Cosa avvelena le nostre democrazie? Il libro di Antiseri, Di Nuoscio e Felice (formiche.net)

di Maurizio Serio, del 22 Ottobre 2018

I tre autori sono concordi nel ritenere, pur nella diversità di stili e di accenti, che la partita si giochi sul piano della qualità delle istituzioni a presidio del gioco democratico

Le trasformazioni dei regimi democratici contemporanei sono probabilmente l’oggetto di studio più frequentato oggi dalla letteratura politologica e dalla relativa pubblicistica, con esiti non sempre chiari ed originali. Anche per questo, è benvenuto lo sforzo di adottare una prospettiva transdisciplinare che viene da lavori come quello di Dario Antiseri, Enzo Di Nuoscio, Flavio Felice e intitolato, assai efficacemente, “Democrazia avvelenata” (Rubbettino Editore, 2018, pp. 194, euro 13,00). Cosa avvelena, dunque, le nostre democrazie?

I tre autori, non da oggi – e, nel caso del professor Antiseri, in maniera pionieristica, se non profetica – sono concordi nel ritenere, pur nella diversità di stili e di accenti, che la partita si giochi sul piano della qualità delle istituzioni a presidio del gioco democratico, ma anche su quello della quantità di meccanismi di bilanciamento, pesi e contrappesi, che ogni costituzione d’impianto liberaldemocratico può fornire per articolare le domande popolari e comporle con gli output provenienti dai diversi centri decisionali. In fondo, proprio qui sta il punto, in polemica contro ogni populismo: smascherare la pretesa di un popolo indifferenziato che supporti l’azione di un dato partito o di un determinato governo e la correlativa presunzione di questi ultimi di poter interpretare, in via “autentica”, la voce del primo.

Il volume propone una visione della realtà in cui alla differenziazione progressiva delle società avanzate occorre rispondere con assetti politici adeguati, in cui cioè la logica monistica top-down di un comando calato dall’alto per unificare e controllare il corpo sociale venga sostituita da un esercizio poliarchico delle prerogative di governo. Dividere cioè non per controllare meglio, come voleva un adagio della politica classica e del realismo, ma per meglio servire la complessità intrinseca della vita umana, cioè della persona e dei mondi vitali in cui essa è inserita. Non si tratta dell’argomento abusato della decostruzione dell’individuo come attore razionale e unitario, sul quale al massimo si può imbastire una filosofia della governamentalità che, a seconda dell’ispirazione politica, conceda o neghi legittimazione alla pretesa di sovranità dello Stato sui propri cittadini. Piuttosto, i tre autori concordano nel riconoscere il personalismo cristiano (e in quello che esso mutua dalla filosofia greca) ciò che valorizza al pieno la “vita politica”: la trama di relazioni (interessi, valori, stili di vita) in cui ciascuno di noi è inevitabilmente intricato per il fatto stesso di appartenere ad una famiglia, ad un popolo, ad una tradizione culturale.

Quindi, alla decostruzione dell’individuo conseguente alla socialità liquida dei social network (in cui si è darwinianamente o followers, seguaci, o influencers, cioè, di fatto, “predatori”) sulla quale oggi è imperniata non solo la comunicazione ma la stessa prassi politica, la prospettiva di questo lavoro oppone la decostruzione del populismo e delle sue debolissime premesse epistemologiche. Prima fra tutte, la concezione – ricordata da Flavio Felice, sulla scia di Tocqueville e del suo autorevole interprete Matteucci – della democrazia come “valore” metastorico anziché come “fatto” tutt’altro che irreversibile, “sempre cangiante e in trasformazione”, sempre a prova di confutazione. Da questo equivoco, intenzionale perché radicato e derivato dalla visione rousseuiana, nasce anche una cultura del dogma democratico arroccata su fake news e complottismo, in cui i colpevoli delle crisi sono sempre “gli Altri”.

Contro tale meccanismo di ignoranza e chiusura, gli autori del volume ripropongono l’ideale della società aperta di Popper, fondato su quella capacità critica e autonomia di giudizio che gli studi umanistici dovrebbero incentivare. E che, come appassionatamente argomenta Di Nuoscio, giustificherebbe la necessità oggi di incentivare questi ultimi, a loro volta. Il doppio condizionale è d’obbligo, per non farne un feticcio polemico, dunque inservibile, alimentato dalla retorica sulla loro presunta superiorità: come ricorda Antiseri – che dall’alto della sua magistrale testimonianza di servizio alla filosofia non è certo accusabile di sminuirne l’importanza – tale presunzione di superiorità “va temuta” nella misura in cui l’educazione umanistica “è affidata ad oligopoli culturali ed autoreferenziali: allora è meglio una formazione tecnica, che ponga a contatto con problemi reali”. Problemi che sovente rendono la democrazia un purgatorio, ma, nelle parole di Salvemini qui richiamate, la rendono tuttavia preferibile all’inferno della dittatura.

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