Storia illustrata di Cosa nostra. Dai “Beati Paoli” ai giorni nostri (Il Quotidiano)

del 21 Febbraio 2012

Da Il Quotidiano – 19 febbraio 2012
In assenza dello Stato
Enzo Ciconte e Francesco Forgione li conoscono tutti. Così come tutti conoscono la loro vita di appassionati studiosi dei fenomeni criminali e i loro tanti libri. Volumi che hanno formato, e stanno ancora formando, alcune generazioni di altri studiosi, di giornalisti, docenti, investigatori e quanti, per lavoro o cultura personale, decidono di affrontare il tema complesso delle mafie in Italia e non solo. Questo loro ultimo lavoro “Storia illustrata di Cosa nostra – Storia della mafia siciliana dal mito dei Beati Paoli ai giorni nostri” (edito da Rubbettino, in uscita il 23 febbraio), è la straordinaria sintesi di 4 secoli di vicende che spiegano un ciclo completo della vita della Mafia. Sfogliando le bellissime tavole nate dalle matite di Enzo Patti, ci si rende conto di come il cerchio si sia sostanzialmente chiuso.

E come, proprio in questo momento storico, sia necessario affrontare il tema delle molte (troppe) interessenze criminali, sapendo che, quantomeno in Italia, siamo a un bivio. Uno snodo fondamentale, nel quale la società, forse ancor prima di chi la governa, ha il dovere quantomeno di segnare una linea netta di demarcazione tra lo Stato e l’Antistato. I Beati Paoli raccontati nel libro di Ciconte e Forgione, nascono in una terra, la Sicilia, in cui lo Stato è di fatto assente. È sempre la stessa storia. Di fronte ad un vuoto lasciato tale da “istituzioni” legali, quelle illegali lo occupano esercitando il loro potere. La “setta” amministra giustizia, o meglio la sua giustizia, e il popolo in assenza di altre giustizie è costretto (per imposizione o limiti culturali) a riconoscerla. I “Beati Paoli” in fondo non erano altro che quello lo Stato colpevolmente assente, a cui la gente si rivolgeva per mancanza di interlocutori. E in assenza di regole, valgono le uniche esistenti. E se le regole mafiose pure non piacciono, il popolo se le fa piacere, sia pure solo per mancanza di altre. Dai Beati Paoli in poi, c’è il racconto meravigliosamente disegnato e spiegato, di alcuni secoli di storia siciliana e italiana. È una lunga e complessa fase che porterà fino ai giorni nostri. Sono gli anni in cui i due poteri Stato ed Antistato, si confrontano. Forse mai fronteggiandosi veramente e stando bene attenti a non affondare mai il colpo. Un gioco di equilibri, di scambi, di ammiccamenti, di affari, di interessi comuni, nel corso del quale lo Stato, solo qualche volta si affaccia tra la gente. Si fa vedere lasciando intendere che c’è, ma mai affermando davvero la sua presenza. Così nascono due codici. Quello mafioso e quello dello Stato.

Due codici che collidono, certo. Ma che saranno superati definitivamente dagli anni ‘70 in poi. Quando i “Beati Paoli” diventano “Cosa nostra”, trasformandosi nuovamente in Stato, per assenza dello Stato stesso. Chi si oppone sul piano culturale e politico viene eliminato. Cadono così Pio La Torre, Peppino Impastato, Carlo Alberto dalla Chiesa, Libero Grasso, Rostagno, Falcone, Borsellino e tanti altri. Uomini e donne che credevano di essere società e Stato, in una Paese in cui lo Stato, quello che esercitava potere reale, era un altro. Era la mafia che affondava il colpo. A cui lo Stato decide di rispondere per proteggere se stesso, come con i “Beati Paoli” nel ‘600. Il ciclo ora si è chiuso. La mafia si è di nuovo trasformata, inabissandosi. Sta alla società decidere se quel fiume carsico debba essere prosciugato prima possibile, oppure se tra qualche tempo ce lo ritroveremo nuovamente come Stato, e stavolta sarà Stato ufficiale.

 
A seguire pubblichiamo un breve stralcio della prefazione al libro a cura del procuratore nazionale antimanfia Piero Grasso

Questo stupendo volume Storia illustrata di Cosa nostra. La mafia siciliana dal mito dei Beati Paoli ai giorni nostri, partendo dalla leggenda (riesumata dagli studiosi e resa famosa da Roberto Saviano nella trasmissione di Fabio Fazio Vieni via con me) dei tre cavalieri spagnoli fondatori delle tre mafie: Osso, rimasto in Sicilia per fondare Cosa nostra, Mastrosso, trasferitosi dalle grotte di Favignana verso i boschi dell’Aspromonte per costituire la ‘ndrangheta e Carcagnosso, spintosi fino a Napoli per dare vita alla camorra, si sofferma, per stratificazioni successive, sulla successiva leggenda dell’origine della mafia siciliana dalla mitica setta dei Beati Paoli. Le meravigliose tavole di Enzo Patti, pittore di Favignana, e il saggio del professore Enzo Ciconte e del giornalista ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, Francesco Forgione, offrono una carrellata di storie ed immagini suggestive, una lettura intrigante e avvincente della storia di Cosa nostra, avvolta nel mistero delle sue origini, ma estremamente realistica quando passa in rassegna i delitti e gli eventi più significativi, patrimonio inesauribile di intimidazione e violenza della mafia siciliana. Il libro diventa un’occasione per riflettere su quel che è stata la più terribile emergenza criminale del Paese, con una sequela di omicidi e di stragi, dal 1979 al 1993, assolutamente impensabile per un Paese del mondo occidentale che si definisca civile, fino alla cattura, dopo anni di repressione, di pentiti, di condanne, di carcere al 41bis, dell’ultimo dei «Corleonesi» Bernardo Provenzano. Il tema del libro mi ha fatto rivivere emozioni sepolte nella memoria, risalenti a quando, da ragazzo, tra i polverosi libri di mio nonno scoprii un centinaio di dispense rilegate in «marocchino», che incominciai dapprima a sfogliare per curiosità e per vedere le illustrazioni, ma che appena cominciai a leggere non potei più abbandonare. E oggi la presbiopia della memoria mi ha fatto tornare in mente l’avvincente storia dei Beati Paoli ed i suoi personaggi: il Duca della Motta e le sue iniquità, lo sgherro al suo servizio Matteo Lo Vecchio, il cavaliere Blasco da Castiglione, valoroso e coraggioso spadaccino e i suoi contrastati amori con Donna Gabriella e Violante, moglie e figlia del Duca, don Girolamo Ammirata, affiliato ai Beati Paoli e il suo capo, Coriolano della Floresta, che lotta per vedere riconosciuti i diritti di due figli del fratello (uno legittimo e l’altro naturale) del vero Duca della Motta deceduto, di cui lo zio malvagio ha usurpato beni e titoli. Coriolano è il vertice insospettabile della società segreta dei Beati Paoli, che, dotata di rituali di iniziazione, amministra una giustizia inflessibile, rigorosa e incorruttibile, per vendicare gli innumerevoli soprusi subiti dalla povera gente da parte dei ricchi e dei potenti, protetti da autorità corrotte che applicano iniquamente le leggi (…)

Pubblichiamo un breve estratto dal primo capitolo del libro a cura di Enzo Ciconte e Francesco Forgione edito da Rubbettino

Tra passato e presente, dalla leggenda alla realtà

Da quasi due secoli in Italia e nel mondo la storia di Cosa Nostra è la storia della mafia. Questa storia, se dobbiamo dar credito a un’antica leggenda ha la sua origine nell’isola della Favignana dove Osso, Mastrosso, Carcagnosso, i mitici cavalieri spagnoli appartenuti alla società segreta della Garduña, dopo una lunga permanenza nelle grotte dell’isola, hanno fondato attorno alla metà del 1400 le regole sociali della mafia, della ’ndrangheta e della camorra. I tre cavalieri sono figure mitiche, che popolano il mondo magico e intrigante delle leggende. Appartengono alla vasta galleria della mitologia mafiosa, in questo caso della ’ndrangheta calabrese. È questo il loro universo, e non c’è nessun appiglio – neanche il più piccolo – per dire che essi abbiano avuto un’esistenza reale. Se dall’isola della Favignana ci spostiamo in Sicilia, le cose cambiano, e di molto! Qui è fiorita in tempi diversi la storia, o leggenda che dir si voglia, dei Beati Paoli, a metà strada tra fantasia e realtà, tra mito e quotidianità storica, tra invenzione e fatti realmente accaduti, sicché –è bene dirlo sin da adesso – la loro esistenza storica non è per niente accertata, anche se sono molti coloro che sono fermamente convinti che siano veramente vissuti. C’è stata, e c’è ancora, una dotta discussione, riepilogata da Francesco Renda, su origini, natura e funzione per un lungo periodo storico di un simile racconto leggendario. La storia è nota, e ridotta all’essenziale racconta di una setta segreta che era solita riunirsi nei sotterranei di Palermo, per giudicare – con giudizio inappellabile – e poi punire i colpevoli che le leggi o i favori dei potenti lasciavano impuniti. Gabriele Quattromani, ufficiale borbonico che prestava servizio in Sicilia, in una lettera del18 ottobre1835, così riassumeva la funzione di questi giudici speciali: «A loro ricorrevano gli oppressi e gli oppressori sparian dalla terra, per essi spegnevasi l’adultero marito, il malvagio magistrato, il sacerdote scandaloso, e guai a colui contro cui era pronunziata da ’beati paoli sentenza capitale». In poche righe sono riassunti tutti gli ingredienti che ne avrebbero decretato il successo: le riunioni segrete, in luoghi misteriosi come lo possono essere sotterranei, grotte, cunicoli, anfratti, antri oscuri; sentenze inappellabili che prevedevano la cancellazione dalla faccia della terra dei trasgressori fossero essi oppressori, mariti infedeli, o magistrati malvagi, e dunque ingiusti, o qualche prete scandaloso. Famiglia, giustizia, clero; i punti cardine. Sangue e vendetta; ingredienti popolari, anzi popolarissimi e riparazione dei torti assicurata. U natale rappresentazione ha un debito culturale con i tribunali segreti della Germania medievale, i tribunali della Santa Fema esistiti tra il XIII e il XVIII secolo, il cui funzionamento aveva assicurato libertà e giustizia nelle città libere della Germania dell’epoca, cioè quelle non soggette alla signoria feudale che erano sottoposte a un altro tipo di giurisdizione che – è sicuro – non assicurava imparzialità e giustizia. Erano tanto importanti e popolari che persino Goethe in un suo dramma ha dedicato un’intera scena a una seduta della Fema che si apre con un giuramento «sulla corda e sulla spada»; solo dopo il giuramento i giudici iniziavano l’attività di giustizieri. I masnadieri di Schiller, dramma di grande successo ottenuto perle imprese del protagonista Carlo Moor, il ribelle alle leggi costituite che si rivolta in nome della giustizia, contribuisce ad alimentare il mito d’una giustizia che diventa giusta ed efficace solo al di fuori delle sedi legali e ufficiali. Nella stessa Inghilterra nel pieno della rivoluzione industriale e dei processi di organizzazione dei lavoratori cresceva la prassi extralegale di farsi giustizia da sé. C’è una fascinazione, dunque, che proviene dalla cultura alta per una giustizia diversa, altra, alternativa rispetto a quella ufficiale che evidentemente mostrava serie difficoltà ad assicurare giustizia amministrandola in modo legale, equo ed imparziale. Nessuna meraviglia, allora, se questo fascinosi sedimenta e poi dilaga anche nella cultura popolare e affolla racconti orali, aneddoti o romanzi di straordinario successo come quello di Luigi Natoli che con lo pseudonimo di William Galt e con il titolo I Beati Paoli, pubblica in appendice al «Giornale di Sicilia» in 239 puntate dal 6 maggio 1909 al 2 gennaio 1910uno scritto molto lungo, centinaia e centinaia di pagine. L’edizione della Flaccovio del 2003 con un saggio introduttivo di Umberto Eco e note storiche di Rosario La Duca è di ben 756 pagine. È difficile fare un calcolo delle persone che da allora a oggi – esattamente un secolo – hanno letto il romanzo che Umberto Eco ha convintamente iscritto nella categoria del romanzo popolare. L’interminabile saga dei giustizieri palermitani proietta i lettori in un modo fantastico sin dalle prime parole: «La sera del 12 gennaio 1698, due ore prima dell’Avemaria, la piazza del Palazzo Reale di Palermo si empiva di una folla immensa, ondeggiante, varia, che si accalcava dietro le file della fanteria spagnola, schierata tra i due bastioni costruiti dal cardinale Trivulzio e il monumento di re Filippo V». Che sia esistita davvero o no la setta dei vendicatori di Palermo, è certo però che sul finire del Settecento con l’aristocratico Marchese di Villabianca c’è la consacrazione nella cultura alta siciliana del racconto popolare dei Beati Paoli. Ne scrive nei suoi Opuscoli palermitani e da allora in poi la leggenda dei Beati Paoli fa il suon ingresso nelle discussioni e nell’immaginario dei ceti colti dell’isola.

Alla base di tutto, secondo il nostro marchese che era convinto della reale esistenza dei Beati Paoli, c’è il fatto che «il sgherrismo e il valentismo era bastantemente coltivato dalle persone potenti e dai nostri baroni di regno. Le persone mezzane quindi e basse, non potendo fare tal spese di mantenere sicari, si portavano il vanto col procedere empiamente da per se stessi colle loro mani». Dunque, in alto e in basso, una sfiducia totale verso la giustizia ufficiale e il ricorso a una giustizia privata, amministrata in funzione della difesa di interessi particolari, sia dei ceti elevati sia degli altri ceti meno fortunati che facevano ricorso a dei sicari. Entrambi, in ogni caso, ricorrevano alla violenza come mezzo di giustizia e di riparazione dei torti, come regolazione delle controversie, come abituale modo di risolvere ciò che pacificamente non era possibile risolvere. Un costume dell’epoca insomma, non una forma deviante dei ceti subalterni o marginali della società. Sicari è termine che se va bene per il Marchese di Villabianca non va bene, come ricorda lo storico Rosario La Duca, per il popolo palermitano che ha usato, e continua ad usare, il termine di giustizieri riferendosi alle attività dei Beati Paoli (…).

Di Giuseppe Baldessarro

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