Un uomo si accinge a raccontare la storia di un suo compagno di prigionia: Aleks Krasta. Si sono incrociati a più riprese nel corso dei loro anni trascorsi in vari campi di rieducazione e di lavoro, ma è la loro convivenza di molti mesi in un campo vicino a un villaggio chiamato Progresso, a cementare la loro amicizia e incentivare la loro confidenza; sarà grazie a questa amicizia, che il narratore riceverà il dono di un memoriale di molte pagine, con la preghiera di lavorarci a quattro mani. Si tratta di uno scritto che, pur ingarbugliato e a tratti indecifrabile, egli sentirà il dovere di districare e rendere in forma narrativa. Aleks Krasta è stato a sua volta un bravo autore, pur se il suo talento ha avuto modo di esprimersi in un unico racconto, intitolato “La rivincita”, prima che la censura lo prendesse di mira. La complessità del manoscritto di Aleks sta anche nel fatto che contiene a sua volta, un altro racconto, fatto a Krasta da Padre Stefano, un prete cattolico internato insieme a lui in altri campi e che il narratore non ha mai incrociato. Ben presto il narratore si rende conto che dovrà dipanare da solo la matassa; essendo Krasta morto nel corso di un viaggio all’estero, non potrà aiutarlo a venire a capo dell’intricato garbuglio che sono le storie dei due protagonisti, le cui voci spesso si accavallano senza soluzione di continuità. L’autore depositario del manoscritto deve venire a patti con il fatto che il racconto nel racconto, oltre alla frammentarietà degli scritti, è la sfida più grande, è come un quadro all’interno di uno specchio che lui deve necessariamente attraversare se intende decifrarlo. La morte di Padre Stefano, per la quale Aleks vuole una rivincita, un fiat justitia, ha armato la sua mano di giovane autore nella stesura di un primo racconto, dieci fittissime cartelle spesso indecifrabili, che sono talmente intense che la sua mente vacilla, gli fa cercare un testimone del suo percorso, una sorta di Virgilio che lo guidi nell’abisso che gli si spalanca dinanzi ed ecco che cerca, quindi il suo compagno di prigionia, quell’autore, che però al momento sta completando un’altra opera ma accetta, al termine di questa, di aiutarlo a venire a capo di un manoscritto che è denso e intricato come un labirinto, oltre ad essere pieno di salti temporali. Aleks gli affida il manoscritto prima di partire per un viaggio dal quale non farà ritorno; passa molto tempo prima che il narratore riesca a sedersi a un tavolo dinanzi a un foglio bianco, senza che i fili delle due vite che dovrà ricucire insieme e che giacciono in attesa di riscatto tra le pagine confuse, gli diano le vertigini, ma, quando lo fa, il flusso è ininterrotto e possente. Ha risolto la lunga indecisione tra la prima e la terza persona, a favore di quest’ultima, è come Dio “l’onnipresente, onnisciente narratore”, che si accinge a raccontare del primo incontro tra padre Stefano ed Aleks, in un campo nel quale i prigionieri lavoravano al prosciugamento delle paludi… La rivincita è un romanzo che si può solo definire faticoso, ma nel più nobile dei sensi. Bashkim Shehu ha intuibilmente fatto uno sforzo notevole per mettere su carta le sue personali esperienze di prigioniero politico, anche se nel corso dell’intervista che ci ha rilasciato ha tenuto a puntualizzare che non è questo lo scopo del libro, ed ha fatto quanto in suo potere perché questa non fosse una lettura facile. Al lettore viene richiesto di conquistare ogni parola, ogni asperità linguistica, di prodursi in un immane sforzo di presenza di spirito e di coscienza, di affrontare le stesse fatiche dei prigionieri dei campi di rieducazione all’interno dello Stato più paranoico e crudele del mondo. Non è un privilegio scontato, quello di entrare nella mente di un uomo che a cinquant’anni aveva già vissuto tre vite: quella dorata di figlio del delfino designato di Henver Hoxa, quella del prigioniero politico che ha seguito la caduta in disgrazia di suo padre, quella dell’esule che, forse, non è mai uscito di prigione, pur essendosi costruito una nuova vita a Barcellona. La rivincita è un testo ripido, che va scalato, una costruzione semantica che va conquistata paragrafo dopo paragrafo, che richiede al lettore di procedere come scalando un edificio cieco, al cui interno non si può sbirciare. Si procede, dunque, senza comprendere dove ci porterà il nostro incedere a fatica, solo per realizzare, una volta in cima, che la conquista non è il contenuto dell’edificio, ma lo sterminato paesaggio che si domina dalla sua cima. Bashkim Shehu ci fa il dono inestimabile di quella che per lui stesso deve essere una conquista: la visione dall’alto. Il lettore ostinato avrà il privilegio di condividere la sua poetica, ammirare il suo mondo fatto di specchi negli specchi, che a tratti ricorda quello del Dosteoevskji de I fratelli Karamazov e che da solo vale la pena di aver affrontato un testo nobilitato da un’ottima traduzione, che nulla regala all’occhio distratto e superficiale, ma che svela abissi sconfinati al lettore che voglia impegnare la propria mente in una sfida degna della più alta Letteratura.
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