Sonnino e il suo tempo (1914-1922) (Nuova Antologia)

di Gabriele Paolini, del 8 Maggio 2014

dalla Nuova Antologia dell’8 Maggio

Alla vigilia del centenario del primo conflitto mondiale, la lettura di questo volume di Atti sul convegno «Sonnino e il suo tempo» (tenutosi a Montespertoli e Firenze nel maggio 2008), curato da Pier Luigi Ballini, è quanto mai opportuna per un ripensamento pacato, scientificamente fondato e una volta tanto preventivo di quell’evento epocale, prima cioè della ricorrenza stessa. La figura dell’arcigno ministro degli Esteri italiano è infatti cruciale quante altre mai per le decisioni che portarono il nostro Paese in guerra, per la gestione del conflitto e per la tempestosa conferenza di pace che ne seguì: nel testo, la sua opera è esaminata in varie sfaccettature e momenti, di cui in questa sede si può dare solo una parziale panoramica. Nella relazione introduttiva Pietro Pastorelli sottolinea due aspetti a prima vista minori ma importantissimi per capire il personaggio. Nel 1866 un giovanissimo Sonnino, appena entrato in diplomazia, assiste da Firenze capitale a quella che può essere chiamata la prima guerra per il completamento dell’unità nazionale; pochi anni dopo vede la seconda, con la breccia di Porta Pia. La terza è il conflitto iniziato nel 1915. Potrebbe sembrare una provocazione, ma in realtà ci dice molto e spiega tante cose della sua gestione degli Esteri ritenuta eccessivamente dura, accentratrice e superata, ma alimentata da un culto autentico dell’eredità risorgimentale. Così come un particolare evidente ma trascurato ci restituisce, quasi fisicamente, la peculiarità e i motivi della conduzione della politica estera italiana. È il fatto che la sede del Ministero fosse allora al Palazzo della Consulta, non a caso o perché particolarmente bello, ma in quanto vicinissimo (anzi nelle adiacenze) al Quirinale, residenza del Re: a rimarcare come la politica estera e la condotta del suo titolare fosse un domaine réservé sottratto in buona parte alla prassi parlamentare, il che spiega pure la gestione ristrettissima del patto di Londra e il modo scelto per portare in guerra l’Italia.

Il rapporto tra politica interna ed estera, inquadrato nella più ampia concezione sonniniana di governo, è ricostruito da Rolando Nieri, che sottolinea come fosse imperniato sulla valorizzazione della Monarchia costituzionale vista quale fondamento e presidio di un regime liberale che evolveva verso esiti democratici ma da cui scaturiva anche la forza per le questioni internazionali. Contigua è l’indagine di Maria Marcella Rizzo, che offre un significativo parallelo formativo, caratteriale e politico fra Salandra e Sonnino, rilevandone affinità e divergenze all’insegna di quella che può essere chiamata una certa parabola del liberalismo italiano. Ludovica de Courten fornisce un’interessante carrellata di giudizi coevi su Sonnino, dai quali ben traspare l’isolamento (e spesso l’incomprensione) del personaggio, dantescamente a Dio spiacente e a’ nemici sui, fossero giolittiani, cattolici, socialisti o interventisti democratici, ma anche conservatori alla Albertini (almeno nell’ultima fase della guerra), nazionalisti e imperialisti di varia natura e tendenze. I rapporti con la Triplice Intesa vengono ripercorsi da Luca Riccardi, l’autore dell’ormai classico volume (1992) Alleati non amici, che nel titolo condensa bene quale fosse la posizione dell’Italia in guerra, almeno fino a Caporetto: ossia di una gestione separata e distinta del conflitto, tutto proteso alla lotta contro l’Austria, senza condividere gli obiettivi degli altri contraenti, volti principalmente alla distruzione della potenza del Reich guglielmino (cui del resto solo a metà del 1916 venne dichiarata guerra dal governo di Roma). Riccardi tuttavia dimostra bene come, specie nel caso di Sonnino, il giudizio in realtà vada più sfumato e che su questo punto non mancarono contrasti accesi con Salandra. Agli occhi di Londra e Parigi Sonnino era comunque – e soprattutto lo diventò nel corso del conflitto – l’uomo degli Alleati, colui che poteva garantire la fedeltà dei cangianti governi italiani agli indirizzi dell’Intesa. Elio D’Auria, in un lungo e minuzioso saggio, tratta dell’atteggiamento del barone di fronte alla questione adriatica rilevando come fin dai giorni precedenti le trattative per il Patto di Londra non si nascondesse che le difficoltà a collaborare con l’Intesa fossero dovute proprio alla grande fluidità della situazione in Adriatico dove operavano una pluralità di attori e fattori, dai serbi ai croati, dalle popolazioni italiane delle città lungo la costa all’ingombrante influenza dei russi, per non parlare di quello che sarebbe potuto restare o meno dell’Impero asburgico dopo l’auspicata vittoria. L’ostinazione a tener fermo ad ogni costo il patto di Londra, con tutta una serie di conseguenze sulla politica interna ed estera, si spiega meglio tenendo presente questo dato e quello di non voler riconoscere a guerra finita agli slavi del Sud il ruolo di controparte nella definizione dei confini. Laura Brazzo ricostruisce l’atteggiamento del titolare della Consulta di fronte alla Palestina, aspetto prima marginalissimo ma che finì per suscitare interesse dopo l’amara scoperta degli accordi Sykes-Picot sulla spartizione dell’Asia Minore.

Il tentativo, in larghissima parte fallito, di ritagliare per l’Italia un ruolo nella regione, fu perseguito cercando di inserirsi nella gestione dei Luoghi Santi, oscillando ora sull’internazionalizzazione degli stessi, ora sulla forte componente italiana della Custodia cattolica, ora su certi buoni rapporti con gli ebrei sefarditi d’Egitto, visti come alternativa al progetto sionista egemonizzato da Inghilterra e Francia. I giudizi spesso tranchant e comunque mai favorevoli dei circoli dirigenti degli Stati Uniti sono illustrati da Daniela Rossini: essi avvenivano all’insegna di un’incomprensione profonda, che si alimentò dopo l’entrata in guerra del colosso americano anche per la continua e mai smentita diffidenza del barone toscano, consapevole che il nuovo associato potesse minacciare la completa esecuzione dell’intesa londinese. D’altra parte sarebbe difficile trovare due personaggi più antitetici, a livello di concezione e gestione della politica estera, di Wilson e Sonnino, separati a questo proposito da un abisso ideale e di mentalità, che rispecchiava pure un divario fra i due popoli: l’italiano, ancora affacciato alle soglie della modernità e con rilevanti squilibri economico-sociali, e quello d’Oltreoceano, dal potenziale enorme e già rivelato, entrato prima e più di tutti gli altri nella dimensione della società di massa, con ricadute forti nello stesso modo di intendere la sfera delle relazioni internazionali. Alla fine non era sbagliato il giudizio dell’ambasciatore italiano a Londra, Imperiali, secondo cui Wilson non poteva soffrire Sonnino perché lo considerava un bieco imperialista: il barone non lo era, ma spesso faceva di tutto per sembrarlo. Gli eventi del 1917, dalla rivoluzione di febbraio all’intervento americano, da Caporetto all’avvento dei bolscevichi, alterarono profondamente il suo quadro di riferimento. Si può convenire che egli fece poco per adeguarsi alle nuove condizioni ormai prevalenti sul piano internazionale e fra i popoli stessi. Ecco allora apparire quasi logico, come spiega nel suo testo Italo Garzia, l’isolamento fisico e non soltanto diplomatico di Sonnino alla conferenza di Versailles, quando rifiutò o non riuscì a manovrare dietro le quinte di quell’assise di pace che segnò la sua fine politica. Altri ancora sono gli elementi d’interesse rappresentati dai contributi del volume: Emanuela Minuto offre una panoramica dell’immagine di Sonnino presso la pubblicistica di Inghilterra, Francia e Stati Uniti; Aldo Giovanni Ricci elenca la documentazione relativa al personaggio conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato; Fabio Grassi Orsini sottolinea importanza di una fonte come il diario di Guglielmo Imperiali; Paola Carlucci segue l’ultimo Sonnino, amareggiato, scontento e solo, che trova un parziale conforto nell’amato Dante; Antonio Cardini infine si sofferma sugli ultimi mesi di vita e sul suo atteggiamento di fronte alla crisi definitiva dello Stato liberale. Insomma, un quadro ricco e prezioso per capire meglio Sonnino nel suo tempo e il percorso – forse non condivisibile ma certo meditato e sincero – delle sue scelte, che tanto peso ebbero su milioni di italiani.

di Gabriele Paolini

Clicca qui per acquistare il libro al 15% di sconto

Altre Rassegne