Il Sud, le mafie e il potere (Il Quotidiano del Sud)

di Isaia Sales, del 6 Aprile 2016

Isaia Sales

Storia dell’Italia mafiosa

Perché le mafie hanno avuto successo

Da Il Quotidiano del Sud del 4 aprile

E’ nella capacità di mettere in discussione luoghi comuni e pregiudizi sull’affermarsi delle mafie nel Mezzogiorno il pregio del volume di Isaia Sales “Storia dell’Italia mafiosa”, Rubbettino editore. Sales dimostra come non si tratti affatto di una piaga esclusiva della società meridionale ma di un fenomeno che è parte integrante della storia sociale italiana, certamente alimentata dal latifondo così diffuso nei territori del Sud, ma strettamente collegato alle contraddizioni di una società che non tutela i cittadini onesti, in cui il potere politico e finanziario non ha mai smesso di scendere a compromessi con la criminalità, in cui le classi dirigenti del Nord sono state responsabili quanto quelle del Sud, in cui il familismo e l’omertà non si possono spiegare con ragioni antropologiche ma con il clima di paura, la condizione di miseria e disoccupazione che ha caratterizzato e caratterizza ancora alcune aree del paese. Poiché è la storia italiana a dimostrare come dal giorno in cui gli angloamericani sbarcarono in Sicilia, il 10 luglio 1943, e nominarono sindaci i mafiosi che li avevano aiutati nell’operazione ai nostri giorni, l’alleanza delle mafie con il potere, gli accordi con servizi segreti, politica, magistratura e forze dell’ordine, non sono mai terminati anche se oggi hanno la forma di investimenti sporchi, di nuove connivenze. Ne è un esempio la vicenda del presidente consiglio Andreotti, rinviato a giudizio per associazione mafiosa, assolto solo perché i fatti di cui era accusato, commessi fino alla primavera 1980, sono caduti in prescrizione. Pubblichiamo di seguito un estratto del volume in cui l’autore si sofferma sulle ragioni della nascita delle mafie, ricollegandole a complessi rapporti storici, consolidatisi nei secoli.
I problemi di origine di alcune forme criminali sono sempre molto oscuri. La malavita è qualcosa di antico, di consueto, di familiare nella storia dell’umanità. Pirateria e tratta degli schiavi sono le prime attività in cui la violenza privata si organizza al di fuori di eserciti ufficiali. A fianco ad esse compariranno ben presto banditismo e brigantaggio, che attanaglieranno alcune contrade dell’Europa per secoli. E infine con la nascita delle prime megalopoli europee si manifesteranno tutte le varie forme di criminalità urbana. Le mafie non fanno parte di questa storia della malavita, perché esse sono qualcosa in più e qualcosa di diverso da queste “consuete” forme di criminalità. Le criminalità mafiose non nascono dall’oggi al domani. Ma sono frutto di complessi rapporti storici che improvvisamente si coagulano in qualcosa di più definitivo. Dietro il loro improvviso consolidarsi, c’è un lento processo di incubazione. Anche noi non ci attarderemo nel tentativo di identificare sul piano storico tutte le “cause” delle mafie, ma solo le “condizioni” che le hanno favorite, convinti che il percorso compiuto per la loro affermazione è intellegibile.
La criminalità nella storia non è una peculiarità solo dell’Italia e tanto meno delle sue regioni meridionali. Fernand Braudel ci ha parlato di una “turba di malandrini, masnadieri, ladri, fuoriusciti, banditi” che popolavano fin dal cinquecento le campagne e le contrade italiane. Ma non solo quelle italiane parche “nessuna regione mediterranea” era in quel secolo immune dalla criminalità. La criminalità urbana era di tipo individuale, si manifestava di solito attraverso risse, furti, contrabbando ed era sostanzialmente avversata da tutti i ceti sociali.
Nelle campagne i banditi, che provenivano dai ceti più umili della popolazione agricola, operavano, spesso riuniti in bande, attraverso rapine, sequestri, abigeati. Quasi sempre la violenza del popolo, in città e in campagna, era dovuta alle angherie, alle vessazioni, alla fame ed era rivolta contro la nobiltà. Ma quasi mai assunse le forme di una stabile rivolta sociale. Si trattò di una interminabile rivoluzione larvata, come la definisce Braudel, contro i nobili e contro lo Stato ritenuto amico dei nobili e spietato collettore di imposte. Gli affamati, erranti e vagabondi sono i protagonisti delle angosce dei potenti e dei governanti di quegli anni. Il vagabondaggio minaccia campagne e città. In Spagna i vagabondi sono avvertiti come un pericolo permanente, e contro di loro si succedono provvedimenti, espulsioni, arresti. Poi la Spagna avrà le Americhe come sfogatoio di questa miseria e di questa violenza accumulatasi nel tempo. “Per tutti questi sbandati le Indie sono il sogno, il rifugio di tutti i desperados di Spagna, chiesa dei ribelli, salvacondotto degli omicidi” come scriverà Cervantes. Vagabondi e banditi sono all’epoca “fratelli di miseria”. Rapine, assassini, assalti ai viandanti, sono notizie quotidiane. In ogni città del tempo si formano veri e propri gironi d’inferno nei bassifondi a Napoli e Palermo, come a Parigi, Londra e a Madrid e Barcellona. I “cacciati dalle città” ritornano e si procurano da vivere con la violenza. Il banditismo, “un vecchio aspetto dei costumi mediterranei”, la cui origine si perde nella notte dei tempi, da quando il Mediterraneo ha accolto società strutturate, “ha fatto irruzione per non sparire più”. Non si può dire con precisione quando sia nato. Per Napoli alcuni storici parlano del secolo XIV all’epoca della regina Giovanna I, quando nelle campagne si innalzavano torri di vedetta contro i briganti e del secolo XV per la Corsica. Il popolo è regolarmente dalla loro parte perché il banditismo è contadino e popolare. Si ammira chi ha saputo ribellarsi alla propria miseria con la violenza, si ammira “chi non si è in grado di imitare” e ciò avviene non solo a Napoli o in Sicilia, ma anche in altre parti d’Italia e soprattutto in Spagna, dove – scrive Theophile Gautier – i banditi sono facilmente considerati alla stregua di eroi. Una guerra sociale permanente, a cui, ci ricorda Braudel, la grande storia non ha prestato la dovuta attenzione. “Rivincita contro il signore, contro la giustizia zoppicante, il banditismo ha assunto un po’ dappertutto e in tutti i tempi, l’atteggiamento di vendicatore dei torti” . Stendhal fece a tale proposito riflessioni perspicaci: “Questi briganti rappresentarono l’opposizione contro gli atroci governi succeduti alle repubbliche del medioevo”. Quasi mai questa violenza contadina si trasformò in aperte ribellioni, in programmi sociali antifeudali ma solo in odio che si accumulava ed esplodeva nella violenza individuale. Ma dove il banditismo è più presente e più organizzato è nelle zone dì montagna e nelle zone di confine tra diversi stati per ragioni logistiche: lì nelle impervie montagne è più difficile per le truppe governative agire in forze per contrastarlo, e ai confini è più semplice sottrarsi ai persecutori passando da una giurisdizione all’altra, da uno Stato all’altro. Ecco perché nel corso del tempo il banditismo resiste nelle zone interne, nei Pirenei come in Calabria e negli Abruzzi, territori lontani dalle pianure attraversate dalle lunghe strade che cominciano ad essere costruite e nelle zone di frontiera: Benevento, avamposto dello Stato Pontificio, incuneato nel regno di Napoli o nella vasta regione di frontiera dell’Ungheria o tra Venezia e Milano, o tra le terre del Papa e la Toscana. In questo campo tra il Cinquecento e il Seicento, eccelle la Calabria (‘produttrice di briganti quanto di seta”), dove i crimini dei banditi sono più atroci e numerosi che altrove.
Perché il banditismo e il brigantaggio durarono tanto a lungo in Europa? Innanzitutto perché le condizioni di miseria si portassero a lungo, così come l’oppressione del latifondo e il sovraffollamento urbano; in secondo luogo perché spesso si stabiliva un rapporto tra nobili e banditi, basato sulla protezione dei primi sui secondi in cambio di una tranquillità e una sicurezza dei beni dei primi. D’altronde in Italia (come altrove) nel Medioevo e agli inizi dell’età moderna, re, principi, signori e Stati si valsero abitualmente dell’opera dei banditi per le proprie controversie con le fazioni avversarie. Nel Centro Nord lo facevano assoldando i capitani di ventura e i loro eserciti di malviventi, mentre nel Sud non si conobbe l’esperienza dei capitani di ventura. A Napoli il principe di San Severino era uno dei più famosi protettori di banditi e per questo motivo fu denunciato, condannato e cacciato dal regno. Anche il conte di Conversano fu perseguitato per la sua alleanza con i briganti. Un altro famoso nobile, capo di briganti e bandito egli stesso, fu il duca di Montemarciano, Alfonso Piccolomini che operava nello Stato Pointificio, giustiziato dopo numerose peripezie che lo portarono anche in Francia nel 1591. In genere, anche se esistevano briganti “puri”, essi erano usati dai sovrani contro i baroni e dai baroni contro i sovrani o contro i loro nemici. Per più di di due secoli non c’è stata guerra interna in cui una delle due parti non abbia adoperato i banditi. I briganti, poi, si potevano offrire volontari nell’esercito e così gli venivano condonati i delitti. In questo modo gli eserciti si rimpivano di violenti odi persone abituate alle armi, per cui bastava che un brigante con gravi delitti sulle spalle si dichiarasse disponibile a portare i suoi uomini in guerra sotto le insegne ufficiali del Re, per non essere considerato un nemico. I baroni abitualmente si servivano dei banditi e dei delinquenti come loro personale milizia sia in Lombardia (i bravi de “I promessi sposi”) sia in Sicilia. C’erano poi i nobili-briganti, o meglio i cavalieri-banditi. I guerrieri, i cavalieri senza proprietà e reddito si davano a rapine, assalti, saccheggi dopo che si era interrotto il servizio mercenario a qualche altro signore o re. March Bloch ci parla di Gerardo di Rossiglione, forse il più famoso tra essi. Egli sa cosa significava il ritorno alla pace per i poveri cavalieri: il timore del disprezzo che mostreranno loro i grandi, non più bisognosi del loro aiuto, le esigenze degli usurai, il pesante cavallo da lavoro che sostituisce lo schiumante destriero, gli speroni di ferro invece di quelli d’oro: insomma crisi economica e crisi di prestigio”. A tutto questo egli rimediava con le scorrerie a danno dei pochi beni dei contadini, ma soprattutto dei mercanti.(…) Ma non è questa l’origine delle mafie italiane, esse non nascono dalla disoccupazione dei violenti. La stessa camorra, che è criminalità urbana per eccellenza, non deriva dai bravi che accompagnavano armati i signori. Nel Sud, via via che i baroni venivano portati a corte e disarmati i loro eserciti privati, le loro milizie divennero corpi ausiliari della polizia regia; in questo modo si costituiva la polizia degli Stati assolutistici e si limitava il potere armato dei baroni: sì pacificavano i nobili e si arruolavano come poliziotti i loro schermi. In gran parte sono nate così le forze di sicurezza degli Stati nazionali, reclutando il personale tra ex militari ed ex bravi. Il confine negli eserciti tra buoni e cattivi era inesistente. La discriminante consisteva tra chi sapeva usare le armi e chi no.

di Isaia Sales

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