Michael Freeden: “Non possiamo non dirci liberali” (Lavocedinewyork.com)

di Luigi Troiani, del 14 Novembre 2023

Il classico di Freeden grazie a Maurizio Serio, che accompagna con un saggio l’edizione italiana

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Curioso destino quello del liberalismo in Italia. In tantissimi si dicono liberali in pubblico, ma in privato praticano tutt’altre virtù. Non sorprende: la nostra cultura politica in un secolo ha inventato il fascismo, espresso il più numeroso partito comunista d’occidente, riconsegnato il potere ai figliocci di coloro che se ne appropriarono con la violenza un secolo fa. Immaginarla adepta del liberalismo, francamente viene difficile. Nel dopoguerra il partito Liberale, prima di scomparire, ha racimolato pochissimi voti e avuto sempre scarsa rappresentanza parlamentare.

Qualche politologo si è imbarcato nel tentativo di spiegare dove siano le radici di tanto autoritarismo – indifferentemente di destra o di sinistra – ma non è arrivato a granché. Per spiegare l’arcano servirebbe uno psicanalista della politica, o un sequenziatore del genoma psichico dei popoli. Nel frattempo teniamoci l’interrogativo, e continuiamo a fare il tifo perché nel nostro paese i vizi illiberali privati diventino pratica di virtù liberali pubbliche.

Può aiutare il saggio Liberalismo, di Michael Freeden, che Rubbettino fa uscire nella collana Spazi politici, pagine. In inglese, Liberalism: A Very Short Introduction, apparve nel 2015 presso le edizioni dell’università di Oxford, dove l’autore era stato ricercatore e docente in Politics dal 1978 al 2011, prima di passare all’università di Nottingham dove, all’uscita del volume, insegnava la stessa materia (oggi è professore emerito in ambedue gli atenei).

Il libro, accompagnato in italiano da un saggio di Maurizio Serio, analizza la storia del pensiero e della pratica del liberalismo, stando alla larga da semplificazioni e luoghi comuni, al punto da dedicare un capitolo alle “appropriazioni indebite, denigrazioni ed errori” (va a capire se pensasse anche alla nostra fauna politica!) Il fatto è che Freeden considera le ideologie vettori del pensiero politico, quindi ne supera la consistenza facendo dubitare della loro piena utilità ermeneutica. Lo studio dell’ideologia risulterebbe sterile se non si accompagnasse all’analisi delle caratteristiche politiche del pensiero politico e alle metodologie distintive sviluppate dagli studiosi del pensiero politico.

Il nodo centrale della questione liberale, come ben riassume Serio nel suo denso scritto, sta nel rapporto tra il preteso individualismo a tutti i costi (liberalismo ‘classico’), e l’evoluzione in direzione del benessere dei cittadini nella sua versione progressista, “dove si verifica la trasformazione dell’utilità in welfare e la fondazione dei diritti (rights) sui bisogni piuttosto che sulle pretese (entitlements).”

Una constatazione che fa capire come non sia stato per nulla casuale che il welfare moderno sia venuto alla luce con il Report (1942) di un liberale: il britannico lord William Beveridge, allevato in casa dei socialisti riformisti Sidney e Beatrice Webb che nel 1919 lo portarono a dirigere la London School of Economics and Political Science da essi fondata, per ispirare la politica sociale britannica.

Dal che la critica di Freeden a tanti liberalismi, ad esempio a quello “neutralista” di John Rawls per la pretesa – rilevata da Serio- di incapsulare società presumibilmente libere in modelli morali “costruiti intellettualmente”. Freeden, in proposito aveva chiarito, in un libro uscito un paio d’anni prima di Liberalism, che un liberale tiene sempre conto della molteplicità dei “discorsi” che le società manifestano e ospitano, tutti rispettandoli.

È all’interno di queste posizioni che il vecchio maestro, consapevole del mondo che gli sta crescendo intorno e di come contenuti e strumentazioni delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione accrescano incomparabilmente la scala della trasmissione di falsità e dell’aggressione all’intelletto, introduce il neologismo delle “ideolonoidi”, ovvero le (quasi o non) idee dei (quasi o sub umani) umanoidi, vocati a consumare ed essere consumati.

Nel richiamo dell’autore ai successi “silenziosamente fondamentali” del liberalismo, vi è l’appello, come evidenzia Serio, a “rifondare le basi stesse della politica”, partendo dalla priorità della convivenza e scantonando definitivamente da “nostalgie anacronistiche o trionfalismi inopportuni”. Non è che vi siano altre scelte a disposizione, come mostrano le tragedie maggiori in corso, in Ucraina e Gaza, generate dal tracimare in territorio altrui di due brodi politico-religiosi che del liberalismo tutto ignorano e vogliono ignorare: l’autocrazia russa e il nihilismo di Hamas.

Accettare l’offerta delle “possibilità” liberali pone al riparo da simili catastrofi, perché, nella versione di Freeden, si prevede la società “giusta”, fondata sulla realizzazione di sette concetti, tutti convergenti nell’additare il percorso lungo e rischioso della liberazione dell’uomo dallo sfruttamento di un altro uomo: libertà, razionalità, individualità, progresso, socialità, interesse generale, potere limitato e responsabile.