Il futuro Duce a Milano. Gli anni del Popolo d’Italia e la svolta interventista – Ne «Il compagno Mussolini» le radici socialiste di Benito

del 18 Novembre 2013

Nicholas Farrell, Giancarlo Mazzuca

Il compagno Mussolini

La metamorfosi di un giovane rivoluzionario

da Il Giorno – Ed. Milano del 17 Novembre

È uscito in questi giorni per i tipi dell’editore Rubbettino «Il compagno Mussolini» dello storico inglese Nicholas Farrell e del giornalista Giancarlo Mazzuca, direttore de «Il Giorno». Del volume, che indaga soprattutto il Mussolini giovane, socialista e poi interventista, anticipiamo un brano del periodo in cui il futuro Duce era a capo de «Il Popolo d’Italia» con sede a Milano.
La redazione de «Il Popolo d’Italia» (che si trovava in una strettoia dietro Piazza Duomo – Via Paolo da Cannobio, al numero civico 35) – non era affatto quella di un giornale con enormi disponibilità economiche. Anzi. Un cortiletto portava all’ingresso del giornale, che occupava due piani, e alle cantine di un piccolo edificio sfacciato. La redazione era al primo piano, l’amministrazione al piano terra. L’amministratore era Manlio Morgagni, che diventò direttore della pubblicità quando, dal 1919 in poi, assunse il ruolo di amministratore il fratello di Mussolini, Arnaldo. In seguito l’edificio sarebbe stato soprannominato «il covo», perché nelle cantine si trovava il «bivacco» del gruppo di ex Arditi, che proteggevano il giornale da attacchi nemici. «Chi non ricorda la redazione del Popolo d’Italia nel 1919 e nel 1920, in Via Paolo da Cannobio, quando si aspettava di minuto in minuto l’irruzione della canea bolscevica?»
Uno dei giornalisti coinvolti dall’inizio, Arturo Rossato (che usava lo pseudonimo «Arros») descrisse così l’atmosfera del luogo, in una sua monografia di Mussolini pubblicata da «Il Popolo d’Italia»- nel 1916: «La redazione è di un lusso fantastico. A prima vista sembra una topaia, ma a guardarci bene si finisce per convincersi che Benito Mussolini è il nababbo più sfondato del giornalismo italiano. Al numero trentacinque un piccolo portone sempre aperto, illuminato da una lampadina che di tanto in tanto si ricorda di essere elettrica: la fucina. Poi una scaletta. In fondo, oltre un ballatoio, sul quale però sarebbe pericolosissimo ballare, spiccano illuminati, come tutti i seguaci del Popolo, anche i vetri della redazione. La redazione più matta e più bizzarra del mondo. Intorno ai tavoli ci sono veramente delle sedie, ma le sedie servono soltanto per mettervi su i piedi, perché, di solito, tutti i redattori siedono sui tavoli, specialmente quando ricevono della gente di riguardo. D’estate la redazione lavora in maniche di camicia, tanto per non truffare la fama di essere scamiciata. D’inverno c’è una stufa. Mussolini non crede all’intelligenza protocollata dai regi professori, o garantita per un anno come i mobili di casa. Ai suoi redattori, o a quelli che lo vogliono essere egli dice: «Fate!». Se sanno fare, bene. Se non lo sanno, fa lui e li rimette sulla via del ritorno con un: «Egregio amico…». Nei primi giorni di vita in quelle tre stanzette infuriava la baraonda. Fuori, la strada urlava allo scandalo e all’oro francese; fuori, la folla aspettava il suo giornale, implacabile; fuori, le macchine strepitavano impazienti; fuori, la dimostrazione ostile o amica che invocava l’uomo dell’odio o dell’amore, e lì, il «manipolo» infernale, le teste matte che diventavano sagge, e il malinconico spettro della miseria onesta. Dopo i primi quindici giorni di lavoro, infatti, mentre un giurì d’onore stava severamente indagando sul bilancio, per mettere bene in chiaro la faccenda dei milioni francesi, Mussolini mi diceva con una serenità di fanciullo mortificato: «Tu oggi dovresti avere lo stipendio: ma io oggi non ho un soldo» – «Benissimo» – «Benissimo, sì. Ma non ti posso dar nulla. Il poco che ho lo suddivido tra i fattorini. Devono essere pagati. Noi aspetteremo» – «Ciao!». […]Ma la redazione se ne infischiava se non veniva pagata. Mussolini era lì e bastava. Le dimostrazioni si facevano e bastavano. Anzi c’erano delle legnate che crescevano sempre. Dunque? […]».
Fu in questo clima che Mussolini formò – nel dicembre 1914 – il primo dei Fasci d’azione rivoluzionaria, ovvero «aggruppamenti» di «sovversivi» a favore sia della guerra sia della rivoluzione. Questo – avrebbe detto – fu il punto di partenza del fascismo. In realtà il primo fascio – chiamato inizialmente Fascio rivoluzionario di azione internazionalista – era stato formato nell’ottobre 1914 da altri, in particolare dai sindacalisti rivoluzionari guidati da Filippo Corridoni e Massimo Rocca. Questi avevano pubblicato il loro manifesto il 5 ottobre. Due mesi più tardi, dopo l’espulsione dal Partito Socialista, Mussolini dette il suo appoggio a questo gruppo, lo aiutò a redigere un nuovo manifesto, che esortava l’espansione italiana fino alle sue «frontiere naturali», e, attraverso «Il Popolo d’Italia», ne divenne il portavoce ufficioso. Il futuro Duce tolse poi immediatamente la parola «internazionalista» dal nome. I temi chiave, a questo punto, erano populismo, idealismo, audacia, futurismo, azione, guerra, rivoluzione.

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