Stevenson, “Teologo cristiano senza saperlo” (uomovivo.blogspot.it)

del 5 Giugno 2012

Da uomovivo.blogspot.it – 04 giugno 2012
Il creatore di Padre Brown, il geniale estensore di Ortodossia, deve anzitutto alle sue opere di critica letteraria l’ingresso nel mondo del giornalismo e della scrittura. Ci raccontano padre Ian Ker e William Oddie, autori di recenti ed originali contributi biografici sul Nostro, che Chesterton ebbe tra le prime occasioni di svolgere il suo lavoro proprio quando una casa editrice inglese (The Bookman) gli chiese di scrivere dei brevi articoli di critica dei grandi classici della letteratura inglese, quelli che egli aveva imparato ad apprezzare dalla voce di suo padre Ed. Questi articoli finivano spesso per introdurre i classici che poi il Bookman pubblicava (le due foto che mostriamo sono testimonianza delle edizioni librarie e del periodico).
È quindi con gioia che accogliamo la pubblicazione di questo volume che ha una grande importanza dell’opera di Chesterton sia per quello che si è già detto, sia per il valore che proprio l’opera di Stevenson ebbe nella vita di GKC: egli attribuì sempre la sua rinascita, dopo la grave crisi giovanile che lo portò alle soglie del suicidio, oltre che al Libro biblico di Giobbe e ad alcune poesie di Walt Whitman, all‘Isola del Tesorodi Stevenson.

GKC nello Stevenson rende anzitutto omaggio a Stevenson stesso, definito inizialmente “un pagano altamente onorevole” (pag. 47). Con ciò torna a criticare la cultura e l’habitus mentale protestante e in particolare calvinista scozzese, che costituiva l’ambiente educativo e familiare del grande scrittore scozzese. E lo fa aspramente, considerandolo la cagione degli stessi mali fisici che afflissero per tutta la vita Stevenson. I motivi fondamentali del pensiero di Chesterton emergono spesso e ripetutamente, lo diremo ancora. In questo caso egli ripropone concetti espressi in opere come Una breve storia d’Inghilterra (anche questa nuovamente pubblicata da Rubbettino proprio in queste ultime settimane) e soprattutto nel San Tommaso d’Aquino, in cui egli equipara senza nessun tentennamento manicheismo e calvinismo.

Altro motivo, questo addirittura fondante il suo pensiero e la sua stessa vita, che emerge in quest’opera è la questione del costante stupore, che in un certo qual modo potrebbe essere la quintessenza dell’opera di Stevenson e dello stesso Chesterton. Mentre parla di Stevenson, Chesterton approfitta per stroncare l’atteggiamento falsamente realistico degli autori psicologici e delle tendenze letterarie legate ad una massima valorizzazione della psiche umana, in contrasto col concetto di azione e di avventura presente in Robert Louis Stevenson.

Definire questo volume una biografia di Stevenson è riduttivo ed in parte falso: Chesterton afferma espressamente di aver scelto di non soffermarsi sulla vita di Tusitala (era questo il nome con cui veniva chiamato dagli abitanti delle Isole Samoa dove visse gli ultimi anni della sua vita, alla ricerca della salute e della pace) perché ritiene che lo si sia fatto sin troppo e che ciò “abbia confuso il contorno netto della sua arte” (pag. 14).

Vale la pena riferire qualche passo dell’opera per comprenderne la luce intensa che getta su Stevenson ma soprattutto sul mistero della vita:

Penso che i suoi viaggi e capi da doppiare e ritorni rivelino un’idea di fondo, forse persino una dottrina. Eppure, era una dottrina in cui lui stesso forse non credeva, o in ogni caso in cui non credeva di credere. In altre parole, penso che la sua importanza sarà più evidente in relazione a problemi più ampi, che tornano ora a fare capolino alla mente degli uomini; problemi che al nostro tempo sono ancora abbastanza sconosciuti alla maggior parte delle persone e che al tempo di Stevenson erano totalmente ignoti (…). Perché Stevenson aveva l’onestà splendida e squillante di testimoniare, con una voce simile a una tromba a favore di una verità che lui stesso non comprendeva” (pagg. 23 – 24).

Chesterton sostiene poi che non c’è nulla di più errato che considerare Stevenson l’ombra di Edgar Allan Poe. Anche Borges pensò a questo rapporto tra i due scrittori britannici, e all’esistenza di una vera e propria tentazione di farsi trascinare dall’oscurità di Poe, che egli sostenne essere stata subita da Chesterton. Chesterton sembra rispondere anticipatamente a Borges, che pur lo amava fortemente, anche per sé stesso, negando espressamente questo rapporto tra Stevenson e Poe.

L’immaginazione stevensoniana per Chesterton assume un valore particolare:

La qualità originale in ogni uomo che operi con l’immaginazione è la vastità del suo immaginario. E’ qualcosa che assomiglia al paesaggio dei suoi sogni; il tipo di mondo che vorrebbe creare o che vorrebbe esplorare, la flora e la fauna del suo piccolo pianeta segreto; è in sostanza ciò che ama pensare e immaginare. Questa atmosfera generale, il modello o la struttura, l’architettura del suo sviluppo, governa tutte le sue creazioni, per quanto possano essere varie e diversificate; e poiché in questo senso egli può creare un mondo, è in questo senso un creatore: l’immagine di Dio“.

Questa lezione, che esprime tutta la cattolicità “naturale” di Chesterton, sembra essere stata integralmente ripresa anche da J.R.R. Tolkien quando parla del principio di subcreazione.

È poi importante la domanda che Chesterton pone sullo spirito vitale di Stevenson, ossia da dove sia venuto tale spirito. E la risposta è semplice, bruciante e fortemente autobiografica: tutto è cominciato col ritagliare le figurine di cartone del teatrino delle marionette, le figurine di Skelt, note anche a Chesterton che ne fu ammiratore e utente per tutta la vita (per la cronaca, il teatrino di Gilbert esiste ancora, è ad Oxford e presto verrà collocato assieme ad altre memorabilia chestertoniane in un apposito museo la cui cura è di Stratford Caldecott, che sarà ospite della Società Chestertoniana Italiana il prossimo 1 Luglio 2012 durante il X Chesterton Day). In sintesi, il fulcro del suo lavoro è l’infanzia e il suo stupore, tanto che Chesterton dice che Stevenson visse in certo qual modo nel suo teatro di cartone: 

«E non è un’esagerazione sostenere che egli passò la vita tentando di insegnare al mondo che cosa aveva imparato proprio da quelle figurine; questo è il suo insegnamento e la sua qualifica di insegnante»

Molti di questi stessi concetti li troviamo esposti in Ortodossia, ne L’Uomo che fu Giovedì, Autobiografia e Uomovivo, che probabilmente sono le opere centrali del pensiero di Chesterton, o forse quelle che ne sintetizzano meglio i motivi dominanti. D’altronde, come dicevo qualche riga fa, era sua abitudine cospargere del suo pensiero tutte le sue opere, tant’è che lo troviamo ovunque, anche solo per brevi cenni. Per cui tutta la sua filosofia dello stupore e della gratitudine è come diffusamente ripresa e ribadita nell’opera su Robert Louis Stevenson. Un esempio è possibile reperirlo a pagina 127, dove sostiene:

«In breve, mi si può accusare di aver sostenuto che Stevenson si opponeva ai decadenti, ancor prima che esistessero; e io rispondo che questo è l’unico vero modo in cui un uomo che si oppone a un qualche movimento ha speranza di aver successo: se attacca dopo, una volta che il movimento è conclamato, è troppo tardi»

Che è un’idea che troviamo più diffusamente esposta, ma in maniera del tutto eguale, in Cosa c’è di sbagliato nel mondo:

«Ma non c’è coraggio nell’attaccare qualcosa di vecchio o antiquato, non più di quello che occorre per offrirsi di combattere contro la nonna di qualcuno. L’uomo davvero coraggioso è colui che sconfigge le tirannie nate al sorgere di questa giornata e le superstizioni appena sbocciate, come i fiori a primavera» (cfr. Gilbert Keith Chesterton, Cosa c’è di sbagliato nel mondo, capitolo La paura del passato, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011, traduzione di Annalisa Teggi).

Proprio i motivi che spinsero Chesterton fuori dalla crisi giovanile sono forse tutti ripresi qui, in questo volume. Forse, come Stevenson, Chesterton cercò per tutta la vita di mantenere splendente il gioiello della sua infanzia, che per lo scrittore scozzese era un oggetto perduto per cui combatté per tutta la vita ed invece a Gilbert fu miracolosamente e graziosamente serbato. Primo tra tutti il motivo dell’innocenza, per cui l’opera di Stevenson ha il suo punto focale nell’infanzia, nella vita “nel suo teatro di cartone”, come dice Chesterton, in cui entrò grazie alla inaudita tolleranza del nonno durissimamente calvinista, che gli consentì di “frequentare” il mondo delle fiabe e quindi trovare la salvezza e l’antidoto contro la “malattia” puritana. È la stessa salvezza, mutatis mutandis, di Chesterton dal vuoto vittoriano e decadente, per cui l’innocenza divenne ancora di salvezza e spunto di libertà. Difatti dice Chesterton (pag. 42)

«il puritanesimo non aveva in sé alcuna idea di purezza. Potremmo quasi sostenere che nel puritanesimo c’è qualsiasi virtù, eccetto che la purezza. Contemplava l’idea dell’autodisciplina, che è cosa diversa dalla virtù. Non ha immagini di innocenza pura, di quelle cose che sono allo stesso tempo solide e candide, come il gesso o il legno bianco, che i bambini tanto amano».

Quindi l’opera di Stevenson può essere vista con Chesterton come una fuga dalle prigioni del puritanesimo e del pessimismo per entrare nella casa delle bambole, fortezza della felicità infantile. In questo c’è tanto di autobiografico e di cristiano.

Verso la fine del volume troviamo un’affermazione di Chesterton che ben sintetizza tutto il suo grato affetto verso Stevenson che, dopo aver apostrofato onesto ed onorevole pagano, proclama addirittura “teologo cristiano senza saperlo” (pag. 134). Per Chesterton l’innocenza fu sempre la madre di tutte le virtù e nello Stevenson ce lo dimostra compiutamente. Un grazie anche a Stevenson, allora, suscitatore dell’energia di Gilbert.

 

Di Marco Sermarini

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