Magna Grecia dello Stretto (Centonove)

di Felice Irrera, del 29 Gennaio 2015

Da Centonove del 29 gennaio

“Ora tenterò di dire/qualche sillaba in altra lingua/che porto nel sangue,/la lingua che dà alla mia anima/un senso lontano della voce/degli antichissimi miei padri ellenici./Per provare una sensazione nuova/della parola e del canto,/per ritrovare/un sapore di perdute sorgive./Così sentirò più vicina la voce/della mia anima antica”.
Così scrive Felice Mastroianni (1914-82), poeta di Platania (Catanzaro), appartenente perciò a quella grande patria che fu la Magna Grecia, nella riedizione (Rubbettino Editore, 2014, pp. 301, ¬ 15,00), dell’ormai introvabile volumetto con testi in greco moderno e traduzione italiana a fronte “Trilogia ellenica. Poesie scritte in greco moderno e tradotte in italiano dallo stesso autore”, già uscito postumo nel 1983 ad Atene, comprendente tre singole raccolte, anch’esse pubblicate nella capitale greca (“Quaderno d’un’estate”, 1975, “Primavera” 1977, “La favola di Eutichio”, 1982) con unanime consenso della critica greca e italiana, che ne hanno esaltato insieme modernità e classicità, convinzione e non sovrastruttura. Come sottolinea Daniele Macris nella presentazione, si tratta di un “esempio importante di recupero e ridefinizione identitaria in una regione, come la Calabria, in cui la grecità è nel dna”. L’autore, che ebbe come maestro al “Galluppi” di Catanzaro il sommo umanista e poeta latino Giuseppe Morabito, insegnò a lungo lettere classiche nei licei. Il centro della sua ispirazione è proprio il paese d’origine ed è da lì che egli parte per giungere poi, nella piena maturità, alla svolta nella poesia neogreca:
“Questo mio paese ove son nato,/ che prese nome dai platani,/il paese del cuore mio,/dei miei morti,/della mia speranza,/dove potrò un giorno/finalmente dormire per sempre/sopra la collina che guarda al mare./Questo mio paese di platani/è come un albero dispogliato d’uomini/che sono fuggiti lontano/col loro dolore./Ma ai davanzali ancora/hanno i gerani e i garofani/il dolce mesto sorriso/di chi attende/ombre care/che torneranno/un mattino di sole e di rondini” (“Platania”, in “Quaderno d’un’estate”). È così che la nostalgia del poeta per il mondo primigenio, per gli aspetti minuti della natura, evocati con letterarietà pascoliana e rigore classico, si concluderà proprio nella lingua greca, che scopre come quella della sua anima. Nella seconda raccolta, “Primavera” il tema dei ricordi è filtrato dalla nostalgia con delicata malinconia: “I vecchi di tante nostre generazioni/sedevano sotto questi platani/e avevano un portamento/di saggi antichi./La loro saggezza era la pazienza/e l’umiltà./Sapevano leggere il gran libro/della terra e del cielo./Sorridevano al miracolo dei germogli/come bambini”
(“Il senso dell’eterno”). La terza silloge costituisce (nota ancora Macris) una svolta in senso esistenziale: più presente è il motivo dell’esilio “con cui Mastroianni sente di aver attraversato il suo tempo”: anche i”Bronzi di Riace” rimpiangono il mondo di un tempo: “Nei vostri occhi la malinconia/d’un mondo perduto./Noi, piccoli uomini d’oggi,/esuli, sempre più esuli/dalle primigenie e pure sorgenti della vita,/vi guardiamo, incantati…”.
Nell’introduzione al libro (risalente agli anni Ottanta dello scorso secolo), Vincenzo Mascaro individua come centri focali di tutta la poesia neogreca di Mastroianni “il sentimento altissimo dell’amicizia, l’amore, la morte, la precarietà delle vicende umane, la fede religiosa, il paesaggio della sua terra e, non ultima, la passione viscerale per la Grecia antica e nuova”, notando che nella sua ispirazione di sapore classico sono presenti le problematiche della vita odierna con le sue angosce e contraddizioni, mentre è assente ogni “mitismo ed eroismo”, in quanto lo spirito del poeta è antieroico. La dolcezza e la limpidezza dei versi puntano, invece, sulla rimembranza e sul tono elegiaco e la pensosa malinconia alla fine si trasforma in tristezza e angoscia. Delle prefazioni a ciascuna raccolta si occupa Febo Delfi. A proposito di “Quaderno d’un’estate”, scrive di una “poesia limpida ed eterea d’ape o farfalla sul fiore ellenico”; su “Primavera” di “sincerità e semplicità dell’anima”, nessun “cerebralismo” o “innaturalezza”, “sostanza metafisica con tendenza lirico-drammatica”; mentre in “La favola di Eutichio” l’autore mostra le sue radici nei lirici greci arcaici. Raramente si ha la possibilità di gustare vera poesia: questo è, appunto, uno di quei casi.

di Felice Irrera

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