La vecchiaia è finita, siamo tutti post-mortali (Avvenire)

di Armando Matteo, del 4 Maggio 2016

Armando Matteo

Tutti muoiono troppo giovani

Come la longevità sta cambiando la nostra vita e la nostra fede

Da Avvenire del 4 maggio

Ogni epoca offre alla Chiesa nuove opportunità e nuove sfide per l’annuncio del Vangelo, per la trasmissione della fede di generazione in generazione e per la testimonianza concreta delle istanze di carità e di giustizia provenienti dalla parola di Gesù. Anche la nostra non fa eccezione e ci pare che le questioni collegate all’allungamento della vita siano particolarmente rilevanti proprio in quanto vanno a toccare la prassi sacramentale spicciola, il rapporto tra cultura e fede e ancora il contributo della comunità cristiana alla costruzione di una società più giusta e semplicemente più umana.
Ci affacciamo per esempio sul capitolo più delicato del confronto tra immaginari diffusi, rapidamente e radicalmente ridefiniti a causa della longevità di massa, e fede cristiana: il capitolo dedicato allo spazio rimasto per un annuncio possibile della parola della risurrezione. Questa immensa vita a nostra disposizione renderà ancora auspicabile altra vita dopo la morte? Più la medicina allontana la morte dalla vita quotidiana, in quanto si muore sempre di più tardi, cosa che potrebbe, almeno teoricamente, favorire una qualche riconciliazione degli umani con questo evento, più la lingua diffusa tende a esorcizzarla e quasi ad annullarla, la morte. Sono, del resto, più che noti a tutti noi i numerosi sinonimi utilizzati per dire che qualcuno o qualcuna è morto o morta. Si va dal non esserci più allo spegnersi, dal venire a mancare allo scomparire, dal passare a una vita migliore al ricongiungersi, dal compiere l’ultimo viaggio all’accomiatarsi e congedarsi, dal cessare di soffrire al varcare le porte del cielo, dal finire i giorni all’addormentarsi: e qui, come si vede, è tutto un rosario di metafore che hanno come notazione comune la fatica ad accettare la condizione di passività che contraddistingue l’essere umano. Quando oggi si muore, si muore attivamente. Si fa qualcosa. Sì, è proprio paradossalmente così: non siamo mai proprio del tutto morti, neppure mentre moriamo! Per questo, da tempo, la studiosa francese Céline Lafontaine ha coniato l’espressione «post-mortale», per indicare la nostra società. Con le sue parole: «La nozione di post-mortalità si riferisce […] alla volontà ostentata di vincere grazie alla tecnica la morte, di “vivere senza invecchiare”, di prolungare indefinitamente la vita». Insomma l’inedita speranza di vita media concessa ai cittadini occidentali e le insistenze della ricerca medico-scientifica, che tratta sempre più la morte come una sorta di malattia da provare a debellare, rendono oggi l’ascolto della parola della morte sempre più raro e difficile. E questo vale non solo nel senso elementare per cui questo termine e il verbo relativo non trovano più spazio neppure sui manifesti funebri! Più radicalmente vale per quella parola che la morte possiede, nell’offrire orientamento, contorno e contenuto all’esistenza umana. «Società post-mortale» significa esattamente questo: la morte non parla più e più nessuno ascolta la sua parola circa la finitezza e l’irripetibilità delle scelte umane. Al contrario, la cifra che contraddistingue il modo ordinario di stare al mondo, soprattutto quello della popolazione adulta, è un giovanilismo senza freni e senza regole, inzuppato di narcisismo, cinismo e individualismo. Siamo portatori di un vitalismo esagerato, che le dinamiche economiche hanno individuato e promosso quale vero mantra della felicità. Bisogna godere. Bisogna godere sempre. Bisogna godere tutto. Lo spazio per pensare ad altro e a dopo perde semplicemente consistenza.
Inoltre una tale spinta vitale viene proposta e, grazie ai farmaci di ultima generazione e al perfezionamento costante delle tecniche chirurgiche, artificialmente prolungata sino a 70, 80 e 90 anni. Bisogna essere sempre in forma, sempre atletici, simpatici e pimpanti. Sempre fit! Guai a perdere qualcosa, a rinviare qualche piacere, a lasciarsi sfuggire una bella occasione! Di fronte a questo scenario, c’è ancora qualcuno che aspetta il paradiso per avere la felicità eterna? C’è ancora qualcuno che aspetta l’eternità per avere una vita duratura? C’è, insomma, ancora qualcuno che possa ascoltare, all’interno della sua dinamica esistenziale, l’inedito che la parola della risurrezione di Gesù ha portato con sé? Al cuore del messaggio del Vangelo si trova, infatti, l’evento della risurrezione di Cristo: la morte che gli era stata inflitta dal potere romano, su sollecitazione delle autorità giudaiche, a causa del suo messaggio di amore e di giustizia a raggio universale, non ha avuto su di lui l’ultima parola.
I cristiani credono che Dio stesso abbia agito in lui e tramite lui per sconfiggere il vincolo drammatico della morte, rivelando altresì la natura ultimamente divina di Gesù e conferendo pertanto assoluta credibilità al suo messaggio. A coloro che ora credono in lui viene donatala speranza che la morte non rappresenti più un luogo di non ritorno, ma una soglia di passaggio e purificazione verso un’altra vita e una vita altra. La più che accertata remotezza dell’evento della morte personale, che toglie quasi ogni drammaticità all’antica sapienza del memento mori («Ricordati che devi morire»), la configurazione post-mortale degli immaginari condivisi, che comandano un godimento senza testa e soprattutto senza fine, la rappresentazione della vecchiaia come tempo sostanzialmente affidato alla cura delle malattie neurodegenerative, che in ogni caso ci esonereranno da ogni volontà e responsabilità dirette, sembrano indicare la perdita di antenne, nella popolazione occidentale, per l’ascolto della parola più esplosiva e originale che in essa sia stata mai pronunciata: la parola della risurrezione di Cristo.
L’antica alleanza che il cristianesimo aveva pur in qualche misura favorito tra drammatica della morte e annuncio di una felicità possibile ha fatto pertanto il suo tempo. È fuori discussione che è almeno dall’epoca della peste nera, che raggiunse l’Europa sul finire del 1347, decimandone all’incirca un terzo della popolazione, che la Chiesa cattolica fa molto leva sulla paura della morte per sostenere la convenienza della fede. Quella paura non c’è più. È scomparsa, è venuta a mancare, si è spenta, si è congedata. È semplicemente morta. Sono necessarie altre antenne perché anche la parola della risurrezione non patisca un destino similare.

di Armando Matteo

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