè scelta occidentale dell’Italia, quale si realizzò con le elezioni politiche del 18 aprile 1948 – che videro il definitivo tramonto dell’ipotesi comunista e soviettista in Italia – e con l’adesione al piano Marshall di aiuti americani (1948) e al Patto atlantico (1949).

Saragat e il PSLI (poi, dal 1952, PSDI) affermarono la necessità di valorizzazione del ruolo dei ceti medi, componente importante della “classe lavoratrice”, del rapporto con i cattolici e con la DC e i partiti laici (PRI in particolare). E soprattutto la necessità di una piena autonomia politica del socialismo italiano. E ciò in una visione ed azione volta a sconfiggere le ritornanti pulsioni di una destra nostalgica e le intemperanze e violenze del comunismo italiano.
Infatti, dopo la scissione del 1947, Saragat fu oggetto di attacchi forsennati e volgari della sinistra comunista italiana, che lo definì a lungo (si può dire sino ad oggi!) traditore della classe operaia, servo del capitalismo, succube della DC, ed addirittura filo-golpista (anni Sessanta)!
Ma Saragat, che aveva una grande cultura, che alimentava la serenità dell’animo, seppe resistere e di ciò gli dette deferente atto Indro Montanelli, in un necrologio del giugno 1988, a un giorno di distanza dalla sua morte: «Solo un uomo impermeabile alle voci di fuori poteva affrontare i comizi e sfidare le piazze del 1947 e del 1949, schiumanti di rabbia e di odio contro di lui, il socialfascista, il socialtraditore, il rinnegato, il Giuda venduto al capitalismo eccetera. Impassibile sotto quell’uragano, Saragat svolgeva le sue argomentazioni: asciutte, serrate, senza concessioni alla retorica tribunizia», e concludeva «[Saragat] non fu comprimario, ma un protagonista, che incise un segno profondo nella nostra Storia, e nel momento più decisivo e periglioso. Senza di lui forse non ci sarebbe stata una democrazia italiana. La quale è quella povera cosa che è, ma sempre meglio di qualsiasi altra cosa».

 

Tuttavia, come già ho detto, la violenza verso Saragat si è nel tempo tradotta in una damnatio memoriae soprattutto nella storiografia. Sono numerose le storie d’Italia che trascurano (o addirittura omettono) il ruolo di Saragat nella costruzione della democrazia italiana: in esse ferve ancora – eredità psicotica – l’avversione all’idea del socialismo democratico (quale tuttavia si affermò in tante nazioni europee) e dell’anticomunismo “cerebrale” di Saragat, tenace oppositore del totalitarismo sovietico.

 

Come si giunse alla scissione di Palazzo Barberini?
Forte della sue letture del marxismo di Marx (e non delle versioni spurie di esso) e soprattutto ricco dell’esperienza dell’austromarxismo e del socialismo riformista francese, Saragat abbandonò la carica di ambasciatore in Francia e ritornò in Italia, agli inizi del 1946, quando si avvide che le posizioni “fusionistiche” nel PSI, favorevoli cioè ad una fusione con il PCI, stavano prendendo il sopravvento, anche attraverso discutibili (e contestate) operazioni di voto precongressuale nelle sezioni del PSI.
Scrisse a De Gasperi, nel comunicargli le dimissioni da ambasciatore: «Una cosa oggi non è enigmatica: l’odio del comunismo per ogni forma di socialismo democratico, odio a cui è legata la sua origine… E oggi, e non credo di sbagliarmi, si assiste ad un fatale ritorno del comunismo all’odio delle sue origini contro quella democrazia dell’Occidente europeo in cui affluiscono trenta secoli di una civiltà romana, cristiana, razionalista di cui la Russia fu priva e che non può perdonare… La Russia si acconcia, perché non può fare diversamente, alla esistenza di una potentissima America che le è tendenzialmente ostile. Ma la Russia farà di tutto per impedire che si formi un’Europa occidentale legata da un minimo di organicità… Di qui la sua avversione per le correnti genuinamente democratiche del socialismo dei vari Paesi del continente ed il tentativo di distruggerle con accorgimenti tattici che vanno dalla lusinga fusionistica alla violenza aperta e brutale».

 

E infatti, al congresso nazionale del PSI del gennaio 1947, Saragat tenne un lungo discorso, incentrato sul tema dell’autonomia socialista, che per lui era dottrinale, politica ed anche morale, rispetto al comunismo italiano e sovietico. Lo sostennero la Federazione giovanile socialista e gli uomini delle minoritarie correnti di “Critica sociale” e di “Iniziativa socialista”, con cui abbandonò il congresso del PSI, riunendosi in palazzo Barberini, ove nasceva il Partito socialista dei lavoratori italiani. Dichiarava Saragat nel suo intervento: «Abbiamo riconquistato nei confronti dei comunisti, una libertà di giudizio che prima non avevamo… C’è per tutti noi socialisti qualcosa che è più in alto dello stesso nostro partito ed è il diritto di ogni uomo di giudicare nella propria coscienza di ciò che è bene e di ciò che è male, di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto. Ma noi non potremo mai delegare questo nostro inalienabile diritto al partito… in nome della disciplina formale… Questo senso di responsabilità individuale si identifica con la nozione di libertà».
Il partito di Saragat sarebbe stato decisivo, nelle elezioni politiche dell’aprile 1948, perché la DC insieme con i partiti laici alleati conseguissero la maggioranza dei seggi al Senato (la DC aveva da sola la maggioranza alla Camera), dando origine all’era “centrista”, in cui De Gasperi, Presidente del Consiglio, portò avanti la ricostruzione del Paese, premessa del successivo “miracolo” economico.
Con le elezioni del 1948, e la successiva adesione al Patto atlantico e alla Nato nel 1949, la “scelta occidentale” dell’Italia fu definitiva. Saragat e i socialisti democratici vi avevano concorso in modo decisivo.

 

Quali altre vicende hanno caratterizzato la storia politica dei Socialisti democratici italiani nel primo ventennio di costruzione della Repubblica?
Oltre a Saragat e ai socialisti riformisti d’anteguerra (Ugo Guido Mondolfo, Giuseppe Emanuele Modigliani, Giuseppe Faravelli, Matteo Matteotti, per citarne solo alcuni) che fondarono il PSLI, personalità di grande rilievo nel neo-nato partito e nel ventennio successivo fu certamente Roberto Tremelloni.
Tremelloni gestì l’attuazione in Italia degli aiuti del piano Marshall, impedendone una esclusiva appropriazione da parte dei grandi gruppi industriali e finanziari del Paese, e promuovendo una “politica della produttività” (quale gli USA richiedevano), in cui le premesse dello sviluppo produttivo furono poste, grazie ad un’ampia politica di lavori pubblici e di attenta ripartizione delle risorse. Egli era stato allievo di Einaudi, e, come ministro, attenuò con la sua azione le conseguenze della necessaria politica deflazionistica avviata dallo stesso Einaudi, affinché l’Italia superasse la grave crisi economica postbellica.
Si può dire che se Saragat pose le basi della democrazia italiana di stampo occidentale, Tremelloni ne favorì la ripresa economica. L’uno e l’altro ricevettero continue attestazioni di stima da De Gasperi, con cui tenacemente collaborarono.

 

Per quanto riguarda gli anni Sessanta, e i rapporti con un altro grande leader democristiano, la migliore e più lucida individuazione dei legami fra Moro e il PSDI si può rilevare nell’ambito delle vicende che portarono alla nascita del primo governo Moro, con l’avvio del centro-sinistra definito “organico”. Numerosi sono i punti di approfondimento di questa complessa vicenda.
Innanzitutto, la fase di incubazione del centro-sinistra organico. Negli anni che vanno dal marzo 1959, quando Moro venne eletto segretario della Democrazia cristiana, sino al gennaio 1962 (congresso della DC a Napoli, che delibero l’“apertura a sinistra”) e al marzo successivo, con la formazione del quarto governo Fanfani, varato grazie all’appoggio esterno dei socialisti, il tema più importante dei rapporti fra la DC di Moro e il PSDI di Saragat fu l’azione di avvicinamento e di incontro – già avviata dopo i fatti d’Ungheria del 1956 – con le posizioni del Partito socialista italiano di Nenni.
Il PSI usciva dalla lunga stagione del Fronte popolare e aveva al proprio interno radicate posizioni massimaliste, ostili a ogni tipo di collaborazione governativa. Il ruolo del PSDI in questa fase fu quello di “cerniera” fra le posizioni più avanzate.

 

Il varo del primo governo Moro di centro-sinistra organico fece seguito a lunghe discussioni fra i partiti della coalizione governativa, al centro delle quali vi era il tema delle politiche di programmazione economica, strumento di governo fortemente voluto dal PSDI, per la cui attuazione i socialisti democratici, su iniziativa di Tremelloni, avevano condotto una lunga battaglia sin dal tempo della collaborazione con De Gasperi.
Nel primo, come nel secondo governo Moro aspetto molto importante della collaborazione con il PSDI fu l’attuazione delle politiche economico-finanziarie, resa particolarmente difficile dalla sfavorevole congiuntura economica internazionale. Il ministro delle Finanze, Tremelloni, venne chiamato a presentare una serie di disegni di legge volti alla semplificazione burocratica, con una razionalizzazione della spesa pubblica, e al rilancio della produzione e dell’occupazione, con una rilevante detassazione sulle esportazioni italiane.

 

Altro aspetto dell’accordo di governo fu inerente al tema dell’atlantismo, connesso con quello dell’europeismo. Anche questo era stato un campo di forte impegno per Saragat e per i socialisti democratici sin dal 1947. Con i governi Moro questa linea politica si approfondì, tanto che nel dicembre del 1964, Saragat, ministro degli Esteri, presentò una proposta di “Dichiarazione” (piano Saragat) per un nuovo trattato, volto a “istituzionalizzare” il processo d’integrazione europea anche sul piano politico. Il piano Saragat proponeva, per il triennio di preparazione del nuovo trattato, l’avvio di una cooperazione politica sistematica tra gli Stati, con l’approfondimento di politiche comuni, il sostegno all’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune europeo, l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo, con un rafforzamento dei suoi poteri, e la fusione delle tre Comunità europee. Il governo italiano puntava alla riconferma dell’alleanza militare con gli Stati Uniti d’America, impegnati dall’intervento in Vietnam, e a sostenere il processo di distensione tra USA e Unione Sovietica, con la limitazione degli armamenti atomici.

 

Il centro-sinistra di Moro – nato con il sostegno di larghi strati dell’opinione pubblica – restò, tuttavia, al di sotto delle aspettative, soprattutto perché non portò a compimento il suo progetto riformatore; si trovò fin da subito a operare in una difficile situazione economica, che impedì l’attuazione delle riforme, o di buona parte di esse. Si adottarono, invece, necessari e duri provvedimenti anticongiunturali, con un aumento della tassazione, ma anche con estremi tentativi di riduzione della spesa pubblica. I contrasti fra i partiti di maggioranza e le politiche assistenzialiste e clientelari, soprattutto della DC, – finalizzate a mantenere il consenso elettorale, in particolare fra le fasce di popolazione più colpite dalle difficoltà economiche – presero, quindi, il sopravvento, facendo di fatto fallire la programmazione economica intesa come pianificazione “ragionata e coordinata” degli interventi pubblici, volti soprattutto al rilancio dell’iniziativa economica privata.

 

Dal punto di vista politico, la nascita del centro-sinistra rappresentò certamente una svolta per la storia italiana del secondo dopoguerra, con il superamento del centrismo degasperiano e la nascita di un’alleanza di governo fra democristiani e socialisti che si sarebbe consolidata nei decenni successivi.
L’“apertura a sinistra” della DC, accompagnata da un definitivo allontanamento dei socialisti di Nenni dai comunisti, rappresentò per i socialisti democratici italiani un importante risultato che, a onor del vero, è stato storiograficamente negletto: a quindici anni dalla scissione di palazzo Barberini, gran parte del PSI condivise le posizioni di Saragat e la sua ferma convinzione che, per sostenere lo sviluppo e il consolidamento della democrazia nell’Italia repubblicana, i socialisti avrebbero dovuto abbandonare le tentazioni massimaliste e le utopie comuniste, schierandosi con convinzione nel campo delle democrazie liberali, per il consolidamento di una visione sociale incentrata sulla libera iniziativa dell’individuo. Questa fondata convinzione sarebbe culminata nella riunificazione socialista del 1966.

 

A chi guardi al di fuori degli antichi e spesso rinnovati schematismi ideologici, che tanto hanno condizionato il lavoro storiografico e, più in generale, l’elaborazione culturale nel secondo dopoguerra, non può non apparire con nettezza il ruolo di grande rilievo che i socialisti democratici e il loro leader ricoprirono nella realizzazione di un forte radicamento della democrazia italiana nell’ambito del sistema capitalistico occidentale. Ed oggi, anche se a troppi anni di distanza e di vilipendio, questa ragione politica e morale comincia ad esser loro riconosciuta.

 

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