“Avere o non avere. Il miraggio dell’uguaglianza nella nostra democrazia” di Claudio Brachino | Letture.org (letture.org)

del 7 Novembre 2020

Claudio Brachino

Avere o non avere

Il miraggio dell'uguaglianza nella nostra democrazia

Dott. Claudio Brachino, Lei è autore del libro Avere o non avere. Il miraggio dell’uguaglianza nella nostra democrazia edito da Rubbettino: quali sono le categorie più colpite dalle disuguaglianze sociali della nostra società?
Le categorie più colpite sono quelle agli estremi. Gli anziani e i giovani. Ai primi non riusciamo a garantire un uguale accesso alla sanità come prevede la carta costituzionale e nemmeno l’assistenza complessiva che la terza età meriterebbe in una democrazia compiuta. Poi le pensioni, troppo ingiuste, a chi troppo, a chi troppo poco, per vivere ad esempio con dignità in una grande città. Ai giovani invece garantiamo scarsa uguaglianza per quanto riguarda il diritto all’istruzione e il diritto al lavoro. Abbiamo il primato in Europa di precari e di Neet, ovvero giovani che non lavorano, non studiano, non fanno corsi di formazione. Una generazione che ha abolito il futuro.

In che modo le disuguaglianze svuotano il senso stesso della democrazia?
La disuguaglianza rende sempre più formale la democrazia e quindi le toglie sostanza politica, credibilità, aprendo la strada a populismi vari e a leadership patologiche. Se il cittadino scopre che è giuridicamente e istituzionalmente uguale a un altro sulla carta ma poi nella realtà scopre di avere meno chance e diritti di un altro, dal salario alle possibilità in genere di realizzazione, perde fiducia nella macchina della democrazia. Dal voto, alla rappresentatività delle elìtes, al senso globale dello Stato.

Quali sono i principali fattori della disuguaglianza?
Chi ha, ha troppo, chi non ha, ha troppo poco. Famiglia di provenienza, luogo di nascita e di vita, contesto sociale, economico e culturale. E poi le visioni errate della politica, con scelte attente più al consenso elettorale che alle ragioni dei più deboli. Infine l’aggressività del post capitalismo, sempre meno diritti riconosciuti ai lavoratori e sempre di più la ricchezza del mondo in poche mani.

In che modo la pandemia di Covid-19 contribuisce ad allargare ulteriormente il divario tra ricchi e poveri?
Il Covid ha inasprito le disuguaglianza perché in primis ha colpito le categorie indicate all’inizio. Muoiono di più gli anziani non solo per motivi biologici ma perché soni assistiti male. Mancano le strutture intermedie sul territorio, presìdi, medici, non è solo un problema di posti in terapia intensiva. I ricchi poi possono avere accesso alla sanità privata. I giovani hanno perso il lavoro, dalla notte, alla ristorazione, all’industria culturale ed editoriale. Qualcuno si è impoverito drammaticamente, altri si sono arricchiti, dal tech alla distribuzione, altri ancora, i dipendenti pubblici, non si sono arricchiti né impoveriti ma non hanno l’ansia del domani che sta divorando molti italiani.

Quali iniziali promesse ha tradito la rivoluzione tecnologica?
Il fatto che esiste una specifica disuguaglianza, la Digital divide, la dice lunga. Io lo dico nel libro, quelli che sono scappati il 7 marzo da Milano prima del lockdown nazionale, al di là delle considerazioni etiche e virologiche, hanno pagato la legge del contrappasso: in molti dei territori del meridione dove sono approdati, non arriva la banda larga, quindi niente smartworking, homeschooling, niente zoom con gli amici. Al di là del problema politico degli investimenti sulle infrastrutture digitali, e in parte a questo servirà il Recovery Fund, c’è poi una questione. L’aumento di democrazia non deriva dall’avere tutti uno smartphone, quella è la democrazia della merce. L’uguaglianza migliora con l’alfabeto tecnologico comune e con la condivisione delle conoscenze. Invece sappiamo che i Data sono in mano ai giganti del Tech e che i social sono gestiti per condizionare l’opinione pubblica.

È possibile ridurre le disuguaglianze?
In teoria sarebbe possibile, ma di fatto è impossibile. È un problema di visione, per alcuni l’unica legge è quella del mercato, per altri la disuguaglianza è un fattore umano ineliminabile, per altri ancora è anzi un bene. Nelle democrazie occidentali a cui faccio riferimento, però, dove almeno il diritto fondamentale della libertà dovrebbe essere assicurato per tutti, la classe politica dovrebbe avere come compito primario ridurre i dislivelli, da quelli geografici a quelli sanitari, di genere e di età.

Quali interventi sarebbero a Suo avviso auspicabili per garantire una maggiore giustizia sociale?
Una ricetta magica non c’è. Il Covid però ci ha insegnato che un po’ di welfare novecentesco va recuperato. Lo Stato non è un nemico, ma assiste, protegge, garantisce, ripiana le ingiustizie. Deve dare più soldi alla famiglia e credere nel Pubblico anche nella sanità. Poi certo ci vuole una visione economica post assistenzialista, bisogna sbloccare i cantieri, sconfiggere la burocrazia, formare i giovani per i lavori che il mercato del futuro chiederà. Siccome la vita si allunga, meglio la silver economy che una piatta e gelida austerity. Poi bisogna investire nella cultura, nella formazione morale e intellettuale delle future generazioni. Il Pil corre nei paesi dove corre la conoscenza, scientifica certo, ma anche umanistica.

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