Quando rubava lui (jacobinitalia.it)

di Giacomo Gabbuti, del 20 Febbraio 2020

Con queste parole, in un famoso discorso alla camera dei deputati, il capo del fascismo prendeva di petto la crisi provocata dall’assassinio di Giacomo Matteotti, addossando su di sé la responsabilità dello squadrismo in camicia nera, e soprattutto prefigurando il passaggio alla dittatura aperta. Se il Fascismo era stato «un’orda di barbari accampati nella Nazione», «un movimento di banditi e predoni», null’altro «che olio di ricino e manganello» – come emergeva dalle accurate denunce del deputato socialista – Mussolini si assumeva la responsabilità «politica, morale, storica» di quella violenza. 

È quantomeno lecito dubitare che il Duce si sarebbe spontaneamente denunciato anche come capo di un’associazione di corrotti e corruttori – nel gergo cui ci siamo abituati negli ultimi decenni, di una banda di ladri. Eppure, questo è quello che sembra emergere da una serie di ricerche storiche, uscite nelle librerie italiane negli ultimi mesi, che convergono nell’indicare nella corruzione e nell’affarismo uno dei tratti necessari a comprendere la natura del regime fascista. 

A gennaio, ha iniziato Laterza con la pubblicazione di un volume collettaneo, Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo, curato dagli storici Paolo Giovannini e Marco Palla. Duecentocinquanta pagine dense, di stampo accademico, che, dopo un tentativo di analisi generale affidato all’introduzione dei due curatori, e ancor più a un saggio di Paul Corner, vedono susseguirsi diversi studi di casi. Alternando studi biografici su alcuni nomi di primo piano (Roberto Farinacci, Costanzo Ciano, Giuseppe Volpi) a uno spaccato sulle ordinarie storie della provincia – le Marche, Verona, Lucca, la Sicilia, e persino l’Impero – costruiti a partire da fonti locali. 

A distanza di appena due mesi, Mauro Canali e Clemente Volpini hanno dato alle stampe Mussolini e i ladri di regime. Gli arricchimenti illeciti del fascismo (Mondadori). In questo volume, ben documentato ma con intento più divulgativo, gli autori – allievo di De Felice e tra i maggiori storici del periodo il primo, autore televisivo e documentarista per Rai Storia il secondo –  tracciano invece, sia pure sinteticamente, un affresco complessivo sul dittatore e i vertici del Pnf. Lo fanno partendo da una dettagliata e preziosa fonte archivistica, da poco messa a disposizione degli studiosi: le carte dell’inchiesta sui profitti di regime, avviata dal governo Badoglio nell’estate 1943 a pochi giorni di distanza dall’arresto di Mussolini. Nei suoi travagliati lavori, l’inchiesta accertò arricchimenti illeciti per 118 miliardi (di cui appena 19 recuperati dal fisco). 

Infine, a maggio, è uscito per Rubettino Storia dell’Italia corrotta, scritto da Isaia Sales, storico campano, sottosegretario nel primo governo Prodi oltre che saggista e docente di storia delle mafie, assieme alla criminologa e ricercatrice Simona Melorio. Pur non avendo come focus specifico il fascismo, e partendo da un’impostazione diversa, il volume di Melorio e Sales si distingue da altri testi simili per il tentativo di offrire una panoramica storica sull’evoluzione della corruzione in Italia, dedicando uno spazio non indifferente al periodo tra le due guerre mondiali. In questo modo, ci permette non solo di integrare le fonti storiografiche, ma di inserire le ruberie dei fascisti in un quadro più generale.

Una prospettiva «di lungo periodo» è infatti un prerequisito ineludibile per affrontare, politicamente, l’evidenza sulla corruzione e l’affarismo dei fascisti. Certo, storiograficamente è opportuno stabilire se, e magari quanto, abbiano rubato Mussolini e i loro gerarchi. Questo è tanto più interessante se pensiamo che il fascismo si poneva l’obiettivo di realizzare «l’uomo nuovo fascista», e redimere vizi atavici già allora attribuiti all’italianità. Il fascismo si era rappresentato come movimento aristocratico, un nuovo ceto di individui superiori, forgiato dalla guerra; una nuova élite che – in assonanza con le riflessioni avanzate da Vilfredo Pareto, che ho discusso nel terzo numero di Jacobin Italia – avrebbe dovuto sostituirsi alla vecchia, corrotta classe dirigente liberale. 

Nelle parole tratte dai comizi elettorali del 1921 di un fascista come Alberto De’ Stefani, se la rivoluzione francese aveva facilitato quella che oggi chiameremmo mobilità sociale, rendendo «possibile il salire agli uomini attivi, intelligenti, capaci, dai bassi strati fino al culmine della piramide», questa non aveva tenuto conto del fatto che «quando un individuo è salito al vertice della piramide economica o politica, ci si attacca come un’ostrica e non vuol più andarsene». A quest’ordine di problemi avrebbe risposto (con un «cazzotto») la rivoluzione fascista prossima ventura. Circa un anno dopo, secondo il resoconto di Yvon De Begnac, biografo ufficiale di Mussolini, ad argomenti simili ma con diverso stato d’animo doveva ricorrere il segretario del Pnf Michele Bianchi, a «rivoluzione» appena avvenuta. Dovendo placare chi non era riuscito ad arraffare una poltrona nel primo governo Mussolini, Bianchi ricordava che il fascismo andava al potere per operare un «totale rinnovamento» dello Stato e «un diverso rapporto con il cittadino», che imponesse «un volto umano a un esecutivo di casta, a un potere ereditario, a un sistema che all’élite affida il proprio privilegio»; compito che impediva di identificare il potere con i propri interessi, e di chiedere «gradi, cariche o canonicati» per sé stessi. 

Se lo storico economico Adam Tooze, nell’analizzare l’economia nazista, ci ha avvertiti dal giudicare la bontà di singole misure economiche adottate da Hitler senza tenere presente il progetto di guerra di cui erano parte integrante, i presunti meriti del fascismo (come quel «mitico» stato sociale di cui ha parlato su questa rivista Samuel Boscarello) andrebbero giudicati assai diversamente, se quello stesso regime avesse comportato una degenerazione della cosa pubblica e un impoverimento «morale» degli italiani. Non sorprende dunque che i fascisti stessi si siano raccontati come incorruttibili – da quel «Nudi alla meta!» attribuito a Mussolini già nel 1923, alla favola propagandistica di un paese in cui si potevano lasciare le porte aperte per l’assenza di criminalità di ogni genere, fino ai tentativi della memorialistica fascista di attribuire a pochi (su tutti il segretario del Pnf Achille Starace) l’affarismo e la degenerazione del Pnf. È quindi meritevole che una simile ricostruzione sia stata finalmente condotta nel dettaglio, con lo studio di nuove fonti, l’approfondimento di casi locali periferici, e la sistematizzazione di ricerche condotte dagli stessi autori e da altri storici. Come riassumono Palla e Giovannini nella loro introduzione, a occuparsi della questione finora erano stati soprattutto giornalisti – dall’inchiesta di Silvio Bertoldi, Gli arricchiti all’ombra di Palazzo Venezia, uscita nel 1979 e ristampata nel 2009, fino al più recente Tangentopoli Nera; al contrario, la storiografia si è focalizzata su altro, considerando «affarismo e corruzione come elementi pressoché fisiologici, ma anche come aspetti tutto sommato marginali, comunque non di primaria importanza per la comprensione del fenomeno fascista», e lasciandoli fuori dalle principali opere di sintesi. Certamente, come chiarisce il caso dell’economista liberale Ernesto Rossi, che pure aveva denunciato le connivenze e i sostegni tra i gerarchi e quelli che lui chiamava i «padroni del vapore», la necessità di indicare in questi ultimi i responsabili del fascismo e delle sue disastrose politiche metteva in secondo piano la figura dei corrotti. Tra le eccezioni, non a caso, Giovannini e Palla elencano quegli autori – come i britannici Adrian Lyttelton e il citato Corner – che hanno focalizzato le loro analisi sulle periferie, mettendo in luce «un vasto retroterra di corruzione, carrierismo e affarismo già nel processo di conquista e stabilizzazione al potere del fascismo fino al 1929». 

È anche grazie a questa persistente disattenzione della storiografia che il diffuso malessere degli italiani per le ruberie dei gerarchi – che emerge copiosamente dalle carte di prefetture, polizia politica, dallo stesso Pnf e persino dalla segreteria di Mussolini, destinatari di continue denunce più o meno interessate da ogni angolo d’Italia, ma anche da romanzi come Eros e Priapo di Gadda – è stato rimosso dalla memoria collettiva. Come ricordano Giovannini e Palla, fu proprio la guerra (mettendo gli italiani di fronte a tutta l’inefficienza del regime) a far crollare il muro di propaganda e censura che aveva tenuto a bada le voci fino ad allora. Al punto che, raccontano Canali e Volpini, Badoglio si trovò costretto a mettere quei gerarchi sotto processo, nonostante le reticenze della Monarchia. Eppure, la modalità con cui l’Italia si trovò a intrecciare la fine del regime fascista con l’entrata nei nuovi equilibri determinati dalla guerra fredda, portò velocemente al depotenziamento dei processi, e alla rimozione di quelle ruberie e dell’indignazione che avevano provocato. Esempio paradigmatico del «senso comune» che si impose da allora (e che costituirà uno degli elementi identitari dell’Msi nella sua critica della “partitocrazia” repubblicana) è un episodio riportato da Canali e Volpini: nel 1975, in una città come Genova che aveva dato prova anche nel dopoguerra di grande attenzione ai temi dell’antifascismo, l’attore Walter Chiari (con trascorsi nella Repubblica di Salò), ricevette fragorosi applausi affermando che «Quando fu appeso per i piedi a piazzale Loreto, dalle tasche di Mussolini non cadde nemmeno una monetina… Se i nuovi reggitori d’Italia subissero la stessa sorte, chissà cosa uscirebbe dalle loro tasche!».

È allora importante mostrare, come fanno in modo complementare i tre libri, che il fascismo sia stato un regime caratterizzato da profonda corruzione: nelle parole di un fascista disilluso, i gerarchi trasformarono l’Italia in «un campo da razziare, non una nazione». Ancor più opportuno, accanto ai grandi gerarchi e alle cerchie più vicine al Duce (oltre ai già citati studi su Farinacci, Ciano e Volpi, da citazioni più o meno ripetute non si salva quasi nessuno – dal sindacalista Rossoni, definito da Curzio Malaparte la «migliore forchetta del regime», al clan dei Petacci) è far vedere il ruolo di Mussolini stesso. Proprio il caso Matteotti mostra come, già nel 1925, il capo del fascismo temesse accuse ancor più infamanti dei brogli e delle violenze. Sergio Luzzatto introducendo Contro il fascismo ricorda che Matteotti aveva l’ulteriore colpa di apprestarsi «a denunciare un affare di corruzione: una sporca connection ai vertici del potere, concessioni petrolifere all’impresa americana Sinclair Oil in cambio di tangenti a una cricca vicinissima al duce e ai massimi dirigenti del partito nazionale fascista» – e in particolare, suo fratello Arnaldo. Come ricostruiscono Sales e Melorio (basandosi in larga parte su un precedente studio dello stesso Canali), nei mesi precedenti Matteotti si era recato in Inghilterra dove, anche grazie alla collaborazione del Labour party e del sindacato, aveva «accumulato numerosissime e dettagliate notizie circa il complesso intreccio di interessi economici e di ampia corruttela attorno alla concessione alla Sinclair Oil» e (con interessamento personale di Mussolini) sulle licenze per l’esplorazione di nuovi giacimenti in Sicilia ed Emilia. Senza ridurre il tutto a una mera questione di mazzette, l’affaire corruttivo va inserito nell’escalation di tensione che porta all’omicidio di Matteotti. Se i brogli e la violenza denunciati dal socialista nel suo ultimo discorso potevano ancora essere giustificati dai fini «aristocratici» dei fascisti, la vicenda Sinclair Oil svelava la cruda continuità della «rivoluzione» fascista, rispetto alle parole di Bianchi e De’ Stefani. 

Del resto, Mussolini era stato molto disinvolto, già nel 1914, nel tradire il Psi per«trenta denari», fondando il Popolo d’Italia con «cospicui finanziamenti» di politici francesi interessati a «caldeggiare l’entrata in guerra dell’Italia» Ancora nel 1917, come ha ricostruito lo storico inglese Peter Martland, il giornale (che rimarrà a tutti gli effetti la macchina attraverso cui Mussolini gestirà le sue attività più o meno lecite) riceverà fondi dai dai servizi segreti inglesi, preoccupati che la disfatta di Caporetto spingesse l’Italia all’armistizio. Non sembra casuale la moda diffusa tra i gerarchi, notata già da Bertoldi, di assicurarsi in modo più o meno lecito la direzione di un giornale locale.

In seguito, Mussolini sarebbe stato implicato in almeno altre due tangenti «sicure» – 250 mila lire consegnate dal commissario straordinario delle ferrovie, incaricato di vendere i residuati bellici della Grande Guerra, e 750 mila lire fatte passare per donazione a un istituto per ciechi. Se Bertoldi poteva ancora dire che Mussolini «non rubava» e «tutto sommato morì povero», oggi sappiamo che oltre a essere invischiato in loschi affari, godeva anche di altre importanti entrate. Pur non percependo stipendio, le carte del Senato mostrano l’abitudine, occorsa almeno due volte, di attribuirsi ingenti «omaggi» a spese dello stato – nel giugno 1938, addirittura di un milione di lire (circa 900 mila euro di oggi). 

Non solo: Canali e Volpini ricostruiscono la grottesca vicenda della Rocca delle Carminate – la residenza estiva di Mussolini, dotata di un leggendario faro elettrico che segnalava la presenza del Duce. Donata nel 1928 al Capo del Governo (e quindi allo Stato) dal Comune di Meldola, fu rivenduta da Mussolini alla moglie per una cifra irrisoria, trasformandola a tutti gli effetti in sua proprietà. È proprio l’attenzione riservata da delatori e stampa alla famiglia di sua moglie Claretta a rivelarci come questa usasse regalarsi brillanti da Bulgari, pagandoli con un «passaggio di fattura» al Ministero dell’Interno; o come il padre di lei ottenesse un ricchissimo contratto dal Messaggero per scrivere articoli di dubbia qualità, a seguito di una trattativa condotta direttamente dalla segreteria di Mussolini. Ciliegina sulla torta sono i tentativi, descritti dai rapporti dei servizi segreti nemici, di portare negli anni Quaranta parte del maltolto in Svizzera: in particolare, oggetto dei tentativi di occultamento erano gli invesitmenti di Mussolini e del genero, Galeazzo Ciano, in una raffineria di petrolio grezzo, la Ipsa, che altro non era che la filiale italiana della Standard Oil, requisita all’entrata in guerra degli Stati Uniti – a dimostrare, secondo Canali, «una inequietante continuità degli interessi personali di Mussolini nel petrolio, che vanno dal delitto matteotti alle ultime fasi della repubblica di Salò». L’idea di Dino Grandi che la personalità di Mussolini avesse un effetto «corruttivo» su Ciano aveva dunque solidi elementi di appiglio.
Certo, la condotta del Duce sembra poca cosa rispetto a quello che, già dai primi anni, riuscirono a mettere in piedi i suoi seguaci, da Roma alle più sperdute province dell’Impero (inclusa la Sicilia, le cui vicende richiederebbero di aprire l’altro, enorme, tema della lotta alla mafia), e in qualsiasi settore e attività – vale la pena ricordare come i fascisti estorcessero denaro ai disoccupati per il «privilegio» di un posto di lavoro, e il fatto che paradossalmente, proprio grandi enti economici pubblici come l’Iri – l’Istituto per la ricostruzione industriale – sembrano aver rappresentato isole di probità in un mare di corruzione. Oltre alla corruzione materialmente portata avanti dal capo del fascismo, questi studi fanno emergere che Mussolini era al corrente di ciò che accadeva nella sua «nuova Italia». Le carte della sua segreteria particolare testimoniano che il dittatore riceveva e conservava accuratamente dettagliati rapporti. Li utilizzava non per denunciare, ma per ricattare e tenere sotto scacco i suoi gerarchi. Quella del dossieraggio è una pratica molto comune tra camerati, se si pensa che le stesse carte compromettenti sulla Sinclair Oil sarebbero state conservate dallo squadrista Arrigo Dumini nel tentativo di garantirsi lo stesso potere di ricatto in futuro. 

Certo, nel denunciare queste ruberie e provare a cancellare la melassa propagandistica che le ha ricoperte, si corre il rischio di alimentare quello che Benjamin Fogel ha descritto come «il cinismo diffuso che vede la politica come nient’altro che un campo di battaglia di interessi individuali», tipico delle denunce moralistiche dei fenomeni corruttivi. Dire che i fascisti rubavano rischia di finire semplicemente nell’idea che la politica non sia altro che affarismo – o addirittura, che la corruzione sia un carattere inestirpabile dell’italianità. Contro questo tipo di lettura ci vengono incontro due spunti. 

In primo luogo, per Giovannini e Palla, diversi elementi permettono di «qualificare sul piano storico di lungo periodo il regime fascista come un momento che fa compiere un salto di qualità e rilevanza al nesso politica-corruzione-affarismo». A far «impallidire il trasformismo pur corrotto dell’Italietta liberale» sarebbero stati diversi fattori – l’assoggettamento all’esecutivo di tutti gli altri poteri (in primis la magistratura, ma anche il parlamento con le sue normali funzioni di controllo e denuncia); gli inediti livelli di centralizzazione politico-istituzionale e amministrativa; la dittatura e la censura della stampa; l’onnipresenza del partito unico; una deleteria professionalizzazione della politica. Lungi dall’essere «corrotti come tutti», i fascisti avrebbero rappresentato un’eccezione, negativa, nel drammatico campionario  della politica italiana. Per Sales e Melorio, «il fascismo come dittatura incorruttibile è solo un prodotto efficace della propaganda del regime […] che non ha nessun fondamento storico. La corruzione fu un metodo stabile e abituale di governo durante il fascismo, che coinvolse quasi tutti i gerarchi a livello nazionale e la stessa famiglia Mussolini»; fu «in assoluta continuità con la storia precedente e ne confermò tutte le caratteristiche, anzi né esasperò i tratti affaristici e nepotistici». La corruzione avrebbe anzi svolto una «funzione di promozione e competizione tra i gerarchi», alcuni dei quali «mostrarono una rapacità e un istinto predatorio davvero inconfrontabile con gli uomini politici a cui erano succeduti, dando vita a una vera e propria ‘bulimia patrimonialistica’». Unica novità sarebbe stata la «mobilità sociale» di persone fino ad allora di modesta ricchezza – se Bianchi e De’ Stefani avevano torto, Pareto manteneva qualche ragione.

A dare supporto all’interpretazione di Giovannini e Palla – pur nella nota difficoltà di individuare misure oggettive di corruzione – è un interessante grafico elaborato da Alberto Vannucci nel suo Atlante della corruzione (Gruppo Abele, 2012), partendo dalle statistiche giudiziarie. Pur riferendosi a «una gamma più estesa di reati contro la pubblica amministrazione – oltre a corruzione e concussione, anche peculato, malversazione, frode e fino al 1946 anche omissione di atti d’ufficio», racconta una storia ben diversa da quella cui siamo abituati – che fa un certo effetto nel momento in cui il ventennale della scomparsa di Bettino Craxi riporta nel dibattito pubblico gli scandali corruttivi in cui scomparse la Prima Repubblica nata dal crollo del fascismo. Verrebbe da chiedersi, in prospettiva, quanta di quella degenerazione non sia stata il frutto avvelenato dei semi piantati nella società italiana da vent’anni di dittatura – tantopiù se si pensa alla continuità di molti apparati statali e alle mancate riforme della pubblica amministrazione. In ogni caso, la corruzione origina in precise scelte e pratiche, e la sua variabilità nel tempo ci dimostra come una politica diversa possa contrastarla.

In secondo luogo, introducendo la loro ricognizione Sales e Melorio ci ricordano che la corruzione non è un male che affligge tutti gli italiani indistintamente, ma una vera e propria «devianza delle élite». Più che un problema della «morale singola del cittadino», la sua persistenza nella storia italiana evidenzia «la concezione dello Stato di una parte delle classi dirigenti del paese, che hanno reso l’abuso del loro potere un fatto consuetudinario e diffuso, una normale modalità di esercitare la funzione pubblica, burocratica e imprenditoriale». Per gli autori, «la corruzione non si presenta come un problema di costume degli italiani intesi come insieme di popolazione e delle sue diverse classi sociali, ma di persone collocate ai vertici»; non si tratta di un problema «dei ceti popolari» o della «plebe», ma delle élite – di «reati di ricchi e di potenti, di persone colte e istruite, figure sociali che nella criminologia classica sono considerati senza macchia e senza peccato», «acculturate, diplomate o laureate», che «hanno già potere e risorse». 

Da quest’ottica, la corruzione rientra perfettamente nella lettura di classe che accomunava Rossi agli altri antifascisti. L’affarismo dei gerarchi non è in contraddizione con le politiche che misero in atto una volta al governo, dai primi anni Venti del Novecento (con l’affossamento della commissione parlamentare d’inchiesta sui profitti di guerra, l’abolizione dell’imposta di successione e la repressione delle libertà sindacali) fino alle politiche di salvataggi bancari, protezionismo e difesa dei monopoli del post-1929. Al contempo, la storia della corruzione – compresa nella sua natura di fenomeno «sistemico ma non di massa» – ci ricorda ancora una volta quanto la soluzione a molti dei nostri problemi non passi certo dalla limitazione della democrazia, ma dalla costruzione di strategie – politiche prima ancora che giudiziarie – per sottrarla dagli interessi di élite politiche ed economiche irresponsabili e troppo spesso criminali.

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