«Così chi governa vuole rendere i cittadini sudditi» (Libero)

di Fausto Carioti, del 21 Maggio 2013

Da Libero – 19 maggio 2013

Arriva in libreria «Potere», nuovo saggio del filosofo. Pretesa della redenzione, teorie cospiratorie e «decrescita felice» sono i nemici della libertà individuale

Arriva sugli scaffali un tipo di libro che mancava da tempo. L’opera di saggistica da leggere con una matita a portata di mano, per sottolineare frasi su cui poi converrà tornare e per segnare a margine della pagina lo spunto, il collegamento da andare a cercare negli altri volumi in biblioteca. Il tipo di libro che ti costringe a riflettere e ti fa venire voglia di conoscere meglio i tanti autori citati (impossibile padroneggiarli tutti). Potere. La dimensione politica dell’azione umana, scritto da Lorenzo Infantino ed edito da Rubbettino, non contiene ragionamenti à la page né facili aforismi, pronti per essere trasferiti nei 140 caratteri di un tweet. È invece un libro importante, profondo dal punto di vista cronologico, bibliografico e concettuale. Parte dalla Bibbia e arriva sino a Karl Popper, passando per Platone, Sant’Agostino, Niccolò Machiavelli, Edmund Burke, Max Weber e Guglielmo Ferrero. Nei giorni dell’uscita in libreria, Libero ne ha parlato con l’autore.

Professor Infantino, affiancando le tessere rappresentate dagli autori occidentali che per duemilacinquecento anni si sono confrontati sull’argomento, evidenziandone punti di forza e debolezze, lei compone un quadro originale della vita umana e del rapporto tra governanti e governati. Come definirebbe il suo libro?

«È un libro di teoria del potere. Lo avrei voluto scrivere trent’ anni fa. Mami sono allora reso conto che, per trattare l’argomento, è necessario previamente disporre di una teoria della società. Il potere è infatti un fenomeno sociale. Anche quando non ne siamo consapevoli, esso è presente nella vita degli uomini, generato dai rapporti intersoggettivi. C’è quindi una dimensione politica in senso lato, la quale vive accanto al momento economico (la scarsità) e a quello sociale (la necessità di cooperare con gli altri). Sono tre insopprimibili dimensioni di ogni nostra azione. Se non si comprende ciò, non si può capire il significato della politica in senso stretto, che è poi il rapporto fra governati e governanti».

Se nel libro c’è un «cattivo», esso è «l’idea di redenzione», che lei mette alla base di ogni regime totalitario. Non è un concetto solo religioso: la redenzione «laica», figlia dell’abuso della ragione, è molto più pericolosa.

«La vita degli uomini non sarebbe possibile senza la cooperazione sociale. Ma questa porta sempre con sé un coefficiente di conflittualità. C’è chi crede che il conflitto sia un prodotto dell’uomo “vecchio”, “corrotto”. E ritiene che l’uomo “nuovo”, redento dalla perversione, possa creare una “società fraterna”. Quando affermo che la dimensione politica è insopprimibile, intendo anche dire che il conflitto è insopprimibile. Nella società aperta, esso viene regolato dalle norme del diritto, che demarcano i confini delle nostre azioni. Se però abbandoniamo il “governo della legge”, il conflitto non viene meno. E, per di più, conferiamo ai governanti un potere illimitato. Nel totalitarismo, “l’ingenuo è la classica vittima degli ipocriti”. Ogni volta che l’idea dell’uomo “nuovo” si riaffaccia, c’è sempre una minaccia per la libertà individuale di scelta».

Lei torna su un concetto molto caro a Popper: «I cospiratori raramente riescono ad attuale la loro cospirazione». Questo perché, scrive lei, «la complessità delle azioni sociali lascia ben poco spazio all’azione della logica proiettiva». Insomma, ci sono le famose conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali. Eppure, mai come oggi le teorie cospiratorie vanno di moda. In televisione, sul Web, in un numero sempre maggiore di libri, spiegare la realtà attraverso le cospirazioni garantisce ascolti e vendite. È solo una questione di ignoranza diffusa oppure la natura umana ha bisogno di trovare rifugio e consolazione nelle dietrologie?

«C’è l’una e l’altra cosa. E tuttavia, come lei afferma, le teorie cospiratorie non possono darci ragione della complessità dei fenomeni sociali. Tali teorie hanno un elevato coefficiente di pericolosità: perché portano a credere che, se il Male è prodotto dai cospiratori “cattivi”, il Bene può essere creato da cospiratori “buoni”. E ciò sta alla base della chiamata allo scontro finale, che caratterizza ogni ideologia totalitaria».

Il libro è severo anche con le interferenze del potere pubblico nella vita economica e sociale. Chi comanda ha molti modi per approfittare di chi è comandato. Tutti aspiriamo a far parte di quello che lei chiama il «sottinteso patto di connivenza»: ottenere privilegi a carico della collettività. «È un processo che porta ciascuno a illudersi di essere un free rider, mai cui reali beneficiari sono il ceto politico, i suoi gruppi più vicini e protetti e il demi-monde affaristico. Nessuno comprende (o vuole comprendere) che, mentre ciò avviene, le conseguenze di medio e lungo termine sono disastrose, perché si colpiscono le basi della prosperità futura». È una perfetta descrizione della malattia italiana. Il suo è un libro realista, non certo ottimista sulla natura dell’uomo e del potere. E allora le chiedo: esiste una cura per questa malattia?

«Dobbiamo comprendere che non ci sono cause morali della decadenza politica, bensì cause politiche della decadenza morale. La malattia professionale del ceto politico è l’interventismo. Gli uomini politici sono sempre pronti a promettere. Promettono però a spese altrui, facendo ricorso alle nostre risorse. È un meccanismo perverso, che si sottrae al nostro controllo e che dà vita a una allocazione delle risorse priva di responsabilità. Si crea così un territorio in cui tutto è possibile, avventura e bottino compresi. La cura è la società aperta, che affida la soluzione del problema economico alla libera cooperazione sociale, in cui ciascuno “difende” le proprie risorse, perché ne è responsabile. Tutt’ altra cosa».

Le leggo questa frase dal suo libro: «Chi intende affrancarci dalla continua trasformazione del superfluo in necessario può solo ‘ingessare’ l’uomo, privarlo di ogni sua preferenza e di ogni sua libertà». L’esatto opposto di quanto sostiene il filosofo francese Serge Latouche, teorico di quella «decrescita felice» che ha molti seguaci anche nel Parlamento italiano. Ritiene che sia nella natura dell’uomo spostare sempre più in alto l’assicella dei propri bisogni?

«Non c’è alcuna possibilità di una “decrescita felice” . Ciò che a molti sfugge è che la crescita delle grandezze economiche è sempre sostenuta dall’accrescimento della conoscenza. Ossia: la libertà individuale di scelta sta alla base dei sistemi competitivi.

E la concorrenza, come ha inimitabilmente spiegato Hayek, è un processo di mobilitazione delle nostre conoscenze, un procedimento di esplorazione dell’ignoto, che ci consente di individuare chi di volta in volta sa fare meglio. Se blocchiamo tale meccanismo, ci consegniamo alla stagnazione. Non possiamo assicurare alcun futuro ai nostri figli e condanniamo gli indigenti del Terzo Mondo alla morte per fame».

Di Fausto Carioti

Altre Rassegne