«L’etica francescana ed il nuovo spirito del capitalismo» (Corriere della Calabria)

di Francesco Bevilacqua, del 6 Dicembre 2021

Marco Iuffrida

#fraternitas

L'etica economica francescana

Due sere fa, mentre assistevo alla presentazione del bel libro di Marco Iuffrida “Fraternitas, l’etica economica francescana”, Rubbettino editore, fresco di stampa, ho avuto una folgorazione, anzi due. Ma non svelerò subito di che si tratta.
Partiamo dal libro, invece, che merita un’attenta e piacevole lettura. Marco Iuffrida è uno storico, specializzato in Storia Medievale. In questo libro sorprendente prova a tracciare linee guida per il futuro economico delle nostre società a partire da una radicale revisione del sistema capitalistico contemporaneo. E lo fa, raccontando l’influenza che il pensiero francescano ha avuto e dovrà ancor di più avere in futuro sulle teorie economiche. Soprattutto dopo i disastri della pandemia.
Si parte da un fatto noto: furono alcuni pensatori francescani – strano a dirsi – a sdoganare l’etica del lucro sul denaro che produce denaro, sulle quali la Chiesa era stata sino ad allora molto critica. Parliamo, ovviamente, di un lucro che abbia come fine ultimo la fraternità, l’essere, il bene comune, piuttosto che l’egoismo, l’avere e l’accumulo di beni privati.
Di questo tema aveva scritto nel 2008, in chiave filosofico-liberale, anche Dario Antiseri in un altro libro della Rubbettino dal titolo “L’attualità del pensiero francescano”, ricordando che furono i monaci francescani Pietro di Giovanni Olivi (1248/1298) e Alessandro di Alessandria (1270/1314) a sottrarre il lucro dall’aura peccaminosa in cui lo aveva relegato la Chiesa. Tutto questo c’entra poco, naturalmente, con Francesco d’Assisi (1181.1182/1226), che predicava la povertà evangelica assoluta, al punto che i suoi frati non potevano possedere altro che il saio. Sappiamo, infatti, che non fu Francesco d’Assisi a cambiare la Chiesa (anche se la salvò) ma che fu la Chiesa a cambiare il francescanesimo (non certo il suo fondatore che morì afflitto ed amareggiato per quanto stava accadendo nel suo ordine). Al punto da tentare di riscrivere, attraverso Bonaventura da Bagnoreggio (1217/1274), la vita stessa del grande santo, con l’intento di cancellare (attraverso l’eliminazione delle testimonianze scritte ed orali) il pauperismo evangelico del santo più amato del cattolicesimo. Ce lo ricorda la storica Chiara Mercuri in un libro del 2016, dal titolo emblematico: “Francesco d’Assisi, la storia negata”, edito da Laterza. Ma lo si comprendeva già bene dalla biografia pubblicata da Paul Sabatier nel 1931. Per nostra fortuna Bonaventura non riuscì nel suo intento perché i compagni di Francesco, Chiara e le sue sorelle custodirono segretamente gli scritti del maestro, così riuscendo a farli giungere sino a noi.
Ma Marco Iuffrida va oltre, e racconta come il pensiero economico francescano informi attualmente una serie di studi, intraprese, programmi, iniziative comunitarie, perfino scuole economiche contemporanee che vorrebbero riformare il capitalismo neoliberista per come lo abbiamo conosciuto sino ad ora. “Ce lo impone la pandemia – ha sostenuto Iuffrida durante la conversazione –. Solo comprendendo la relazione inscindibile che lega nazioni e popoli, ricchi e poveri, l’umanità potrà uscire dalla crisi”.
E qui stanno le due folgorazioni. Mi sono chiesto cioè, da un lato, come si conciliano le tesi economiche sostenute dai francescani del dopo Bonaventura con la radicale povertà evangelica abbracciata da Francesco d’Assisi e da lui sostenuta come unica vera regola del suo ordine. D’altro canto, mi sono domandato se, al di là di tante lodevoli iniziative di istituzioni e di singoli, puntualmente citate da Marco Iuffrida, le politiche economiche mondiali e nazionali non siano rimaste, invece, esattamente uguali a sé stesse, anzi non tendano a far peggio di prima della pandemia: redistribuire ai ricchi – e nient’affatto ai poveri – la ricchezza momentanea ricavata dalla cascata di capitali a buon mercato messa a disposizione – in nome di politiche keynesiane opportunisticamente riesumate – dalle istituzioni monetarie e dai governi, tutti di fede neoliberista. Dove andranno a finire le provvidenze dalle banche centrali recuperate con il solito sistema delle collocazioni sul mercato (cui hanno accesso solo i ricchi e i grandi gruppi finanziari) di titoli che presto dovremo rimborsare a quegli stessi ricchi noi sudditi che deteniamo le briciole della ricchezza complessiva (basta leggere i rapporti annuali di Oxfam sulle disuguaglianze)? Ho la sensazione che finiranno nelle tasche di grandi banche d’affari, di grandi società che gestiranno la transizione energetica e digitale, di grandi gruppi assicurativi, delle grandi imprese che costruiranno le infrastrutture ed elargiranno servizi, presidi farmaceutici e biotecnologie, insomma di tutte quelle multinazionali delle quali è sempre più vietato – anche da parte delle sinistre – parlar male. Con il paradosso che i capitali prestati agli stati dovranno, invece, essere restituiti dagli stati stessi e quindi da tutti noi, sotto forma di rinnovate politiche di austerity, drenaggio fiscale, spending review, tagli alla spesa pubblica ancora una volta in settori strategici come la scuola, la sanità, la giustizia, i servizi, che saranno regalati e svenduti ai privati. Finendo l’opera di devastazione del patrimonio pubblico che certi personaggi avevano neppure tanto segretamente iniziato già diversi anni fa.
Mi pare, dunque, che se l’etica protestante – per parafrasare Max Weber – aveva dato origine allo spirito del capitalismo moderno, non sarà certo l’economia francescana a produrre un nuovo spirito del capitalismo redivivo, anche se, come dice Marco Iuffrida, non possiamo fare a meno di sperarlo. Con buona pace dello strano virus proveniente da un mercato della carne o forse da un laboratorio di Wuhan, che più che un nemico dovremmo considerare come una voce amica – certo un po’ brutale – che ci mette in guardia contro l’ingordigia della specie umana, contro la sua dismisura, come direbbe Albert Camus, contro la sua mancanza di limite, contro il suo vizietto di ridurre la realtà non tanto a ciò che può essere misurato, calcolato e sperimentato (come vorrebbe il metodo scientifico), quanto solamente a ciò che ha un prezzo (come vorrebbe l’economia liberista). In questo senso, come ha giustamente ricordato Papa Francesco nella sua enciclica “Fratelli tutti” – ripetutamente citata nel libro di Marco Iuffrida – perché dovrebbe accadere ora quanto “non” è accaduto nella precedente grande crisi della bolla immobiliare negli USA? Scrive, infatti, Papa Francesco (paragrafo 170): “La crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo. Anzi, pare che le effettive strategie sviluppatesi successivamente nel mondo siano state orientate a maggiore individualismo, minore integrazione, maggiore libertà per i veri potenti, che trovano sempre il modo di uscirne indenni”. Parole di un Papa che porta il nome di Francesco d’Assisi, non di un comunista agitatore di popoli.