I “farinielli” di via Toledo tra Balzac e i tabù del sesso. Da Caffarello a Siface il mito «oscuro» dei cantanti evirati (Il Mattino)

di Antonella Cilento, del 30 Ottobre 2012

Da Il Mattino – 28 ottobre 2012
Volti e storie degli artisti castrati protagonisti delle scene nel ‘700. Dalla miseria al successo

È la parallela di via Nardones via Carlo De Cesare, che s’inoltra (sarebbe meglio dire, s’infizza) dentro Sant’Anna di Palazzo da via Toledo. Al numero 15 di questa strada, che si chiamava un tempo – quando Benedetto Croce scrisse un po’ della storia che stiamo per raccontare – vico Carminiello sopra Toledo, c’è, bellissimo ma oscurato dalla luce obliqua e dal grigiore della pietra, Palazzo Majorana. Lo costruì per suo uso privato, su disegno di Ferdinando Sanfelice, nel 1754 il grande cantante castrato Gaetano Majorana detto Caffarello, fra le voci più note (e capricciose) della stagione del bel canto ancien règime.Caffarello aveva voluto su questo elegantissimo palazzo rococò una lapide che recitava «Amphion Thebas, ego domum»: come Anfione, figlio di Antiope, con la sua musica aveva sollevato le mura di Tebe, così lui, con la sua sola, ma pagatissima, voce, aveva eretto questa casa. Uno spiritoso – e don Benedetto discetta su chi sia stato nei suoi «Aneddoti e profili settecenteschi» – pare vi scrivesse accanto «Ille cum, tu sine», ad indicare che Anfione edificò, sì, Tebe ma poi ebbe dodici figli da Niobe, Caffarello, invece, di figli non ne poteva avere a causa della sua condizione di evirato. Le storie dei «farinielli» fra Sei e Settecento – ma se anche l’uso decade esiste una traccia sonora dei primissimi anni del Novecento – sono piuttosto note: per ottenere voci angelicate e non portare in scena donne, escluse dalle rappresentazioni da papa Sisto V appellandosi a una delle lettere di San Paolo dove si vieta alle «femmine» di parlare in chiesa (e se possibile anche altrove… ), i secoli prerivoluzionari rinverdirono in Italia, e a Napoli e Roma in particolare, una pratica antichissima: la castrazione dei fanciulli.

L’operazione era atroce, la ricostruisce il professor Giovanni Sole in «Castrati e cicisbei», Rubbettino editore: «L’orchiectomia veniva preparata drogando il fanciullo con oppio, immergendolo in un bagno di latte per ammorbidirgli i genitali e comprimendogli le vene giugulari o la carotide per intontirlo. Quindi si procedeva all’operazione: il chirurgo aiutato da alcuni assistenti, praticava una profonda incisione dall’ano allo scroto, afferrava i testicoli e il cordone spermatico, li estraeva e li tagliava con il coltello». Morivano in tanti, è facile immaginarlo, e chi sopravviveva non necessariamente diventava poi un grande cantante. I bambini sottoposti all’operazione più spesso erano reietti e infelici, incapaci di procreare anche se quasi sempre adatti al rapporto sessuale. Estrema risorsa delle famiglie povere, la castrazione era perciò una moda, uno stile di vita, uno status symbol esibito a beneficio dell’annoiata e moribonda nobiltà, bisognosa di un teatro dove la musica, come racconta bene Sole, fosse piacevole come oggi la colonna sonora di un film, le scenografie sfavillanti, immaginifiche e stordenti, i costumi sfarzo si e improbabili: «Il Senesino, per interpretare a Londra la parte di Giulio Cesare di H1indel, pretese di essere assassinato sulla scena calzando eleganti scarpette nere con fibbie dorate, ghirlande di diamanti, calze di seta rossa e braghe verdi chiuse al ginocchio». Quindi, voci né maschie né femmine, non più bianche perché portate dal corpo di un adulto, costruivano il sogno inattingibile di un’Arcadia erotica e lontana, in grado di soddisfare fantasie sessuali tanto degli uomini quanto delle donne. Insomma, l’antico mito dell’ermafrodito ma prodotto con la lama, tabù sessuale e sociale, specchio lontanissimo, eppure non del tutto difforme, degli odierni interventi per mutare sesso, che hanno ovviamente tutt’altro scopo e rispondono a ben altre necessità d’identità personale e, tuttavia, non sono meno impressionanti, sul piano chirurgico e per le conseguenze postoperatorie, come molte trans raccontano, di questa pratica. castrativa illegale e violenta. Pare che Napoli detenesse il triste record di quest’attività e che ovunque sorgessero botteghe con la scritta «qui si castrano i ragazzini», «qui si castra a buon mercato» o, come a Roma, «qui si castrano li cantori delle Cappelle Papali». Scrive nel 1740 Charles De Brosses (ecco il nostro frammento dadapolico di oggi, scelto da Fabrizia Ramondino e Andreas Friedrich Müller ): «Li si opera verso le età di sette o otto anni; bisogna che il fanciullo stesso lo chieda: la polizia ha posto questa condizione per rendere la sua tolleranza meno intollerabile.

Essi diventano grandi e grossi come capponi, con le anche, la groppa, le braccia, la gola, il collo tondo e grassoccio come le donne. Quando li si incontra insieme, ci si stupisce, nel sentirli parlare, che da siffatti colossi possano uscire voci così infantili.

Ce ne sono di molto avvenenti; sono frivoli e lusinghieri con le belle dame dalle quali, secondo i maldicenti, sono molto ricercati per le loro capacità inesauribili; poiché essi, di capacità ne hanno. Si racconta anche che uno di questi demi-vir presentò un’istanza al papa Innocenzo XI per avere il permesso di sposarsi, dichiarando che l’operazione era stata fatta male; e sotto l’istanza il papa pose in margine: «Che si castri meglio». Alle tragiche storie dei castrati s’ispirarono, direttamente, Balzac per il suo capolavoro, «Sarrazine», in cui un ingenuo scultore s’invaghisce di una magnifica cantante salvo poi scoprire che si tratta di un uomo, e, indirettamente, l’immenso E.T.A. Hoffmann in «Ignazio Denner» […].

Di Antonella Cilento

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