I Germanesi. Storia e vita di una comunità della Calabria e dei suoi emigranti di Carmine Abate e Meike Behrmann (SaltinAria.it)

di Ilaria Guidantoni, del 8 Giugno 2015

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Un libro di grande attualità e un monito all’Italia per ricordare la sua storia di emigrazione ora che è diventata principalmente terra di immigrazione. Ma il vento potrebbe cambiare di nuovo e questo libro documento critico non a tesi offre ottimi e complessi spunti di riflessione. Un saggio che ha il gusto della narrazione e la penna letteraria dello scrittore calabrese, emigrato ed emigrante nel cuore, con un singolare punto di vista: un piccolo paese, una comunità singolare, un’analisi non statica, né dalla parte degli altri, dei tedeschi; un vissuto in presa diretta che cambia nel tempo, sia al maschile sia al femminile, grazie anche al contributo della sociologa tedesca coautrice del libro. L’emigrazione è oggi uno dei grandi temi analizzato in modo originale e assolutamente contemporaneo dallo scrittore calabrese, poeta e romanziere, che ha tenuto nel cuore questo problema come racconta in alcuni suoi versi, per altro autobiografico tanto che in alcune occasioni ha dichiarato di aver cominciato a scrivere in parte proprio perché migrante. Suo padre partì quando Carmine aveva quattro anni per la Francia con un contratto da minatore per tornare e poi ripartire per la Germania dove di fatto ha passato la sua vita. E’ proprio la condizione nelle miniere che conosce bene e che viene analizzata più nel dettaglio in quest’opera, per i suoi risvolti amari. E’ importante però dire che non si tratta di un libro “triste”. L’emigrazione è una condizione e non è aprioristicamente né brutta né bella, piuttosto è stata vissuta in modo diverso a seconda delle stagioni. L’autore è a sua volta emigrato al seguito e per volontà del padre che vuole che impari come ci si guadagna il pane e sarà ad Amburgo, a Berlino, a Colonia dove insegna per sette anni italiano ai figli degli immigrati, ma anche in Francia dove studia. L’altro punto di vista, come accennato, è quello della sociologa Meike Behrmann, importante non solo per l’angolatura e l’approfondimento con una connotazione complementare, di analisi sociale appunto, oltre che autobiografica e di stile letterario-giornalistico, ma in quanto prospettiva femminile: questo ha permesso all’autrice di entrare in contatto più intimo con il mondo delle donne e con uno sguardo più diretto su dinamiche caratterizzanti e differenti da quelle dell’emigrazione maschile.
Il focus del libro è il paese di Carfizzi dell’alto Crotonese a metà strada tra la piana striscia della costiera jonica e la Sila, dove vive una comunità particolare, forse la più importante minoranza italiana, quella degli arbërëshe, discendenti dagli albanesi in fuga dalla dominazione turca che dal XV secolo varcarono l’Adriatico. Si tratta di una comunità molto legata alle proprie tradizioni storiche e di costume. I Germanesi sono gli abitanti di Carfizzi che per lo più sono andati nella Germania Federale.
La descrizione della comunità locale ben evidenzia la tipica cultura rurale dell’entroterra delle piccole comunità del sud del Mediterraneo dove esiste un controllo sociale molto forte e vincolante dal quale dipende l’onore della famiglia difeso dagli uomini e assicurato dalle donne, che fin da piccole vengono limitate nella loro libertà e votate alla famiglia e al matrimonio. Quasi sempre occupate all’interno della casa, raramente svolgono mestieri di servizio o di supporto agricolo, spesso sottopagate o senza un vero e proprio salario. Questa rigida divisione degli spazi e ruoli privati si ripropone anche in pubblico: la piazza, il bar sono spazi ricreativi maschili mentre la chiesa e la casa femminili. Interessante l’analisi dell’evoluzione che trasforma questa comunità nelle sue abitudini una volta emigrata quando le donne cominciano a lavorare fuori casa e dunque ad emanciparsi, soprattutto quelle di seconda generazione. Tradizionalmente il paese di Carfizzi è dominato dal latifondo, dal potere politico concentrato nella proprietà terriera e quindi anche economica, sebbene gradualmente con la riforma agricoli tutto cominci a scricchiolare; non necessariamente a migliorare.
Una prima ondata migratoria parte a fine Ottocento e poi nel primo Novecento, con un rallentamento fisiologico durante il Fascismo – negli anni Venti l’emigrazione è quasi esclusivamente indirizzata all’Argentina – e subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. E’ sul finire degli anni Cinquanta e Sessanta che il fenomeno diventa massiccio e centrale anche nell’immaginario. Nel tempo si trasforma il concetto, dalla necessità amara che fa partire solo per brevi periodi i maschi della famiglia, molti verso l’America dove vengono soprannominati mericani; all’idea romantica dell’emigrazione che unisce almeno i coniugi se non anche i figli in questo destino; fino all’assunto che l’emigrazione sia un’opportunità non perché al paese non si riesca a sopravvivere, quanto perché si desidera migliorare il proprio reddito, la propria condizione, financo fare nuove esperienze e conoscenze. Con la fine degli anni Cinquanta il fenomeno diventa considerevole: i primi a partire sono diretti nelle miniere francesi e poi le aziende tedesche cominciano a richiederne la manodopera. Se i vecchi lavorano una vita per tornare e costruirsi la casa al paese o migliorare, restaurare quella esistente, i giovani non tornano se non per trovare la famiglia perché il paese è diventato per loro estraneo e spesso una gabbia soffocante dove la vita parentale ritma l’esistenza con rigidi rituali, in particolare il fidanzamento, il matrimonio e la gestione dei bambini.
Non si lavora più per accumulare e quindi avere, potendo esibire al ritorno al paese il proprio status sociale, ma per spendere al fine di godere quello che il paese calabrese non può offrire. L’emigrazione non è più ammantata dall’illusione di un eden ma fa parte della vita di tutti i giorni nella quale ciascuno si impegna e cerca di goderne i frutti.
Un aspetto molto interessante del libro è il parallelismo e l’intreccio tra l’evoluzione della comunità in Germania e a Carfizzi dove con l’avvento della Repubblica domina il Partito comunista, presto conteso nel posto di comando dal Partito socialista e insieme dall’avanzata della Democrazia cristiana, originariamente considerata il partito degli “agiati” in contrapposizione a quello dei poveri. Insieme all’evoluzione politica cambia l’economia: cresce la dipendenza dall’amministrazione pubblica, dalla scuola e dalla piccola industria, in particolare dall’edilizia mentre si riduce l’artigianato. Comincia inoltre l’allargamento e il rifacimento urbanistico del villaggio che evidenzia l’evoluzione del gusto, all’esterno e all’interno delle case nelle nuove generazioni. Molte case vengono invece abbandonate e ristrutturate solo per farne case di vacanza. Gradualmente i rapporti tradizionali di vicinato, che nel mio immaginario ricordano la twiza berbera del Nord Africa, si allentano e le porte di casa restano chiuse perché le persone anche se e quando rientrano al paese, si portano dietro il proprio vissuto che ormai parla tedesco e pensa tedesco. In tal senso anche l’istruzione della strada e la corresponsabilità verso i bambini si attenuano sia nelle forme – l’affettuosità è meno manifesta – sia nella sostanza.

Di Ilaria Guidantoni

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