Prima Repubblica Una débâcle tutta italiana (La Repubblica)

del 22 Maggio 2013

Da La Repubblica – 19 maggio 2013

È passato un ventennio da Tangentopoli, l’evento che pose fine al ciclo della storia italiana iniziato dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Oggi ci troviamo nel pieno di una nuova crisi di sistema. Si può ben capire come la riflessione degli studiosi si attivi al fine di comprendere origini e decorso di una repubblica che, nata nel 1946, ormai si coniuga in prima, seconda e, già si comincia, terza. Tutte le crisi di sistema dell’Italia unita — 1919-25, 1943-45, 1992-94 (per quella presente è ancora troppo presto) — hanno indotto gli storici a ragionare su cause ed eventi che le hanno determinate.

Negli anni recenti sono andate moltiplicandosi le opere sugli svolgimenti che dalla fondazione della democrazia repubblicana hanno condotto alla débâcle del sistema sorto dall’iniziativa dei partiti antifascisti. Tra queste prende ora posto La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile, edita da Rubbettino e dovuta alla penna di Giuseppe Bedeschi, che, avendo al suo attivo libri significativi sulla storia del liberalismo e del pensiero politico italiano del Novecento, si propone di analizzare i fattori che hanno reso, appunto, «difficile» il cammino dell’Italia nel periodo da lui preso in considerazione. Quattro i principali fattori: essere nata la repubblica democratica da un’unità antifascista e costituzionale sotto la quale si celavano in realtà concezioni non conciliabili della democrazia, dello sviluppo economico e sociale e delle alleanze internazionali; la conseguente formazione di un sistema politico bloccato, che precludeva normali alternanze al governo; l’anomalia costituita dalla presenza del più forte partito comunista d’Occidente; l’avversione prevalente non solo nella sinistra, ma anche nella Democrazia Cristiana, verso una compiuta economia di mercato e la comune inclinazione a dilatare il settore direttamente o indirettamente nella mani dello Stato.

Quanto ai momenti più critici che si sono susseguiti in una nazione dai deboli tessuti connettivi, a partire dall’inevitabile archiviazione nel 1947 dell’unità antifascista a livello di governo, basti menzionare: le ripetute rotture avvenute, prima e dopo il “terribile 1956” nel corpo della sinistra, divisa da rivalità mai ricomposte, senza che né i comunisti né i socialisti riuscissero a raggiungere le loro finalità strategiche; l’inadeguatezza dei progetti riformatori dei governi di centro-sinistra; l’interminabile ondata di conflittualità politica e sociale incancrenitasi nei tragici “anni di piombo”; e poi, una volta indebolitasi la centralità della Dc nei primi anni Ottanta, l’avvitarsi dei contrasti tra quest’ultima e il Psi di Craxi sfociati nello stallo, in velleità riformistiche deluse, nel discredito di un potere e di una società minati dalla corruzione. Dal sommarsi degli effetti del 1989 sul mondo dell’Est, della fine del confronto tra Urss e Usa e del prorompere di Tangentopoli è derivata la frana della «democrazia difficile» incarnata dalla Prima Repubblica.

Ritengo il disegno tracciato da Bedeschi nel complesso convincente. Ma per quanto concerne alcuni punti non sono persuaso. Trovo assai unilaterale il drastico giudizio negativo, di originaria matrice crociana ed einaudiana, pronunciato sul Partito d’Azione; non mi convince affatto, in tema di dibattito sull’eredità e sul significato del fascismo, l’adesione entusiastica data da Bedeschi all’interpretazione di De Felice (culminata nella tesi che il Mussolini di Salò fu un patriota votatosi a proteggere l’Italia del Nord dall’occupante nazista); mi pare, infine, che, nella ricerca delle ragioni che fecero del sistema politico della Prima Repubblica un sistema “bloccato”, alla giusta sottolineatura delle responsabilità da attribuirsi al Pci vada accompagnata, con maggior vigore, quella dovuta alle organiche insufficienze di una classe dirigente che, dopo lo slancio iniziale degli anni della ricostruzione e del «miracolo economico», perse largamente per vizi propri la bussola, contribuendo in maniera determinante a fare del nocciolo duro del consenso popolare a quel partito e delle sue sempre più sfuggenti velleità “antisistema” una realtà inamovibile.

Di Massimo L. Salvadori

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