Hitler, l’angoscia e il segno di Heidegger (Avvenire)

di Andrea Galli, del 22 Aprile 2013

Da Avvenire del 20 aprile 2013

Al complesso humus culturale della Germania di inizio ‘900, che fu allo stesso tempo manifestazione della crisi di una società e terreno di coltura dell’ideologia nazista, Furio Jesi dedicò un saggio famoso, Germania segreta, che resta a distanza di 45 anni un testo di riferimento. Al “segreto” di quella Germania, nello specifico della figura di Hitler, si è dedicato anche un intellettuale che condivide con Jesi una formazione di sinistra, Massimo De Angelis – con un passato ormai lontano da dirigente del Pci e un presente da direttore editoriale del trimestrale Nuova civiltà delle macchine – ma che rispetto a Jesi ha scelto la via storico-filosofica rispetto a quella esoterico-letteraria. Il saggio, pubblicato da Rubbettino, si intitola Adolf Hider, un’emozione incarnata. Per un’interpretazione filosofica del nazionalsocialismo. Il titolo, che può suonare ermetico, si chiarisce con la scelta della guida interpretativa scelta da De Angelis, ovvero Martin Heidegger. Dell’onda sismica che portò all’elaborazione del nazismo Heidegger fu senza dubbio un sismografo, così come fu in seguito un protagonista del movimento e della cultura nazista. De Angelis preferisce guardare al primo Heidegger, sentinella dello Zeigeist degli anni ’20 e ’30, e lo fa sulla scia del politologo Ernst Nolte, l’altro riferimento preponderante. In particolare l’Heidegger di Essere e tempo, che mise a tema il sentimento dell’Angst, l’angoscia dell’uomo in quanto «essere gettato», la paura come emozione fondamentale dell’«Esserci» quando si apre al mondo, per dirla con il linguaggio del filosofo di Messkirch. Per De Angelis, come per Nolte, Hitler sarebbe stato l’incarnazione di quell’angoscia che segnò il mondo tedesco tra le due guerre mondiali. Frau Sorge, la signora ansia, divenne già dalla morte precoce della madre la sua compagna, come scrisse nel Mein Kampf il futuro Fuehrer. La Vienna del finis Austriae fu per lui l’immagine di una civiltà, quella pan-germanica, vicina al collasso, fonte di un pessimismo acuito dalle proprie sconfitte personali – l’indigenza giovanile, la mancata accettazione all’Accademia d’arte – ma soprattutto dalla sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale e dall’umiliazione del popolo tedesco. La reazione di Hitler a quella paura fu bellicosa, fanatica, totalitaria, ma restò pur sempre una dinamica di difesa. Difesa da cosa? Dagli ebrei e dai bolscevichi certo, ma più a
fondo, secondo De Angelis, dalla minaccia del progresso. E qui si innesta il parallelismo più sottile e più interessante del libro. La paura/angoscia heideggeriana apre alla “trascendenza” – poiché l’uomo si percepisce come un progetto destinato a trascendere la natura di cui pur fa parte – e questa trascendenza può essere vista come una prospettiva ostile alla natura. Anche Hitler percepì la “trascendenza”, il proiettarsi dell’uomo oltre se stesso e verso il progresso, in questo modo: come una minaccia all’ordine del Volk tedesco e alle sua radici di sangue e suolo. E optò per una difesa della natura che alla fine si rivelò l’annichilimento dell’umano.

di Andrea Galli

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