Così vi racconto il decennio francese (Il Mattino)

del 26 Novembre 2014

Di John Anthony Davis
Da Il Mattino del 26 novembre

Sono molto onorato che il premio speciale «Lo sguardo lontano» sia stato assegnato dalla giuria del Premio Sila a Napoli e Napoleone. In questo libro ho cercato di dare un contributo allo studio della storia del Mezzogiorno prima e dopo l’unificazione, e sono particolarmente grato per questo generoso riconoscimento da parte dei miei colleghi italiani e compagni storiografi. Questa occasione mi offre l’opportunità inoltre di ringraziare Florindo Rubbettino per aver messo mano all’edizione italiana e Pasquale Palmieri, giovane storico napoletano che ha lavorato con grande diligenza alla traduzione italiana del libro.
Il focus centrale di Napoli e Napoleone è il periodo di dieci anni che va dal 1806 al 1815, quando l’Italia meridionale faceva parte del progetto imperiale di Napoleone Bonaparte. Il dominio francese non si estendeva alla Sicilia, il che significava che in tutto questo periodo la Calabria era in prima linea tra l’Imperatore e i suoi nemici: il più vicino e il più minaccioso era l’Inghilterra, le cui navi proteggevano la monarchia borbonica esiliata in Sicilia. Il cosiddetto «decennio francese» è stato a lungo considerato un momento critico, ma profondamente negativo nella lunga storia del Mezzogiorno.
Per Benedetto Croce la rivoluzione del 1799 ha segnato l’ultimo tentativo da parte delle forze progressiste del Sud di portare a termine una riforma di stato dell’Ancien Régime. Tale tentativo ha fallito in parte a causa della ferocia delle masse rurali che si erano radunate per la controrivoluzione e le bandiere del cardinale Ruffo e della Santa Fede – una controrivoluzione che ha avuto inizio in Calabria. Secondo Croce, il decennio francese che seguì fu un momento di profonde trasformazioni e diriforme, in particolare l’abolizione del feudalesimo che era stata affrontata, ma non realizzata nel 1799. Tuttavia per Croce le riforme francesi mancavano di merito perché erano state istituite in condizioni di occupazione militare e seguivano modelli stranieri astratti.
Il giudizio negativo di Croce sul periodo della dominazione francese fu profondamente influenzato dalla scrittura di Vincenzo Cuoco, che aveva preso parte alla rivoluzione del 1799 e il cui libro Saggio Storico ne divenne la sua critica spietata. Cuoco riteneva che i riformisti del 1799 avevano cercato
di applicare al Mezzogiorno modelli di riforma che erano astratti e stranieri, lasciandoli mal equipaggiati per affrontare le specificità del Sud Italia, la sua società, le sue istituzioni e la sua cultura. Fu Cuoco che per primo utilizzò il termine «rivoluzione passiva» per spiegare perché il Mezzogiorno non aveva partecipato attivamente ai grandi sconvolgimenti politici e culturali che stanno dietro alla rivoluzione del 1789 in Francia e che avevano portato l’Ancien Régime in crisi in tutta Europa. Croce aveva adottato l’idea della «rivoluzione passiva» a sostegno della sua tesi per cui il fallimento del 1799 aveva lasciato le forze progressiste nel Sud troppo deboli per portare a termine un’altra rivoluzione politica, che sarebb e potuta avvenire solo dopo l’Unità e come conseguenza del Risorgimento.
Antonio Gramsci a sua volta aveva fatto della «rivoluzione passiva» di Cuoco la base della propria interpretazione non del 1799 o del «decennio francese» nel Mezzogiorno, bensì del Risorgimento nel suo complesso. Nella lettura di Gramsci, il Risorgimento in Italia si è rivelato essere una «rivoluzione mancata» e una «rivoluzione passiva» perché al momento dell’unificazione il Mezzogiorno era ancora in gran parte premoderno e arretrato, dominato da proprietari terrieri e latifondisti reazionari e bloccato in conflitti rurali senza fine.
Per molti anni gli storici hanno rivisitato tali argomenti per emancipare il Mezzogiorno dalla sue «rivoluzioni passive». Napoli e Napoleone si basa su questi approcci e spero contribuirà ai dibattiti che sono ancora in corso. Tuttavia è importante mantenere lo slancio, perché nonostante tutto quello che è stato scritto negli ultimi decenni in senso contrario, l’immagine di una pre-unificazione del Mezzogiorno che lo vedeva immobile e arretrato persiste, in particolare nelle rappresentazioni non italiane dell’Italia. Venti anni fa l’illustre scienziato politico americano Robert Pulnam in un libro molto acclamato considera il Mezzogiorno come l’unico esempio europeo di uno «Stato fallito», sostenendo che dal XIV secolo il Mezzogiorno non aveva conosciuto altro che invasioni straniere, feudalesimo e corruzione. Queste rappresentazioni sono così lontane dalla verità che è comprensibile come in seguito molti abbiano scelto di promuovere l’immagine della pre-unificazione del Mezzogiorno come un paradiso di benessere, armonia sociale e digovemo benevolo. Purtroppo anche questa è una finzione e uno degli obiettivi di Napoli e Napoleone è quello di capire il tumultuoso secolo di dominazione borbonica, la rivoluzione e il conflitto sociale nel Mezzogiorno nei suoi propri termini.
Uno dei motivi per cui gli storici non italiani sono stati portati a studiare questo periodo è che non solo il Mezzogiorno, ma gli stati italiani nel loro insieme rivelano la complessità delle sfide poste dai processi della modernità. Questi erano simili nella forma in tutta Europa, hanno dato origine alla rivoluzione francese e per ragioni molto simili minato tutte le pre-unificazioni degli stati, delle società e dei governatori italiani. Il Mezzogiorno e suoi governatori erano soli ad affrontare queste sfide senza precedenti, e in aggiunta la posizione geo-politica precaria del Mezzogiorno, la fragilità delle sue strutture economiche e l’alto livello di tensioni sociali hanno portato questi cambiamenti a manifestarsi in tutto il Sud con particolare intensità. La convergenza simultanea di sconvolgimenti politici, culturali ed economici ha reso il Mezzogiorno e la Sicilia teatro di costanti rivoluzioni ma anche luogo di esperimenti, di sviluppi politici e istituzionali che non avevano paralleli negli altri stati italiani. Questo spiega anche perché le grandi riforme del «decennio francese» si devono agli italiani piuttosto che agli invasori e agli amministratori francesi, e perché fino alle rivoluzioni del 1820-21 il Mezzogiorno e la Sicilia abbiano sperimentato forme di mobilitazione popolare sconosciute nel resto d’Italia. È stato proprio nel Mezzogiorno che sono stati elaborati i primi programmi coerenti di governo costituzionale, fatto che ha acceso la scintilla per le rivoluzioni. E tutto ciò non coinvolse solo le élite: l’appartenenza alle società segrete nel Mezzogiorno e in Sicilia dopo il 1815 è stata eccezionalmente ampia, così come la partecipazione popolare nelle rivoluzioni del 1821.
Dopo il 1821 il governo borbonico tentò di distruggere queste reti, tuttavia sono sopravvissute e hanno contribuito alla caduta della monarchia quarant’anni dopo. L’Italia fu unificata perché nessuno dei governanti italiani, nemmeno Casa Savoia, poteva sostenere e preservare piccoli Stati in un’epoca di industrialismo, imperialismi e grandi rivalità di potere. Il crollo del Gran Ducato di Toscana, degli altri piccoli ducati e del potere temporale dei Papi nell’Italia centrale, sono stati i segni tangibili della crisi della monarchia asburgica: quando ha cessato di essere una grande potenza il tempo dei principi italiani indipendenti era finito. Il Sud non era un’eccezione ma solo un elemento di una storia più ampia, tanto nazionale che internazionale. Sebbene le ragioni della fragilità e la debolezza dei cambiamenti nel Meridione dopo la rivoluzione del 1848-’49 siano state ben studiate, la storia del Mezzogiorno nel Risorgimento e negli anni che seguirono pone ancora domande alle quali non corrispondono risposte chiare.

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