Demopatìa e nuove crisi. Intervista a Luigi Di Gregorio (Pandorarivista.it)

di Diego Ceccobelli, del 23 Dicembre 2022

Luigi Di Gregorio

Demopatìa

Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico

Dopo i cambiamenti a cui il mondo politico è andato incontro a seguito della diffusione della televisione commerciale, l’esplosione dei social network ha accompagnato un’ulteriore evoluzione nei tempi e nelle modalità della politica. La diffusione di forme di dibattito sempre più fondate su ipersemplificazione e individualismo è parte di quel fenomeno che Luigi Di Gregorio ha definito “demopatìa” in un libro dal medesimo titolo uscito per Rubbettino Editore nel 2019. Di Gregorio è docente di Scienza politica presso l’Università della Tuscia di Viterbo, dove insegna Comunicazione pubblica, politica e sfera digitale. Questa intervista riprende alcuni dei concetti al centro del libro, interrogandosi sulla loro attualità alla luce delle recenti crisi.


Sono trascorsi tre anni dall’uscita di Demopatìa. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico. Non tre anni qualsiasi. C’è stata la pandemia di Covid-19, è in corso una guerra nel cuore dell’Europa e stiamo attraversando una complicatissima fase economica legata al costo dell’energia. Qualcosa è cambiato rispetto alla diagnosi di tre anni fa? 

Di Gregorio: Riflettendo su tutto ciò che è accaduto in questi anni, impressionisticamente si potrebbe dire di si. Come si fa a non considerare il peso di quelle macrovariabili sul destino delle nostre democrazie? Eppure, a guardar meglio, si scopre che le traiettorie individuate in Demopatìa reggono e sopravvivono anche a “cigni neri” e imprevisti di quella portata, praticamente planetaria. Queste variabili avrebbero potuto essere veri e propri game changer e, invece, spesso e volentieri hanno accelerato cambiamenti e tendenze che erano già in corso prima, rivelandosi così più parentesi della storia che grandi mutamenti. A mio avviso, prima la pandemia poi la guerra in Europa e la crisi energetica hanno riportato in auge alcuni vecchi bisogni che avremmo potuto riattivare o meno. Il primo si potrebbe definire come bisogno di certezze. Il disorientamento, individuale su cui mi soffermo molto in Demopatìa, era ovviamente ben presente e radicato prima della pandemia e di tutto il resto. L’arrivo del Covid-19 ha spinto alcuni intellettuali, in tutto l’Occidente, a credere che vi fosse un’occasione per ricostruire senso sociale e combattere la deistituzionalizzazione delle nostre società. Era la fase del “ne usciremo migliori”, “nulla sarà più come prima” e di altri messaggi simili. Il problema è che il virus è piombato su una società nella quale il livello di fiducia nella politica, nei mezzi di informazione e nelle religioni era già molto basso. E sono questi i “mondi” deputati a costruire quel senso sociale su cui si reggono le comunità. Anche la fiducia nella scienza, per le ragioni che conosciamo, è via via andata calando nonostante i grandi risultati ottenuti nella lotta alla pandemia. Insomma, non vedo alcun trend di recupero di legittimazione e fiducia da parte della politica, dei media, delle religioni o della scienza. I dati erano in calo prima della pandemia e lo sono rimasti anche dopo, con l’aggravante della “divisività” anche delle tematiche scientifiche, con l’infodemia, la crescita del fenomeno no-vax e dei negazionismi. Insomma, se quel bisogno di certezze c’è – e io credo ci sia – va a scontrarsi con una società profondamente individualizzata, che galleggia ormai su narrazioni intense ma per nulla solide, non in grado di cementare alcunché nel lungo periodo. E questo resta un problema.

 

Proseguendo il ragionamento, qual è il secondo bisogno che le crisi in corso hanno riportato in auge?

Di Gregorio: Il secondo bisogno è collegato al primo ed è – per citare un noto libro di Zygmunt Bauman – la “voglia di comunità”. Vivere nell’era esponenziale, in un mondo privo di costanti e ricco di variabili, ci spinge a cercare certezze per cementare nuove comunità e nuovi sensi di appartenenza duraturi. Con l’arrivo della pandemia c’era chi parlava di un Nuovo Umanesimo alle porte – ad esempio Edgar Morin – fondato sulla consapevolezza di far parte tutti di una comunità planetaria, di essere sulla stessa barca e quindi sulla necessità di rafforzare un senso di appartenenza globale. Quello che abbiamo visto è stato diverso. Se, per un verso, è abbastanza chiaro quanto certi problemi siano legati a politiche transnazionali e all’interdipendenza da altri Paesi, dall’altro, quasi come un riflesso condizionato, si attivano reazioni difensive, tendenti a chiudere più che ad aprire, a ri-nazionalizzare interi settori piuttosto che a cercare soluzioni globali o sovranazionali. L’Unione Europea è un indicatore importante di questi processi. Quanto si fatica a trovare soluzioni condivise di politica economica, energetica, di difesa, dell’immigrazione? Più che l’attivazione di una solidarietà globale, mi pare probabile quella di un neo-tribalismo, di una balcanizzazione tra le nazioni, ma anche dentro le singole nazioni, con polarizzazioni sempre più forti e una dinamica “noi-loro” sempre più spinta.

 

La pandemia ha anche riportato al centro il bisogno di “vera” interazione sociale, compensata da una vita da remoto che tuttavia doveva farci comprendere l’importanza delle relazioni autentiche. È andata così? 

Di Gregorio: Si, quello è un terzo bisogno solo apparentemente riattivato, il bisogno di interazione sociale rafforzato dal distanziamento fisico. Dico solo apparentemente perché le attitudini dei consumatori sono rimaste le stesse. Durante il lockdown abbiamo sicuramente valorizzato l’importanza di familiari e amici, ma è stata una “bolla” temporanea, anche perché ci siamo simultaneamente abituati alle “relazioni digitali”. Già nell’estate del 2020, quando i livelli di contagio erano diminuiti in diversi Paesi e l’agenda mediatica non era più monopolizzata dalla pandemia, le nostre vite avevano ripreso le andature e le abitudini pre-Covid: nel nostro percepito l’emergenza era terminata ed erano riprese le file nei centri commerciali, le spiagge erano affollatissime e così via. Un indicatore interessante della “bolla Covid” sono gli spot pubblicitari, sempre utili a delineare i social trend del momento. Durante la fase acuta della pandemia, con 4 miliardi di persone in lockdown, molte aziende hanno scelto di fare spot che esaltassero il ruolo della famiglia, della sicurezza, della comunità, del senso di appartenenza, con attori che indossavano le mascherine e si mantenevano a distanza. Già a giugno 2020, lo spot della nuova Volkswagen Tiguan aveva invece come claimSkip boring. The exciting new Tiguan, con tutte le parole d’ordine tipiche di una società consumistica e individualizzata pre-pandemia.

 

Il bisogno di sicurezza però sembra essersi riattivato, anche in virtù della guerra in Ucraina.

Di Gregorio: Sicuramente tra pandemia, guerra e crisi economica il senso di precarietà è aumentato e per un certo periodo abbiamo assistito a un’inversione della piramide dei bisogni di Maslow; a un certo punto eravamo tornati alla centralità dei bisogni primari, ai primi due gradini della piramide. I bisogni fisiologici e di sicurezza fisica si erano presi una temporanea rivincita su quelli sociali e su quelli legati alla stima e all’autostima. C’era anche chi prefigurava una de-globalizzazione, una decrescita felice e un modello di sviluppo totalmente nuovo, ad esempio di nuovo Morin. Non mi pare che sia in corso un’inversione a U sotto quel profilo. Quante persone vogliono davvero cambiare stile di vita e modello di sviluppo? A quanti comfort dovremmo rinunciare per tornare indietro in una piramide dei bisogni che abbiamo scalato con grande determinazione nel corso dei secoli? Peraltro, la crisi energetica se da un lato può aver indebolito la globalizzazione – con un ritorno alla sovranità e all’autosufficienza come priorità nazionali – dall’altro ha rimesso in discussione il percorso green e le politiche di adozione di energie rinnovabili, per ragioni di emergenza. Infine, il bisogno di sicurezza è un’arma a doppio taglio, perché alimenta paure e tensioni magari ingigantite rispetto ai pericoli reali e può contribuire a un prepotente ritorno di populismi e di distorsioni simil-autoritarie.

 

Quali riflessioni si possono trarre a partire da quanto detto finora? È possibile individuare altri bisogni più o meno riattivati? 

Di Gregorio: C’è il bisogno di avere una nuova scala di priorità. La futilità, il ludico, la gratificazione istantanea possono sembrare in discussione durante una pandemia o durante una forte crisi economica. Ed è così in effetti. Ma tutto dipende dalla loro durata. Se si tratta di fenomeni temporanei, non riescono ad invertire tendenze così forti e generalizzate. Pensiamo all’agenda politico-elettorale italiana della seconda parte del 2022. Sicuramente si è parlato di energia, di caro-vita, di reddito di cittadinanza, ma il dibattito pubblico è stato, per la maggior parte, dominato da questioni triviali, come l’uso di un articolo maschile anziché femminile, una volta che Giorgia Meloni è diventata Presidente del Consiglio. Anche le prime decisioni di governo, tra rave party e sbarchi, si sono sintonizzate su un’agenda più emotivo-mediatica che razional-strategica per il Paese. Non ci fossero stati G20 e COP27, avremmo avuto una serie di discussioni tra maggioranza e opposizione verosimilmente incentrate su questioni assolutamente non prioritarie, ma sicuramente divisive ed “eccitanti”. Siamo abituati cosi, è quella la cifra della campagna elettorale permanente. E non vedo particolari cambiamenti all’orizzonte. Lo stesso vale per quello che potremmo definire il bisogno di complessità – e di competenza –. In teoria, dopo la pandemia, con la guerra in corso e con il caro-vita dovuto al costo dell’energia, avremmo potuto aspettarci una campagna elettorale incentrata sui programmi e su questioni cruciali e strategiche per il Paese. Non è andata propriamente così. Oltre l’80% degli elettori che hanno votato i partiti più performanti – Fratelli d’Italia, Movimento 5 Stelle e Azione – ha votato il leader, non il programma, né il partito. La logica della personalizzazione e della leaderizzazione pre-2020 continua a determinare il voto e così l’abitudine all’ipersemplificazione anche dei temi più complessi. Abbiamo avuto virologi, epidemiologi e geopolitici in televisione per anni, ma il risultato è stato tipico da media logic televisiva: hanno finito spesso per diventare banalizzatori di temi complessi, attori di un circo più grande di loro, che ha contribuito a ridurre la consapevolezza della complessità e a trasformare in discussioni “tribali” anche quelle sulla pandemia, sulla guerra o sull’energia.

 

Anche un eventuale bisogno di competenza o expertise, che sarebbe stato necessario, non ha potuto essere soddisfatto per via del contesto a cui abbiamo accennato?

Di Gregorio: Esatto. La complessità ha bisogno di competenze generali e specifiche. E, in piena bolla pandemica, in molti pensavano che la politica ne sarebbe uscita diversa, in termini di profili e di candidati. Non mi pare sia andata così. Alle elezioni dello scorso 25 settembre abbiamo avuto, come candidati premier diciamo, esattamente gli stessi leader di partito che avevamo pre-pandemia, con 4 ex premier e 2 ex vicepremier. E anche i candidati singoli non mi sembra abbiano profili particolarmente diversi rispetto a quelli dell’ultima legislatura. Siamo passati dalla legislatura “populista” e in gran parte anti-establishment a quella post-Draghi, ma non vedo particolari deviazioni dalla rotta maestra, pre-Covid. Non è cambiata l’offerta politica perché non è cambiata la domanda. Noi siamo rimasti gli stessi tuttologi, colpiti da un effetto Dunning-Kruger generalizzato, in grado di dibattere su ogni cosa, senza saperne quasi niente. E la politica si è adeguata, riprendendo il percorso di prima, con qualche attenzione in più su certi temi, ma non quanto ci si poteva attendere. Aggiungo che paura e incertezze normalmente più che richiedere competenze ci spingono a credere a pensieri magici e a confezionarci verità personalizzate, di comodo. Non a caso infodemia e teorie complottiste sono aumentate anziché diminuite in questi anni. E questo non fa propriamente bene alle democrazie, mi pare al contrario piuttosto demopatico.

 

Tutto questo ci riporta a un concetto che era già centrale in Demopatìa: il dominio delle emozioni sulla razionalità. Anche questo elemento è confermato dagli sviluppi successivi? 

Di Gregorio: Si. È tutto confermato e non deve sorprenderci, perché siamo fatti così. David Hume diceva che la ragione è schiava delle passioni. Se vogliamo citare una frase falsamente attribuita ad Antonio Damasio: non siamo macchine pensanti che si emozionano, siamo macchine emotive che pensano. Qualcuno aveva supposto che tra pandemia, guerra e crisi energetica tutto questo potesse cambiare, ma non è successo. Non si passa da Narciso a Prometeo dall’oggi al domani. L’uomo è un animale simbolico per il quale le percezioni, le emozioni e la psicologia contano più della razionalità e della logica. E aggiungo: perché mai una psicosi di massa come la pandemia, la paura della guerra o una grave crisi economica dovrebbero spingerci a diventare come i Vulcan di Star Trek – e di Jason Brennan in Against Democracy –? È verosimile che accada l’esatto contrario, cioè che diventiamo ancora più schiavi delle passioni e ancor più esseri razionalizzanti, più che razionali. Vale a dire persone che usano la propria conoscenza per giustificare con fatti, dati e argomentazioni i propri pregiudizi e confermare le proprie teorie a tutti i costi. Peraltro, aver avuto a che fare, a lungo e ovunque sui media, con dati, statistiche, virologi, epidemiologi e poi esperti di geopolitica con tanto di mappe dell’Ucraina, ha dato una parvenza di razionalità alquanto fuorviante. Tutto è stato sempre usato in termini di media logic, per produrre pathos, discussioni accese, iper-semplificazioni, materiale per tifoserie insomma. E il tifoso è tutto fuorché un Vulcan.

 

Questo significa che la leadership è in realtà ancora una followship dell’opinione pubblica mascherata da leadership?

Di Gregorio: Direi di si. Sempre perché la domanda – cioè noi – non è cambiata rispetto all’era pre-Covid. Matteo Renzi diceva che i sondaggi si cambiano, non si leggono. In realtà sappiamo bene che anche lui è stato un ottimo inseguitore di sciami di opinione pubblica finché ha retto la sua credibilità. Franklin Delano Roosevelt ha spinto per l’approvazione del New Deal nonostante avesse solo il 9% degli americani a favore. Quella è una leadership che prende decisioni impopolari se ritenute cruciali per il Paese. Ma erano altri tempi, oggi verosimilmente non l’avrebbe fatto. Durante il Covid sono state prese decisioni impopolari? Certamente si, ma erano sostenute dalla paura e dalla legittimazione dell’essere commander in chief in una situazione pericolosa e straordinaria. Non a caso il gradimento e la fiducia nei capi di governo erano aumentati ovunque, per il noto fenomeno del rally around the flag: di fronte al nemico, ci si stringe intorno alle istituzioni, in primis al governo. Ma in condizioni più ordinarie, le scelte impopolari non pagano. Basta guardare a come abbiamo reagito a tutte le restrizioni successive al primo lockdown. Il primo è stato percepito come doveroso e a nostra salvaguardia; il resto è stato presto visto come un abuso dei nostri diritti e della nostra libertà. Abbiamo un bisogno assoluto di leadership vere, che sappiano orientarsi nel presente e riempire quell’evidente vuoto di futuro che noi tutti percepiamo. Ma è scomodo, oltre che per certi versi irrazionale, ragionare sul lungo periodo e portare avanti scelte impopolari nel breve periodo. I cicli di leadership sono ormai brevissimi. Perché rischiare di accorciarli ancora prendendo decisioni incomprensibili nell’immediato?

 

Tutto riporta a quella patologia del demos che veniva sottolineata in Demopatìa. Il problema siamo ancora noi?

Di Gregorio: Può, certo, talvolta capitare che l’offerta crei la domanda e, quindi, potrebbe anche accadere che sistema politico e sistema mediatico siano in grado di cambiare autonomamente e di cambiarci, conseguentemente. Ma non vedo alcuna traccia di questa tendenza, né alcuna convenienza per gli attori della politica e dell’informazione. È più comodo adeguarsi a ciò che noi chiediamo. Come recita uno slogan recente del marketing, siamo passati dal make people want things al make things people want. Nel primo caso è l’offerta che crea la domanda ed è leadership allo stato puro. Nel secondo caso è la domanda che crea l’offerta ed è leadership mascherata da followship. Noi siamo quello che siamo, da sempre: più Hooligan che Vulcan per citare ancora Jason Brennan, pigri, emotivi, razionalizzanti più che razionali. Per noi cambiare è molto difficile, ecco perché esistono le élite. Ma se le élite si adeguano, è difficile che avvengano deviazioni dalle traiettorie consolidate.

 

In conclusione, è possibile che tutti questi eventi inattesi e giganteschi non abbiano davvero cambiato nulla?

Di Gregorio: Non dico che non abbiano cambiato nulla, non voglio assolutamente minimizzare. La pandemia, la guerra e la crisi energetica hanno stravolto intere economie, oltre ad aver ucciso milioni di persone. Sono eventi impattanti e importanti. Ma, ripeto, più che eventi game changer mi sembrano acceleratori, propulsori di qualcosa che stava già accadendo. Il famoso new normal non è molto diverso dall’old normal, ne ha solo accelerato alcune tendenze. Il mondo post-pandemico verosimilmente sarà, sotto molti aspetti, una versione velocizzata del mondo che conoscevamo prima. Non è quindi proprio una nuova normalità, ma una normalità accelerata e caratterizzata da una sola grande costante: che non c’è più nulla di duraturo e di prevedibile. L’era esponenziale, già citata, ci dice che il nostro mondo cambia alla velocità della luce a causa delle innovazioni tecnologiche, specie nei settori dell’intelligenza artificiale, del manufacturing, delle biotecnologie e dell’energia. Questo produce un’incertezza generalizzata che incrementa narcisismo e presentismo. Siamo sempre più egoriferiti e schiacciati sulla gratificazione immediata, proprio perché non siamo in grado di immaginare cosa può accaderci domani e non abbiamo più credenze consolidate che cementino le nostre comunità. Come può la politica non adeguarsi a queste tendenze generali? Se ci prova, sparisce dal nostro percepito, esce dai palinsesti mediatici e dalla nostra soglia di attenzione. Quello che possiamo augurarci è che la differenza tra ciò che emoziona e ciò che è importante per un popolo e per un Paese tendano a riavvicinarsi, per far sì che l’attenzione alla politics – diciamo alla politica in campagna permanente – sia avvicinata dall’attenzione alle policy – ossia alle politiche pubbliche, complesse, tecniche, di lungo periodo, ma da cui dipende davvero il futuro di una nazione. Se è vero che il percepito plasma il reale, è anche vero che esiste ancora una realtà con cui fare i conti. Se non si arriva alla fine del mese, non c’è narrazione che tenga, ad esempio. Questo può spingere la leadership ad essere meno followship e la politica ad occuparsi non solo delle agende mediatiche quotidiane, fatte di falsi problemi, eccitanti e polarizzanti, ma anche di scelte di lungo periodo, determinanti per la tenuta di un sistema Paese. Perché ciò accada, tuttavia, serve una classe politica che esca, almeno in parte, da certe dinamiche e da certe abitudini ancora molto forti, direi determinanti, che premiano il brevissimo periodo e la sondocrazia quotidiana. Insomma, dobbiamo augurarci una leadership diversa, coraggiosa, per certi versi antistorica, che faccia i conti con ciò che siamo, ma che abbia anche in mente ciò che dovremmo essere.

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