Il baco del Merkel-pensiero (Il Foglio)

di Marco Valerio Lo Prete, del 7 Marzo 2013

Da Il Foglio del 7 marzo 2013

L’Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva”. E’ scritto all’articolo 2 dell’attuale Costituzione europea, cioè nel Trattato di Lisbona. “Soziale Marktwirtschaft” è anche una delle formule preferite dalla cancelliera tedesca, Angela Merkel, che nel suo discorso alla nazione di inizio anno non ha mancato come sempre di farvi riferimento, osservando che il mondo intero non ha compreso a sufficienza le lezioni della grande crisi del 2008: “Mai più una irresponsabilità del genere, come accadde allora, dev’essere consentita – ha detto il primo giorno del 2013 – Nell’economia sociale di mercato, lo stato è il guardiano dell’ordine, e il pubblico dev’essere in grado di riporvi la sua fiducia”. Ma davvero l’Unione europea, e il suo paese leader che è stato la culla della “Soziale Marktwirtschaft”, stanno facendo di tutto per attenersi ai dettami di questa scuola di pensiero? Merkel da mesi assicura di sì, come pure il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, e il presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, che lo ripetono in molte delle loro apparizioni pubbliche. Eppure una lettura attenta dei classici di riferimento – resa ora più agevole per il lettore italofono dal volume “L’economia sociale di mercato e i suoi nemici” in uscita per Rubbettino – legittima qualche dubbio in proposito.
Perché dovremmo curarci del fatto che Berlino sostiene di orientare le sue scelte di politica economica in base alla teoria della “Soziale Marktwirtschaft” e poi magari non si comporta in maniera del tutto coerente? Innanzitutto perché la Germania è il paese guida dell’Eurozona: in virtù del suo peso economico, politico e demografico, oltre che grazie ai suoi sforzi riformatori del passato che spiegano molti successi del presente, Berlino oggi “conta” più di altre capitali europee quando si tratta di indicare la via d’uscita dalla crisi. Conoscere la formula magica che informa il Trattato di Lisbona e l’operato di Merkel è dunque d’obbligo. Flavio Felice, professore di Dottrine politiche ed economiche alla Pontificia Università Lateranense, curatore – con il professore emerito di Scienza delle finanze alla Sapienza Francesco Forte e Clemente Forte – del libro “L’economia sociale di mercato e i suoi nemici”, ai suoi studenti illustrerebbe il senso di questa dottrina con una metafora calcistica: “E’ come se due squadre si affrontassero in un campo di gioco con regole certe e un arbitro davvero terzo. L’arbitro è imparziale, se concede un calcio di rigore non lo fa per compensare suoi presunti errori passati”. Allo stesso modo, secondo l’economia sociale di mercato, “‘sociale’ non equivale a una spolverata di egualitarismo o a un po’ di compensazioni elargite dallo stato. E’ il mercato stesso, un mercato strutturato e vigilato, a essere garante della dimensione sociale, ad assicurare l’uguaglianza dei punti di partenza di tutti”. Il professor Felice cita una definizione data da Konrad Adenauer, cancelliere tedesco dal 1949 al 1963, padre fondatore dell’Europa unita e cristiano-democratico come Merkel: “L’economia sociale di mercato è la costituzione socialmente intesa dell’economia industriale, nella quale viene armonizzata la prestazione di uomini liberi e capaci in vista dell’ottenimento per tutti al massimo grado di utilità economica e di giustizia sociale. Questo ordine viene stabilito grazie alla libertà e alla unione che nell’economia sociale di mercato vengono messe in evidenza da vera concorrenza di prestazioni e da controllo indipendente dai monopoli”. “Libertà” e “responsabilità” sono dunque i principi cardine di questa scuola di pensiero. La libertà, nella proprietà privata così come nell’impresa, è l’unico incentivo alla crescita. Allo stesso tempo, come scritto in un documento della Konrad Adenauer Stiftung – la potente Fondazione finanziata dal contribuente tedesco e affiliata alla Cdu, il partito della Merkel – sottoscritto nel 2009 dai vertici del Partito popolare europeo e dall’allora presidente del Parlamento europeo, il tedesco Hans-Gert Pòttering, “la libertà di competere richiede l’applicazione del principio di responsabilità, attraverso il quale la performance competitiva è legata alla condotta responsabile di ogni attore in campo. La prospettiva di profitto stimola la competizione, mentre la responsabilità personale nel caso di un fallimento limita gli atteggiamenti irresponsabili ed eccessivamente rischiosi”. Già qui si intravvede l’origine culturale (se non addirittura morale) di alcune posizioni attuali di Berlino, le radici della comprensibile insofferenza a sobbarcarsi il salvataggio delle banche private o il pagamento dei debiti sovrani altrui (come sta avvenendo già in Grecia). Libertà e responsabilità possono fiorire soltanto in un ambiente stabile – procede il ragionamento – in contrapposizione all’instabilità che aveva portato ai regimi autoritari degli anni 30 e all’instaurazione del regime nazista in particolare. Un ambiente economico stabile da un punto di vista fiscale, come sostenne Ludwig Erhard, economista, ministro delle Finanze dal 1949 al 1963, poi cancelliere subito dopo Adenauer dal 1963 al 1966: “Qualsiasi tentativo di creare un ipotetico benessere con spirito caritatevole, spendendo più denaro di quanto disponibile tramite le entrate del fisco, violerebbe principi buoni e assodati”. Ambiente stabile anche dal punto di vista monetario, secondo un altro economista tedesco, Walter Eucken (1891-1950), padre dell’ordoliberalismo che aveva vissuto in prima persona le conseguenze di una politica monetaria sregolata: “Ogni sforzo per rendere un sistema competitivo è vano a meno che non sia garantita una certa stabilità monetaria. Di conseguenza, c’è un primato della politica monetaria in ogni sistema competitivo”. Insomma l’opposto di una certa rilassatezza di modi che oggi si invoca da parte della Banca centrale europea (Bce), sul modello delle pragmatiche Banche centrali anglosassoni, per sostenere i debiti sovrani degli stati in asfissia finanziaria. In Germania, osserva Felice, l’economia sociale di mercato “nasce come patrimonio dei cristiani democratici della Cdu-Csu, da Adenauer negli anni 50 e 60 fino a Helmut Kohl negli anni 80 e 90”, nel frattempo però “soppianta anche il retaggio marxista che era dominante nei socialdemocratici della Spd. Nel 1955, il socialdemocratico Karl Schiller, in un opuscolo nel quale esponeva l’indirizzo programmatico del suo partito, affermava: ‘La concorrenza per quanto è possibile, la pianificazione per quanto è necessario’. Nel 1959, al congresso di Bad Godesberg, tutto il partito socialista abbandonò ‘il dogma del passaggio dalla proprietà privata alla socializzazione dei mezzi di produzione’ e si adeguò al sistema dell’economia sociale di mercato”. Inutile stupirsi, dunque, del fatto che libertà, responsabilità, sussidiarietà, ma anche disciplina fiscale e monetaria, siano patrimonio comune tanto di Merkel che dei suoi avversari socialdemocratici. “Praticamente ogni partito politico tedesco, ogni sindacato, oggi, dice di richiamarsi all’economia sociale di mercato – dice al Foglio Matthias Schaefer, responsabile economico della Fondazione Konrad Adenauer – Ciò da una parte è negativo, perché è più difficile capire chi davvero si muove in linea con quei princìpi, al punto che oggi la maggior parte dell’elettorato tedesco li associa, sbagliando, alla ‘social-democrazia’. L’aspetto positivo, però, è che nella società tedesca c’è comunque un minimo consenso che accomuna tutti sulla politica economica da perseguire, a differenza per esempio di quanto accade in Italia dove le opzioni politiche sono numerose e molto differenziate tra loro”. Sono inoltre molti i leader Ue che propugnano l’adesione a questo modello made in Deutschland, oltre a Barroso e Van Rompuy. L’attuale presidente del Consiglio italiano, Mario Monti, si è definito una volta “il più tedesco tra gli economisti italiani”, e proprio sui binari dell’economia sociale di mercato spiega di aver mantenuto il suo operato a Palazzo Chigi, al punto da aver fatto esordire l’espressione teutonica nel suo programma elettorale, come osservò a dicembre, tra l’ammirato e lo stupito, il quotidiano londinese Financial Times. Non a caso Schaefer, dirigente del think tank merkeliano che prende il nome dal fondatore dell’Unione cristiano-democratica (Cdu), loda anche l’operato di Monti fuori da Palazzo Chigi: “Il suo rapporto per il rilancio del Mercato unico, presentato nel 2010 e commissionatogli da Bruxelles, è una riflessione piuttosto originale e solida rispetto ai princìpi elaborati in Germania negli anni 50 e 60. Sottostante c’è l’idea che l’ordine giuridico dia al mercato una struttura. D’altronde il libero mercato interno, così come la libera circolazione di persone, capitali e cose in Europa, sono stati fortemente influenzati dai pensatori dell’economia sociale di mercato. Idem per la competizione come garanzia della sovranità del consumatore. E per lo statuto della Banca centrale, da considerare come istituzione indipendente e a tutela della stabilità dei prezzi, sia all’interno, quindi sul fronte dell’inflazione, che all’esterno,
quindi rispetto alla stabilità del cambio”. Tutto questo bagaglio teorico – verrebbe da dire – è musica per le orecchie dei cosiddetti “rigoristi”: dei sostenitori del Fiscal compact, cioè dei vincoli di bilancio europei entrati in vigore dal gennaio di quest’anno, così come dei fautori di una politica monetaria della Bce che sia a tutti i costi e innanzitutto anti inflazionista. Eppure molti osservatori italiani e internazionali (dall’irriverente premio Nobel Paul Krugman ai più paludati economisti del Fondo monetario internazionale, dall’ex ministro italiano dell’Industria Paolo Savona all’editorialista del Financial Times Wolfgang Mtinchau), così come un numero crescente di elettori dei paesi della moneta unica (ultimi arrivati gli italiani, con il voto della settimana scorsa), mostrano una crescente insofferenza rispetto al tipo di exit strategy scelta a Bruxelles e a Berlino. Certo, in pochi negano che il rigore dei conti pubblici sia necessario e che non si possa più crescere accumulando altro debito pubblico o privato. In molti ammettono, però, che rigore di bilancio e riforme strutturali sono di per sé difficili da attuare in dosi massicce e in un colpo solo. Se perfino il leader socialdemocratico Gerhard Schròder sforò i vincoli europei sul deficit quando si trattò di avviare le mitiche riforme Hartz del mercato del lavoro e del welfare all’inizio degli anni 2000, come ha ricordato sul Foglio Mtinchau, figurarsi se nel pieno di una recessione globale e di un panico finanziario prolungato non si avverta l’esigenza di dilazionare certi obiettivi di risanamento. Ne va della sostenibilità politica e sociale dell’aggiustamento in corso.
Una soluzione graduale per addolcire l’amara pillola ci sarebbe, in un’Unione economico-politica e vista l’impossibilità di svalutare la propria moneta: mentre paesi come la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Italia e la Francia correggono i loro bilanci pubblici e curano l’altrettanto fondamentale deficit di produttività, i paesi con un notevole surplus commerciale come la Germania – cioè quelli che esportano molto più di quanto importano – dovrebbero cercare di ridurre questo squilibrio, facendo anche leva sul fatto di avere i conti in ordine e il debito pubblico sotto controllo per sostenere la domanda interna,- o quantomeno non farla deprimere – e aiutare così i “periferici” a esportare di più. Allo stesso tempo la Bce potrebbe praticare una politica monetaria più espansiva, come in parte ha già iniziato a fare da fine 2011 a oggi. Tuttavia soluzioni del genere, secondo la lettura dominante della “economia sociale di mercato”, sono assolutamente da evitare. L’attuazione di tali politiche “compensative” in Germania, dovendo fare leva su una relativa espansione fiscale o monetaria, o su un ricalibramento dell’equilibrio “naturale” tra export e import, andrebbe innanzitutto contro i princìpi di stabilità fiscale e monetaria, fornendo in aggiunta – dicono i più ortodossi, a partire dalla Bundesbank – un incentivo sbagliato ai paesi sulla via del risanamento. Ma è davvero così, secondo i canoni dell’economia sociale di mercato alla quale Merkel dice di rifarsi? Meglio lasciare direttamente la parola, a questo punto, ad Alfred Mtiller-Armack, braccio destro di Erhard ai tempi del “miracolo economico” tedesco (Wirtschaftswunder), e il primo in assoluto a coniare l’espressione “economia sociale di mercato”: “Già nel 1960 ho proposto per l’Ocse, e negli anni successivi anche per la Comunità europea, un coordinamento delle politiche congiunturali attraverso la creazione di un sistema di regole secondo cui costruire la politica congiunturale dei vari paesi, nonché attraverso la costituzione di un Consiglio per la congiuntura dotato anche di mezzi finanziari”, scriveva nel 1978 nel saggio “I cinque grandi temi della futura politica economica”, riesumato grazie alla ricerca dei professori Forte e Felice. La richiesta di coordinamento all’interno di un’unione monetaria non fu “avanzata solo in termini vaghi e generali” da parte dell’economista tedesco: “Io ho allora proposto, per le singole situazioni tipiche delle politiche congiunturali, in riferimento alla politica monetaria, alla situazione del momento della bilancia dei pagamenti e al diverso grado di occupazione, un ruolo diversamente posizionato da parte dei singoli paesi”. Per alcuni stati, per esempio, l’invito di Mtiller-Armack a correggere rotta era perentorio: “Amplino il loro import, se in posizione di eccedenza, e all’interno perseguano una politica espansiva per offrire così agli altri paesi, spinti alla contrazione dell’economia, un aiuto di mercato”. Inutile chiedersi adesso perché queste prescrizioni del pensiero ordoliberale che mostrano piena consapevolezza delle necessarie interazioni all’interno di un’Unione economica siano state così a lungo trascurate. Certo è che a leggere Mtiller-Armack, “uno degli estensori materiali del Trattato di Roma” del 1957 che è alla base dell’Ue – ricorda Felice – pare evidente che un “coordinamento delle politiche congiunturali” debba passare necessariamente attraverso “un ruolo diversamente posizionato da parte dei singoli paesi”. Non tutti in Europa siamo nella stessa identica situazione, non tutti possiamo applicare le stesse identiche ricette.
Schaefer riconosce il carattere “visionario” della riflessione di Mifiler-Armack: “Scriveva nel 1978, quando il Trattato di Maastricht e l’effettiva unione monetaria erano ancora distanti, quando il Muro di Berlino non era ancora caduto e l’integrazione dei paesi dell’Europa centrale e orientale non era in vista. Eppure aveva capito che se anche tutti i paesi di un’Unione avessero condiviso e applicato i canoni di una cultura comune della stabilità, ciò non avrebbe impedito a priori che potessero poi realizzarsi livelli differenti di inflazione, di crescita o altro… Perciò, stante l’impossibilità di svalutare la moneta unica per diventare più competitivi rispetto agli altri paesi dell’Unione, l’unica strada è quella di una maggiore cooperazione”. Oggi quel rischio paventato dall’economista di Colonia si è in parte avverato. Come ha scritto Federico Fubini sul Corriere della Sera di due giorni fa, infatti, “lo squilibrio tra export e domanda interna della Germania non è mai stato così ampio come nell’ultimo anno: in piena recessione continentale, il surplus tedesco della bilancia delle partite correnti (ossia l’avanzo negli scambi di beni e servizi, più partite finanziarie) è addirittura cresciuto, caso unico in Europa, da 189 a 214 miliardi di dollari”. Ovvero: “La Germania consuma e compra dall’estero molto meno di quanto potrebbe in base al suo accumulo di risparmio e molto meno di quanto dovrebbe in un sistema finanziario internazionale equilibrato”. Non è un problema della sola Germania, in realtà: “Il surplus delle partite correnti dei paesi di lingua tedesca, più gli scandinavi e l’Olanda – scrive sempre Fubini – ha oggi raggiunto la colossale cifra di 500 miliardi di dollari l’anno”. In questa situazione suonano come profetici i consigli di Miiller-Armack, ovvero l’idea che alcuni paesi “amplino il loro import, se in posizione di eccedenza”, e “all’interno perseguano una politica espansiva per offrire così agli altri paesi, spinti alla contrazione dell’economia, un aiuto di mercato”. Né carità, né regali, dunque, in un’unione economica e politica si chiama “aiuto di mercato”, secondo uno dei padri nobili della “Soziale Marktwirtschaft”. L’alternativa, se si procede sulla strada attuale, con una lettura riduttiva e un po’ nazionalista dei princìpi dell’ordoliberalismo, sarebbe altrimenti la sopravvivenza di una sola “economia sociale di mercato”, quella tedesca, ma tra le macerie del resto d’Europa. Saremmo insomma ben lontani dagli a cui tanta parte dell’intellighenzia tedeobiettivi del Trattato di Lisbona o di Roma sca ed europea ha dedicato i propri studi e sforzi.

Di Marco Valerio Lo Prete

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