«Sud, dove c’era l’industria e ora non c’è più» (Il Mattino)

di Fabrizio Coscia, del 21 Febbraio 2014

da Il Mattino del 21 febbraio

«Quando si riflette sul passato bisognerebbe liberarsi dalle ideologie. Non solo riversare sulla storia del Sud pregiudizi del presente. Il problema è ricostruire come sono andate veramente le cose». Paolo Malanima è direttore dell’Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo del Cnr, ed è autore, con Vittorio Daniele, del saggio Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011 (Rubbettino), che ha avuto il merito di reimpostare da una prospettiva economica l’annosa questione meridionale liberandola da molti luoghi comuni. E ora che il dibattito torna a riaccendersi, con l’uscita del volume di Emanuele Felice, Perché il Sud è rimasto indietro? (Il Mulino), e si torna ad agitare lo spettro dei più abusati stereotipi su un Sud causa dei suoi mali, malgovernato, pigro, corrotto, abitato da quella «razza maledetta» di cui parlava già Napoleone Colajanni, nel suo celebre pamphlet del 1889 contro le teorie lombrosiane, lo storico-economista invita ad attenersi semplicemente ai fatti.
Professor Malanima, nel saggio di Felice si attribuiscono le cause del divario tra Nord e Sud al gattopardismo delle classi dirigenti meridionali, e dunque agli stessi meridionali, accusati di indebita autoassoluzione per aver scaricato tutte le colpe dell’arretratezza al Nord. Che ne pensa?
«I lavori precedenti di Felice li ho trovati interessanti, ma questo mi sembra un passo indietro deciso nelle riflessioni sui problemi del Mezzogiorno. È un ritorno alle solite lamentele sugli sbagli dei politici e delle classi dirigenti meridionali. E’ una posizione viziata dall’ideologia: si sposta nel passato la critica alle forze politiche del presente. Ma la storia dell’economia è una scienza e come tutte le scienze richiede una raccolta di dati che vanno interpretati oggettivamente, lasciando da parte le visioni ideologiche».
Non può negare, però, che in parte il luogo comune su un Meridione corrotto e lassista si sia avverato.
«Quando una parte del Paese resta arretrata rispetto ad un’altra, la corruzione può essere una conseguenza, piuttosto che la causa. In molti Paesi dove l’economia è debole si mettono in moto fenomeni di corruzione».
Da pisano, lei non può certo essere accusato di simpatie neoborboniche…
«Assolutamente no. Non condivido quel tipo di posizioni, che sono basate su analisi superficiali e che esattamente come le altre, attribuiscono i mali del Sud alle classi dirigenti, anche se a quelle del Nord. L’assunto è ugualmente sbagliato». E allora ci dica come sono andate veramente le cose. «Innanzitutto occorrerebbe ricordare, quando si parla di questione meridionale, che il Mezzogiorno ha avuto delle fasi di crescita molto forti. Se confrontiamo i tassi di crescita del Sud Italia con altri Paesi scopriamo che il Meridione ha avuto uno sviluppo economico moderno, solo che insieme al Sud è cresciuto anche il Nord, e si è pertanto conservato il divario, ma si tratta di un’arretratezza relativa, non assoluta».
Qual è stato il periodo di maggior crescita?
«A partire dal dopoguerra in poi. È stata una crescita determinata dallo sviluppo generale, ovviamente, dal boom economico che a partire dagli anni Cinquanta ha trasformato tutta l’Italia da paese agricolo a industriale. Certo, ci sono stati la Cassa del Mezzogiorno e gli investimenti, ma per alcuni decenni, fino al 1975, il Mezzogiorno nel periodo dell’industrializzazione vera del Paese si è modernizzato e addirittura ha avuto un tasso di crescita superiore al Nord, al punto da indurre molti a prospettare che il divario economico si sarebbe colmato».
E invece cos’è successo?
«C’è stata la deindustrializzazione prima, con il passaggio al terziario, che comporta sempre un indebolimento della crescita, e in seguito la crisi economica, dalla metà degli anni Novanta, che ha portato l’Italia agli ultimi posti per la produttività, con un tasso di crescita pari a zero. E oggi il reddito medio di un abitante del Sud è al 60% di quello del Nord, una situazione di divario stabile, ma solo perché sono arretrati insieme, Nord e Sud».
Il divario economico esisteva già in partenza?
«Non direi. Nel 1861 l’Italia era un Paese generalmente povero, con un reddito pro capite annuo pari ai duemila euro di oggi, e con chiazze di relativo benessere sparse qua e là nel Paese, sia al Nord che al Sud. Le differenze sono cominciate con l’industrializzazione, che ha interessato solo una parte dell’Italia. Il divario si è accentuato soprattutto nel ventennio fascista dove l’industria si è concentrata solo al Nord. Abbiamo dovuto aspettare gli anni del dopoguerra e i decenni successivi per vedere allargarsi le aree di industrializzazione al resto del Paese, ma a quel punto il divario era già accumulato».
Abbiamo parlato di economia. Che spazio occupa, oggi, la politica nella questione meridionale?
«La politica non può fare miracoli. Certo si possono rendere le cose più efficienti, intervenire su questioni essenziali come i problemi del lavoro, la mobilità, l’occupazione, la legislazione. In Germania, ad esempio, le riforme nel campo del lavoro hanno reso più flessibile il sistema. I nostri politici, invece, finora si sono rivelati incapaci di cambiare lo stato delle cose. E non è certo in questo clima di immobilismo che si potrà risolvere la questione meridionale»

di Fabrizio Coscia

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