Raccontare il lavoro. Una questione di stile (Corriere della Sera)

di Paolo Di Stefano, del 26 Novembre 2013

dal Corriere della Sera del 26 Novembre

Mi è venuto alla mente / che un giorno mi diranno di te / lo hanno ammazzato». Sono tre versi di Franco Fortini, scelti come epigrafe da Stefano Valenti per il suo libro “La fabbrica del panico”, pubblicato da Feltrinelli. In questo suo primo romanzo, Valenti racconta due storie in una: quella di un padre e di un figlio. Una doppia storia di terrore. Il padre, che dagli anni Settanta è un operaio turnista della Breda di Sesto San Giovanni, morirà per un mesotelioma pleurico provocato dall’esposizione all’amianto: era tornato in pensione nel suo paese della Valtellina, dove da giovane aveva cominciato a dipingere. La pittura, per una vita, era rimasta la sua vera passione, ma per vivere (e per morire) c’era la fabbrica: «Quando arrivava davanti alla fabbrica, mio padre aveva paura. Guardava il muro grigio del casermone e lì, aggrappato alla rete metallica che tracciava il perimetro del piazzale, provava la vertigine». Il narratore ha ereditato il panico dal padre e dal chiuso del suo isolamento pensa e ripensa a quella «condanna senza reato» che veniva chiamata lavoro. Qualcosa comunque lo smuove e quando conosce il Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro, viene a sapere che nel reparto dei saldatori diciannove dei ventisei operai sono morti di cancro ai polmoni e quattro sono in fin di vita.
Un lavoro che ammazza. Con le prime relazioni preventive del 1974, lo sapevano tutti; tutti tranne gli operai: lo sapevano datori di lavoro, politici, sindacalisti, servizi sanitari, ma la grande omertà sui danni dell’amianto era funzionale ai vantaggi economici della fabbrica e i processi si sono risolti senza colpevoli. Il libro di Valenti non è un’inchiesta nè un reportage su quelle vittime senza colpevoli. Niente di più distante dal giornalismo. E’ un romanzo in cui c’è l’inchiesta e c’è il reportage, ed essendo un romanzo-verità fa vivere dall’interno il dolore; è un’immersione dentro il dolore privato che si fa strazio collettivo o viceversa.
C’è stata un tempo la letteratura industriale, quella di Paolo Volponi, Ottiero Ottieri, Luciano Bianciardi…, nata negli anni del boom economico. Gli scrittori già riuscirono a presagire il malessere psichico, oltre che sociale, e le disarmonie che si nascondevano dietro le grandi illusioni dello sviluppo italiano. La letteratura sul lavoro è tornata in auge ormai da tempo, in una fase di cambiamento forse ancora più sconvolgente di quella degli anni 60 e 70: romanzi, diari, testimonianze, oltre che film e saggi. Di questo ritorno dà conto un libro di Paolo Chirumbolo, “Letteratura e lavoro” (Rubbettino). Ben venga la narrativa sul mondo materiale (anzi, sempre più immateriale) e sulla «realtà» del lavoro, ma non basta essere felici della quantità. Rimane esile la letteratura che, come quella di Ottieri e di Volponi (e di Valenti), riesce a dire verità altre, capaci di superare quelle giudiziarie o cronistiche dell’inchiesta giornalistica. È una questione di stile, cioè la Grande Questione Rimossa del nostro tempo senza stile.

di Paolo Di Stefano

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