Secondo Marco Bentivogli è adesso il momento di progettare il lavoro del domani (tecnelab.it)

di Riccardo Oldani, del 29 Dicembre 2020

Marco Bentivogli

Indipendenti

Guida allo smart working

La pandemia, cambiando le nostre vite, ha accelerato la profonda trasformazione del lavoro. Ma i processi che ha innescato sono prevedibili e governabili? Ne parliamo con Marco Bentivogli. Tra i temi affrontati, il ruolo dell’automazione e dei robot nelle fabbriche 4.0, le strategie per consentire ai lavoratori di non essere esclusi dal mercato del lavoro e, anzi, migliorare sempre più la loro condizione, lo smart-working e la necessità di costruire una società aperta e solidale in cui il cittadino si senta più al sicuro, più protetto, tutelato nei suoi diritti e aperto all’innovazione.

Quale effetto potrebbe avere la pandemia sulle aziende e sul lavoro?

Da tempo sostengo che, di fatto, le pandemie, così come le guerre o altre catastrofi di portata planetaria, hanno una portata drammatica non soltanto per l’impatto che hanno sulle vite dei singoli cittadini, ma anche perché producono forti discontinuità dal punto di vista umanitario ed economico. Spesso sono “discontinuità utili” in quanto acceleratori tecnologici, perché accrescono i processi di innovazione oltre il ritmo che hanno in tempi normali. Tutti quanti, oggi, siamo testimoni della trasformazione digitale, che è già in corso da tempo, e di come stia cambiando il mondo con un’impennata logaritmica. Una pandemia, come quella di Covid-19, pertanto, in questa fase rischia da un lato di avviare un processo selettivo sulle aziende e, dall’altro, può provocare una forte accelerazione dell’innovazione.

Quale sarà l’impatto sul lavoro, perlomeno come lo abbiamo conosciuto finora?

Quello che è accaduto in questi mesi ha scioccato letteralmente le aziende, che hanno capito in ritardo quanto siano lunghe le filiere delle loro supply chain. Imprese che si credevano “virus-free” si sono trovate a mal partito nell’approvvigionamento di componenti o di materie prime provenienti da Paesi, come la Cina, fortemente colpiti dalla fase iniziale dell’epidemia. Gli aspetti di sicurezza legati al distanziamento, per evitare che i lavoratori si contagino nel lavoro o durante il pendolarismo e un blocco lungo dell’attività sono stati eventi da un lato inaspettati e dall’altro catalizzatori di una profonda riflessione su come costruire una nuova normalità.

Tutto questo ci porterà a una nuova organizzazione del lavoro in cui gli ingredienti noti per attivare l’incremento della produttività, come l’investimento delle competenze, l’adozione di tecnologie abilitanti 4.0, tra cui la robotica, e nuovi sistemi di organizzazione del lavoro subiranno una nuova e ulteriore spinta. Le aziende che supereranno lo shock pandemico verranno interessate da una nuova spinta a diventare meno vulnerabili attraverso gli investimenti in automazione e tecnologie 4.0. Per esempio, tornando al discorso degli approvvigionamenti: due anni fa io e Massimo Chiriatti (esperto di blockchain e di valute digitali, University Programs Leader in IBM, ndr) avevamo proposto un manifesto sulla blockchain, per promuovere l’utilizzo di questa tecnologia sulle filiere produttive e non soltanto sulle criptovalute (venne pubblicato da Il Sole 24 Ore il 12 agosto 2018. A questo link è scaricabile il pdf: https://bit.ly/3ieu9sk). Questo perché la notarizzazione digitale, che serve a dare trasparenza e tracciatura a filiere divenute ormai immense e lunghissime in tutto il pianeta, richiede l’adozione di nuovi strumenti efficaci, come la blockchain appunto.

Una forte, ulteriore spinta verso l’innovazione tecnologica. Quali saranno gli effetti immediati?

Tutto questo tema spingerà da un lato verso quello che definisco il “tic pavloviano” sulla disoccupazione tecnologica. Cioè il grido d’allarme sulla tecnologia che porta via il lavoro alle persone. Io invece penso che, se sarà abbinata a un grande piano di “reskilling”, cioè di riqualificazione delle professionalità attuato con modalità nuove, questa transizione tecnologica potrà consentire alle persone di restare in gioco sul mercato del lavoro, di trovare nuove occasioni di occupazione anche in presenza dei grandi cambiamenti in atto.

Dall’autunno scorso in avanti, credo poi che, in Italia, un’importante parte del mondo produttivo si trovi in grosse difficoltà, con il rischio di chiudere, mentre un’altra parte è nelle condizioni di correre e di crescere. Dovremo vedere come il nostro Paese sarà in grado di attivare strumenti per interpretare questo momento e mettere in atto politiche pubbliche di accompagnamento all’innovazione, per esempio attraverso il rinnovamento del Piano nazionale Industria 4.0. Bisogna mettere insieme il “piano Amaldi” sulla ricerca e il network per un Fraunhofer Italia a partire dalle eccellenze sull’innovazione di cui disponiamo. Bisogna avere un piano strategico che agganci i nuovi ecosistemi territoriali e le PMI alla ricerca e all’innovazione.

Bisogna evitare la doppia sconfitta: quella di chi perderà il lavoro in aziende fuori dal gorgo dell’innovazione e quelle che invece accelereranno senza accompagnare le persone nella loro riqualificazione professionale.

I robot possono avere un ruolo in questo rinnovamento?

Certo. Noi dobbiamo considerare il fatto che nelle aziende italiane, come hanno dimostrato varie analisi, dove è più elevata la “densità di robot” minore è la disoccupazione. Le imprese che investono in queste tecnologia mostrano una competitività più elevata e offrono una qualità del lavoro migliore, spesso con salari più alti.

La preoccupazione di molti è che la spinta verso l’automazione lasci l’uomo in posizione marginale. Che ne pensa? Può l’uomo essere centrale in questo rinnovamento? C’è una ricetta per fare in modo che l’innovazione non lasci vittime per strada in un processo di cambiamento che deve essere sempre più veloce?

La ricetta è la formazione. Il diritto soggettivo alla formazione. Spesso, a mo’ di provocazione, sostengo che bisognerebbe tassare l’ignoranza. Un paradosso con cui vorrei sottolineare come si debba forzare sul diritto soggettivo alla formazione, che deve essere inserito in tutti i contratti di lavoro, anche quelli più brevi, e deve assurgere al rango di diritto umano. Solo se noi “potenziamo” gli esseri umani, anche con grandi ed efficaci progetti di riqualificazione, possiamo consentire alle persone di evitare di finire tra gli “scarti” del progresso, e consentire invece loro di essere al centro della trasformazione.

Il sindacato può avere un ruolo in tutto questo?

Ne sono convinto. Questo è un momento straordinario per mettere in campo i progettisti del nuovo lavoro. E il mio sogno è sempre stato proprio elevare la figura del sindacalista a progettista del nuovo lavoro. Oggi possiamo tutelare l’occupazione solo se siamo capaci di diventare un soggetto che partecipa, insieme con gli altri attori del mondo produttivo, al grande progetto per definire in che cosa consisterà il lavoro del domani. Se la logica con cui verranno costruite le nuove architetture industriali sarà soltanto tecnologica ed economicista, andremo innanzi tutto incontro a soluzioni inefficaci, perché escluderemo la parte più profonda, forte e intrinseca dell’uomo, che consiste appunto nella sua umanità. Noi dobbiamo essere presenti nel dibattito per ricordare proprio questo aspetto.

Come vede un’evoluzione ideale del lavoro del futuro?

Secondo me la svolta tecnologica è una grande opportunità per ridurre le mansioni ripetitive, sia nel lavoro impiegatizio che in quello operaio. Anzi, può rappresentare una sorta di riscossa per il lavoro operaio che, “ibridato” con robot cooperativi, si può trasformare verso professionalità più elevate e più richieste. Un lavoratore professionalizzato di questo tipo è molto meno sostituibile di un operaio inserito all’interno di un ciclo fordista, in cui svolge compiti ripetitivi in linee dotate di robot industriali “vecchio tipo”. Il suo è anche un lavoro a maggior ingaggio cognitivo, che gli offre più possibilità di realizzarsi a livello professionale e personale. Ritengo che questo sia un aspetto fondamentale, un tema che deve portare alla ricostruzione delle architetture industriali, economiche e sociali all’interno di nuovi ecosistemi intelligenti, in cui il lavoro sia a “umanità aumentata”, come mi piace definirlo, cioè con una forte riduzione dei carichi di fatica. Il limite a cui un’impostazione di questo tipo dovrebbe tendere è quello di “zero fatica”, in cui i carichi posturali vengono azzerati grazie a macchine intelligenti e collaborative. Un lavoro fondato su questo tipo di impostazione lascia anche più spazio al contributo umano in termini di creatività e di intelligenza.

La tecnologia può quindi accompagnarci verso un nuovo umanesimo del lavoro?

Sì, e credo che un cambiamento epocale come quello imposto dalla pandemia possa creare le condizioni giuste per raggiungerlo, avviando una profonda riflessione. In un manifesto che ho proposto lo scorso marzo insieme con Franco Amicucci, fondatore di Skilla, e Raoul Nacamulli, professore di organizzazione aziendale all’Università di Milano Bicocca (qui il link per scaricarlo: https://bit.ly/35gIsJa), abbiamo messo in evidenza come la situazione che stiamo attraversando abbia portato allo scongelamento dei due aspetti più rigidi del lavoro, costituiti dal luogo, cioè dallo spazio, e dall’orario, cioè il tempo. Lo sblocco di queste due rigidità consente di conciliare meglio il lavoro con le vite private delle singole persone e di arricchirlo di contenuti cognitivi, dando alle persone più autonomia e responsabilità. Questi processi, però, non accadono spontaneamente, ma vanno accompagnati e guidati.

È quanto sta accadendo con la diffusione dello smart-working?

Esattamente. Ma l’adozione dello smart-working ha anche evidenziato problemi, soprattutto in quelle aziende che non lo avevano previsto e contrattualizzato prima della comparsa del Covid-19. In quelle imprese questa modalità si è in realtà concretizzata in una sorta di telelavoro, oscillante tra le forme del cottimo digitale a 20 ore e le vacanze intelligenti. Dove invece lo smart-working è stato pianificato, progettato e condiviso con un vero processo di partecipazione innovativa, si è rivelato un’occasione di miglioramento delle persone e della produttività aziendale.

Esaminando il problema in quest’ottica, notiamo anche che in questo periodo si sta sostanziando la divisione tra lavori remotizzabili e lavori non remotizzabili. È appena uscito un mio libro: “indipendenti, guida allo smart-working” edito da Rubbettino che aiuta a costruire un’azienda e un lavoro intelligente.

Il lavoro operaio fa parte di questa seconda categoria. Non si può fare a distanza. Ed ecco, allora, che in un momento come questo emergono tutti i suoi valori: il lavoro operaio, mai come ora, si è dimostrato fondamentale, necessario, quasi come quello fornito dal personale sanitario. Non è più un’occupazione di serie B, ma, al contrario, qualcosa di irrinunciabile. Se poi pensiamo che, per l’Italia, la meccanica strumentale è il pezzo più forte dell’export, possiamo ben vedere come il lavoro dell’operaio 4.0 sarà ancora più importante in futuro.

Se deve cambiare il lavoratore, deve cambiare anche l’imprenditore. Ma come?

La mentalità di chi governa l’impresa va cambiata anche perché le nuove tecnologie rendono sempre più complesso misurare la produttività in termini di ore di presenza e di pezzi prodotti dalla singola persona. Per gran parte delle funzioni aziendali questo tipo di calcolo si è fatto praticamente impossibile. I vecchi modelli, quindi, si dimostrano superati. Ma per diffondere nuovi concetti ritengo essenziale la creazione di ecosistemi 4.0, che favoriscano l’incrocio e la crescita dei vari fattori abilitanti, compresa una nuova cultura di gestione delle imprese e di formazione dei lavoratori. Quando parlo di ecosistemi 4.0 penso a realtà capaci di attirare investimenti, perché habitat positivi per l’innovazione, e di favorire l’integrazione delle nuove tecnologie nelle imprese italiane, come invece non è avvenuto con altre iniziative che avrebbero dovuto facilitare questo processo. Mi riferisco, per esempio, ai Competence Center del ministero dello Sviluppo Economico, il cui sviluppo è in forte ritardo rispetto ai tempi previsti, oppure ai Digital Innovation Hub, che sono realtà scarsamente integrate nei territori in cui sono state create. Strutture di questo tipo dovrebbero favorire la sedimentazione delle competenze nel territorio e non essere soltanto interfacce propedeutiche all’innovazione.

Quello che dovremmo realizzare è che ogni nuovo livello di innovazione sia come uno strato di mattoni su cui si costruisce il nuovo modello d’impresa e che il territorio in cui viene edificato lo apprenda e sia in grado di ripeterlo. Se non ci riusciamo, la maggior parte del tessuto del lavoro in Italia, che è costituito dall’86% di persone attive in aziende con meno di 15 dipendenti, resterà escluso o, comunque, troppo lontano dall’accesso agli strumenti culturali necessari per entrare in percorsi innovativi di questo tipo.

Un tempo erano i distretti industriali a svolgere la funzione di diffondere le specializzazioni nei territori, che assorbivano processi produttivi e mansioni. Poi c’è stata l’evoluzione verso sistemi locali collocati lungo le grandi dorsali delle infrastrutture della Penisola. Oggi ci troviamo nella necessità di ricostruire ecosistemi 4.0, che si possono realizzare attraverso la compresenza di infrastrutture materiali e immateriali, formazione, pubblica amministrazione, energia, mobilità intelligente. Ecosistemi smart, digitali, in grado di favorire la crescita delle imprese e delle competenze delle persone.

FOCUS 1: CHI È MARCO BENTIVOGLI

Marco Bentivogli, esperto di politiche del lavoro e di innovazione industriale, ex Segretario Generale della Federazione Italiana Metalmeccanici FIM-CISL, è una delle menti più innovative e consapevoli dello sviluppo tecnologico in corso nel panorama del mondo sindacale italiano. Componente della commissione esperti di intelligenza artificiale del Mise, il Gruppo di Lavoro su AI della Pontificia Accademia della vita.  Il suo ruolo e la presenza costante nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro lo hanno portato a maturare riflessioni sui temi più attuali in gioco, oggi, nel mondo dell’occupazione, dell’impresa e della società italiana. Nella sua visione, riportata in molti scritti, come per esempio il libro “Contrordine compagni. Manuale di resistenza alla tecnofobia per la riscossa del lavoro in Italia” (Rizzoli, 2019), Bentivogli evidenzia il ruolo svolto dall’innovazione tecnologica e dell’Industry 4.0 nell’elevare le condizioni e il lavoro dell’operaio, proponendo quindi uno sforzo di comprensione e di interpretazione della trasformazione digitale, allo scopo di indirizzarla nella giusta direzione e non di avversarla in modo aprioristico. Anche per questo Bentivogli si è distinto nel paese come un innovatore nel modo di intendere e interpretare prima il ruolo del sindacalista nella società contemporanea e oggi per il suo impegno civile e di ricerca.

FOCUS 2: LA LETTURA

“La tecnologia logora chi non ce l’ha”. Più di una volta Marco Bentivogli ha commentato con questa frase le uscite tecnofobiche di esponenti politici che, in nome di un progressismo velleitario, pensano di “fermare il progresso con le mani”. Che vogliamo o no, le tecnologie 4.0, la robotica, l’intelligenza artificiale e i big data fanno parte del nostro mondo e non possono essere cancellate. Quello che serve, a suo parere, è un cambiamento di prospettiva per “anticipare, pensare e progettare la trasformazione”. Sono questi i temi che affronta nel suo libro “Contrordine compagni. Manuale di resistenza alla tecnofobia per la riscossa del lavoro in Italia”, edito da Rizzoli nel 2019. A maggio il volume è uscito anche in formato tascabile nella collana BUR, la Biblioteca Universale Rizzoli (304 pp, 13,00 €).

FOCUS 3: DIMISSIONI INASPETTATE

A lungo sulla scena sindacale, citato spessissimo da quotidiani e notiziari, Marco Bentivogli ha rassegnato le proprie dimissioni da Segretario Generale della FIM-CISL lo scorso 19 giugno, con una breve lettera in cui ha definito “un’esperienza formidabile” quella che, per 25 anni, dal 1995, lo ha portato a ricoprire diversi ruoli e a fare sindacato in molte regioni italiane.

Nel dare una motivazione alla scelta, Bentivogli ha spiegato di aver sempre detto che “bisogna fare più esperienze possibile per continuare a dare un senso alla propria esperienza”, e di reputare giusto “cambiare reparto”, nel suo impegno, dopo aver compiuto 50 anni, di cui 25 in FIM. Lasciare spazio ad altri, ha concluso Bentivogli, “è la migliore condizione per proteggere la FIM e tutte le sue donne e gli uomini nelle sfide sempre più alte che solo il sindacato riformista ha il coraggio di assumersi”.

Questa crisi mette in evidenza un sistema economico mondiale che fa fatica a funzionare secondo gli schemi di una volta. Anche solo l’approvvigionamento di materiali come le mascherine o i dispositivi di protezione per i nostri sanitari si è rivelato un grande problema. Dal suo punto di vista come si deve affrontare questa situazione?

Su questo tema è partito un dibattito un po’ surreale in Italia. Quello che è successo ci insegna che ogni azienda deve avere consapevolezza della filiera da cui dipende. Per come la vedo io, e come ho già osservato prima, questo si può ottenere soltanto con infrastrutture di blockchain, perché il cambiamento dei rapporti tra fornitori e subfornitori non è più gestibile attraverso pezzi di carta o con sistemi digitali di concezione tradizionale. Serve un’autenticazione, un’asseverazione notarile della filiera produttiva, che già avviene, in realtà. Ci sono infatti molti distributori di grandi dimensioni, come WalMart negli Stati Uniti, per fare un esempio, che usano la blockchain per controllare i prodotti e la loro qualità.

Oggi bisogna mappare le filiere anche dal punto di vista dinamico, perché una fotografia statica rischia di essere inadeguata. E ci sono soprattutto due aspetti che consentono di ridurre la vulnerabilità delle filiere su scala globale. Il primo è la conoscenza, il secondo è la sostenibilità. Se la filiera è sostenibile allora è destinata a essere più forte anche dal punto di vista economico. Questo concetto è assolutamente noto a chi investe denaro. Per esempio, i finanzieri di BlackRock, la più grande società d’investimenti del mondo, sono stati formati a puntare di più sulle filiere sostenibili, perché considerate anche più sicure dal punto di vista del ritorno. Al contrario, e per assurdo, nell’economia reale non riscontriamo altrettanta attenzione verso questo aspetto.

Poi ogni Paese deve fare i conti anche con la propria realtà, con le proprie caratteristiche geografiche e orografiche e con la disponibilità di risorse naturali. Non siamo un paese piccolo, privo di materie prime e con una vocazione all’esportazione, che ci consente di compensare certe carenze strutturali e di importare ciò di cui abbiamo bisogno. Il nostro bene primario, in questo momento, è l’acciaio. Un Paese come il nostro, che è ancora strettamente dipendente dalla disponibilità di questo materiale, non può avere i propri asset siderurgici dall’altro lato del mondo. Deve averli in prossimità delle proprie industrie. Quando si compra acciaio o, in generale, beni primari, lo si fa con piani di fornitura pluriennali, che garantiscono approvvigionamento continuo e stabilità di prezzo. Per l’Italia, quindi, diventa strategico avere sul proprio territorio un’industria siderurgica, che tenga al sicuro la fornitura da situazioni di incertezza, di volta in volta variabili, come una pandemia, una guerra o situazioni di instabilità politica.

Serve capacità di previsione sul lungo termine, quindi, cosa di cui i nostri ultimi politici non paiono dotati, concentrati come sono sull’immediato. Qual è la sua opinione al riguardo?

Le politiche con un respiro inferiore ai trent’anni non solo sono inefficaci, ma sono dispendiose e dannose. Oggi un politico che non è in grado di comprendere i megatrend in corso nel pianeta e nel proprio paese non può che fare danni. Abbiamo tre grandi transizioni in corso, quella climatica-ambientale, quella demografica e quella digitale, e dovremmo cercare di incorporare anche le riflessioni fatte altrove su questi temi nel nostro progetto di sviluppo. Per esempio, uno dei paesi più capaci di ragionare sul lungo periodo è il Giappone, dove già si parla di società civile 5.0. In Giappone la struttura demografica è molto simile a quella italiana, destinata a raddoppiare i propri anziani nei prossimi decenni. Nel lungo periodo il paese sta pensando a come rinnovare società e lavoro grazie alle nuove tecnologie per prolungare il periodo di attività e di partecipazione sociale e lavorativa delle persone. Si tratta di uno sforzo per dare agli anziani un ruolo attivo, e non più passivo, nella società del futuro, includendoli sempre di più nella vita del paese. Questa riflessione è fondamentale, perché implica anche un utilizzo intensivo della robotica e di altre tecnologie abilitanti, a fianco delle conquiste in campo biomedico e farmaceutico. Lavori in cui le macchine riducono i carichi di lavoro e le esposizioni a sostanze nocive consentono di prolungare la speranza di vita delle persone. Ecco allora che diventa fondamentale anche ricostruire e ripensare i sistemi di welfare secondo una prospettiva di lungo termine.

Per contro, noi in Italia abbiamo i ragazzi che, prima di tutti gli altri in Europa lasciano la scuola, ma che paradossalmente iniziano il lavoro stabile più tardi degli altri e, quando ciò avviene, interrompono completamente il rapporto con la scuola e l’istruzione. Per questo noi insistiamo sul diritto soggettivo alla formazione, sintetizzato dalla formula L3, cioè “Long Life Learning”, apprendimento protratto per tutta la vita lavorativa.

L’Italia deve spostare più avanti l’orizzonte delle riflessioni e delle decisioni, mentre invece vediamo che la politica spesso si risolve in un “battutificio” quotidiano. Se poi ci troveremo a mal partito ci sarà senz’altro qualcuno pronto a incolpare la digitalizzazione. Ma nella realtà la responsabilità sarà esclusivamente imputabile alla nostra inerzia.

Forse questa difficoltà a guardare lontano è motivata anche dal fatto che nel mondo occidentale sono venuti a mancare grandi punti di riferimento, come possono essere stati gli Stati Uniti d’America per un lungo periodo. Che cosa pensa al riguardo?

Da neoindustrialista per me è un’amara soddisfazione vedere quanto sta accadendo oggi negli Stati Uniti. Oggi il Covid-19 sta ridisegnando la classifica delle imprese trainanti del mondo, collocando in testa i grandi colossi digitali e facendo slittare sempre più indietro l’importanza dell’industria manifatturiera. Serve la sua evoluzione green and digital, non la sua contrazione. Altrimenti, a mio parere, questo processo si tradurrà in un colpo molto forte per l’economia reale, soprattutto in paesi come gli Stati Uniti, dove i processi di innovazione tecnologica non sono stati così rapidi come in Europa o in Italia. Visitando vari impianti industriali negli USA, soprattutto nel settore automotive, mi sono reso conto di come quelle imprese, che comunque oggi stanno investendo molto in tecnologia, siano molto indietro rispetto alle nostre. La grande capacità innovativa degli Stati Uniti è affidata a pochi luoghi, come la California, per esempio, o a grandi città come New York. Ma se oggi guardiamo alle imprese californiane vediamo come non si trovino nella fase più florida.

Ora, la politica che punta a chiudere il Paese verso l’esterno e a produrre tutto all’interno non sta portando risultati, né dal punto di vista economico né da quello sociale. Abbiamo visto negli USA persone perdere il lavoro e la casa e dormire nei parcheggi. Di fronte a dinamiche di questo tipo emerge la forza dell’Europa, intesa come territorio in cui la sostenibilità e i legami sociali non hanno soltanto un valore per le persone, ma sono anche la base della forza economica. Un continente dotato di coesione sociale, di legami solidali più forti è un territorio dove si è anche più protetti dalla povertà. Dove esistono questi ecosistemi, come li ho definiti, anche le novità della digitalizzazione e dell’innovazione attecchiscono con più forza e con meno diffidenza.

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