L’addio a Sergio Ricossa (Il Sole 24 Ore)

di Lorenzo Infantino, del 7 Marzo 2016

“Il liberalismo di Sergio Ricossa” da Il Sole 24 Ore del 4 marzo

Mercoledì sera è venuto a mancare Sergio Ricossa: il maestro, l’economista, l’amico. Dopo la morte di Bruno Leoni, di cui era stato amico, Ricossa è stato il maggiore punto di riferimento dei pochi liberali italiani. Erano anni in cui le idee di libertà non andavano di moda. Il liberalismo era considerato dai più come una triste e marginale sopravvivenza del passato. I suoi sostenitori erano ritenuti dei nostalgici, le cui deboli forze non avrebbero potuto resistere all’inarrestabile dialettica della Storia. I destini progressivi dell’umanità erano affidati a utopie salvifiche, che promettevano l’eliminazione di tutti i “problemi maledetti”.
In una tale situazione, Sergio Ricossa, nato a Torino nel 1927, ha dovuto vivere contro il proprio tempo. Il clima culturale e politico gli è stato ostile. Le incomprensioni del mondo accademico non sono mancate. Gli è stata persino preclusa la collaborazione a importanti testate giornalistiche. E quando, sul finire degli anni Sessanta, ha proposto al lettore italiano due testi rilevanti (L’abuso della ragione e La società libera) di Friedrich A. von Hayek, il maggiore pensatore liberale del Ventesimo secolo, quei volumi sono andati direttamente al macero. Ma tutto ciò non ha indebolito le sue energie. Per i pochi che desideravano fare uso della ragione critica e sottrarsi al conformismo e alla bigotteria culturale, Ricossa (utilizzo delle parole che egli stesso ha usato nei confronti di Ludwig von Mises) è stato il «garante della speranza che di fatale vi è nulla e che la libertà ha un futuro».
Ricossa ha proposto un liberalismo di respiro internazionale. Bruno Leoni lo aveva portato alla Mont Pèlerin Society, l’associazione di studiosi liberali fondata nell’immediato secondo dopoguerra da Hayek (e di cuianche Luigi Einaudi ha fatto parte). Qui Ricossa ha abbandonato i panni del tecnico dell’economia. Ed è divenuto un intellettuale capace di investigare le ragioni gnoseologiche della libertà, di spiegare che quella umana è una condizione di ignoranza e di fallibilità, che la competizione è un irrinunciabile processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori e che solo tramite essa è possibile minimizzare il potere dell’uomo sull’uomo. La Casa Editrice Rubbettino havoluto negli anni recenti ripubblicare tutti i suoi scritti divulgativi. Ne sono stato il curatore, temendo in ogni momento di non essere in grado di onorare la sua opera.
Ricossa ha unito in sé acume, cultura e ironia. E, come tutti coloro che fanno della conoscenza uno strumento di orientamento e non di dominio, è stato sempre pronto ad accogliere chiunque gli si rivolgesse in cerca di un suggerimento o di un aiuto. Ha elargito il suo luccicante liberalismo con generosità, senza risparmio di energie. Lo ha fatto con la parola, trattando anche i più giovani con immediatezza e familiarità. E lo ha fatto con un’impareggiabile penna che ad altri ha rammentato Montaigne, Voltaire, Renard. Più appropriato mi sembra il confronto con il Tocqueville dei Souvenirs, con colui che, attraversando le strade di Parigi nelle giornate del 1848, ha saputo fmemente mettere in evidenza gli aspetti paradossali di quegli avvenimenti.
Ricossa avrebbe meritato dei riconoscimenti pubblici. Ma questi non gli sono mai venuti. È probabile che, se gli fossero stati tributati, se ne sarebbe sottratto. Gli unici riconoscimenti ai quali ambiva erano quelli della stima personale. Abbiamo trascorso una bellissima serata del settembre del 2002, alla vigilia di un convegno che, fuori dalle convenzioni accademiche, abbiamo voluto dedicare alla sua opera. Fra le altre personalità internazionali, c’era quella sera Lord Harris of High Cross, un altro “garante” della libertà. La soddisfazione di Ricossa era palese. Ed era esattamente il prodotto della sincera stima di cui si sentiva circondato e del fervore che alimentava i nostri rapporti. Caro Sergio, coloro che ci sanno dare qualcosa rimangono sempre con noi!

di Lorenzo Infantino

“Addio a Sergio Ricossa, il polemista liberale” da Il Corriere della Sera del 4 marzo

Il peggior uso della statistica è quando la si dedica a fini retorici o propagandistici, non per sapere, bensì per far credere ai semplicioni». Era una convinzione di Sergio Ricossa – economista liberale che per sua ammissione voleva andare oltre il liberalismo del suo maestro Luigi Einaudi – scomparso ieri a 88 anni, nella sua casa torinese, dopo una lunga malattia.
Da sempre legato a Torino, dove è nato, si è laureato nel 1949 e ha svolto la sua intera carriera accademica, come professore di politica economica e finanziaria, Ricossa ha pubblicato per anni su «Il Giornale» della direzione Montanelli e su «La Stampa» articoli sferzanti sulla gestione pubblica in una tesi rielaborata in un volume dal titolo programmatico: Come si manda in rovina un Paese. Cinquant’anni di maleconomia (Rizzoli, 1995; Rubbettino, 2012). Dallo scritto ai fatti, è stato uno dei protagonisti, con Antonio Martino e Gianni Marongiu, della «marcia contro il Fisco» del 1987. Quello contro l’eccessiva imposizione tributaria è stato un suo cavallo di battaglia espresso anche nel pamphlet Manuale di sopravvivenza degli italiani onesti (Rizzoli, 1997; Rubbettino 2011). La sua idea era che il Fisco è «due volte peccatore: quando fa pagare tributi ingiusti e quando concede sanatorie, amnistie e condoni agli evasori».
Vicepresidente della Mont Pelerin Society, Accademico dei Lincei, presidente onorario dell’Istituto Bruno Leoni, accanto a rigorosi testi scientifici di politica economica, dove ha criticato in particolare il perfettismo keynesiano e la teoria del valore di Pietro Sraffa, non rinunciava a scritti provocatori, su temi di attualità, che ruotavano comunque intorno al principio fondamentale del primato dell’economia sulla politica, dalla quale si è sempre tenuto distante. Secondo Ricossa «la libertà economica è gran parte della libertà tout court», ricordava in un’intervista, sottolineando come «difficilmente chi non si occupa della libertà economica potrà occuparsi delle altre libertà dell’uomo». La sua verve critica lo ha visto denunciare «i pericoli della solidarietà» e colpire anche i suoi stessi colleghi.
Con Maledetti economisti. Le idiozie di una scienza inesistente (Ruzzoli, 1996; Rubbettino, 2010) criticava le distorsioni dell’economia ideologica. Quella che deforma la realtà ad altri usi, atteggiamento intollerabile per un autentico liberale.

di Stefano Ravaschio

Sergio Ricossa e la riscossa del pensiero (davvero) libero” da Il Giornale del 4 marzo

Sergio Ricossa è stato un uomo libero , ancor prima che un liberale: una persona che ha posto il rispetto per la propria e l’altrui dignità sopra ogni cosa e che nel corso degli anni ha modellato le proprie riflessioni sulla società a partire da questa fondamentale opzione morale. È stato uno scienziato sociale nella tradizione di David Hume e Adam Smith, interessato alla complessità dell’uomo e sempre nutrito di una peculiare modestia.
Nato nel 1927 a Torino, ha avuto una carriera universitaria ricca di successi quale economista teorico e docente di Politica economica. Autore di importanti studi (tra cui un libro su Piero Sraffa) e di vari testi destinati al grande pubblico (da Straborghese a La fine dell’economia), per decenni ha incarnato il meglio dell’economia antistatalista in lingua italiana. Anche se oggi può sembrare strano, da giovane Ricossa si era molto occupato di econometria, àmbito di ricerche da cui si allontanò per ragioni di ordine metodologico, quando comprese la fragilità dell’impianto rigorosamente positivistico che caratterizza quegli studi. D’altra parte, a Torino egli conobbe Bruno Leoni, il quale da tempo rifletteva sui temi fondamentali del liberalismo novecentesco: dalla critica della pianificazione economica alla contestazione di ogni interventismo.
Quando incontrò gli studiosi austriaci (von Mises e von Hayek, in particolare) e la loro critica ai paradigmi dell’economia neoclassica, lui che era stato anche direttore della rivista Note econometriche avrebbe potuto far finta di nulla, continuando a utilizzare i paradigmi alla moda in cui aveva smesso di credere. Invece denunciò l’infondatezza dell’economia dominante e si comportò in maniera molto conseguente. È a partire da qui che egli acquisì quel caratteristico tono disincantato di fronte agli errori a catena di politici e consiglieri del Principe sempre determinati a vietare, proteggere, programmare. La sua bestia nera diventa allora il «costruttivismo», questa reinvenzione del razionalismo nel campo delle scienze sociali, da cui trae origine la pretesa di fare e disfare, gestendo l’insieme delle interazioni umane. Nella critica ricossiana allo statalismo e ai suoi esiti illiberali s’intrecciano due argomenti: uno di tipo conoscitivo, poiché egli insistette sempre sui limiti della razionalità umana; e uno di tipo morale, perché egli guardava all’uomo come a un soggetto che va rispettato nella sua libertà di agire e sbagliare. In uno dei suoi libri migliori, La fine dell’economia, non a caso attacca proprio quello che chiama il «perfettismo», cioè l’illusione di strappare l’umanità dalla propria condizione per condurla in un universo senza errori né fallimenti.
Fu membro della Mont Pélerin Society e nell’86 organizzò a Saint-Vincent un meeting di questa associazione promossa da von Hayek. Ma visse le proprie idee e battaglie principalmente come un «cavalier seul», sebbene sempre armato di coraggio. Nell’Italia ancora simil-bolscevica dell’87 partecipò a Torino, con Antonio Martino e Gianni Marongiu, a una marcia contro il fisco che mobilitò decine di migliaia di persone e in cui i capi della Triplice videro manifestarsi l’egoismo degli evasori. Ricossa provò a spiegare che quanti evadono non hanno bisogno di protestare, ma che al contrario si trattava della legittima ribellione di produttori stufi di essere sfruttati da un ceto politico-burocratico parassitario. Pochi lo capirono, ma egli non cambiò strada e anzi radicalizzò le proprie posizioni, fino a quando nel ’99 pubblicò un breve testo intitolato Da liberale a libertario, in cui prese le distanze dal liberalismo einaudiano e si disse pronto a una libertà compiuta, che facesse a meno dello Stato e della sua violenza.
Se il suo obiettivo era la tutela della libertà individuale, spesso le sue armi migliori erano l’ironia, l’humour, il garbo. Appassionato d’arte e lui stesso pittore, Ricossa fu uno scrittore raffinato e un commentatore insuperabile, autore di fondi (specialmente su questo quotidiano) che ogni volta colpivano per precisione ed efficacia. La sua chiarezza espositiva proveniva dal coltivare un’idea assai nobile di civiltà, in cui vi era spazio non solo per la libertà, ma pure per l’amicizia, la bellezza, l’umana simpatia tra gli uomini. L’eleganza della sua scrittura era la forma esteriore di un pensiero avverso a ogni fumisteria, magniloquenza, illusionismo. Rigoroso nell’usare le parole, lo sarebbe stato altrettanto come ministro dell’Economia: come attestano le sue analisi profetiche in tema di spesa pubblica, politiche monetarie espansive, assistenzialismo, solidarietà coatta (contro cui scrisse un volume molto bello). In realtà nessuno pensò mai di dargli incarichi di governo e si trovò ai margini del mondo liberale, spesso solo desideroso di «modernizzarsi» con innesti sempre più massicci di statalismo. Questo intransigente difensore del mercato e della proprietà privata era di umili origini e amava ricordarlo. Riteneva che l’uomo abbia diritto a essere libero quale che sia il suo status e pensava che il rispetto dei principi di un’economia libera andasse proprio a favore dei deboli. In molte sue pagine sembra trasparire una forma di rassegnata disperazione. In verità egli fu a suo modo un combattente per la libertà, anche se riteneva necessario impegnarsi in un’impresa che – lo sapeva – si sarebbe rivelata perdente.
Ora che se n’è andato, non lascia eredi intellettuali, né poteva lasciarne. Il suo modo d’intendere la riflessione sulla società era così personale e inimitabile che davvero il suo vuoto non può essere colmato. In queste ore però molti suoi amici e ammiratori sono tristi al pensiero che non sia più tra noi e al contempo lieti di averlo letto, conosciuto, ascoltato, apprezzato.
La sua lezione non è stata vana.

di Carlo Lottieri

“Ricordo di Ricossa, un liberale puro e umanista che “dovevo conoscere”” da Il Foglio del 4 marzo

Sergio Ricossa era un liberale umanistico che io ho cominciato a conoscere a Torino nel 1961 come econometrico ed esperto di matrici delle interdipendenze strutturali. Quando lo incontrai, la prima volta, era da poco professore di Politica economica nella facoltà di Economia dell’Università di Torino, la sua alma mater in cui si era laureato e aveva fatto ricerca. Io invece arrivavo dall’Università della Virginia, dove avevo insegnato. Ero stato chiamato a Scienza delle finanze nelle facoltà di Giurisprudenza e Scienze politiche di Torino, su designazione di Luigi Einaudi, professore a vita, che aveva scelto un successore quell’estate, fra i vincitori del concorso appena concluso. Io avevo fatto la mia carriera italiana a Pavia e Milano. Succedere a Einaudi era il massimo onore che potessi desiderare. Il mio incontro con Ricossa era stato combinato da un amico comune che pensava che “dovevamo conoscerci”. Si sapeva che Ricossa era un liberale puro. Allora, ma anche in seguito e sino alla caduta della prima Repubblica, i liberali non erano di moda in Italia. In parlamento erano una minuscola pattuglia, nelle università appartenevano, di solito, alle passate generazioni. L’economia di moda era keynesiana. Io ero un liberal socialista e la scelta di Einaudi aveva suscitato scalpore. Ma venivo dal Department of economics dell’Università della Virginia, roccaforte liberale nel senso europeo. Sostenevo una teoria della finanza pubblica – allora poco considerata – secondo cui le imposte sono il prezzo dei servizi pubblici e solo secondariamente strumenti di fiscal policy. Ricossa mi scrutava un po’ come si osserva uno strano animale, di specie incognita. Da parte mia fui sorpreso che l’economista delle matrici fosse un liberale quasi filosofico, con una ideologia laica, ma simile a quella di mio zio Carlo Gray, filosofo del diritto liberale rosminiano. In seguito, ho sempre ricevuto da Ricossa i libri che lui scriveva, in alcuni dei quali mi menzionava criticamente, ma con garbo. Oramai era diventato un sacerdote dell’economia e della filosofia liberale, fondata su valori profondi, spesso controcorrente, nello stesso pensiero liberale laico come quello del diritto dell’embrione alla vita. Criticava anche i grandi imprenditori che dominavano l’intreccio politica-economia-editoria, ma soprattutto coloro che, in un modo o nell’altro, li rifornivano di argomentazioni economiche. Li aveva denominati “I fuochisti della vaporiera. Gli economisti del consenso” (Editoria Nuova, 1978), prendendo spunto dal titolo del libro di Ernesto Rossi, “I padroni del vapore”, che criticava i grandi gruppi dotati di potere politico-economico. Col tempo, Ricossa – che scriveva in modo nitido, chiaro, spesso amaramente ironico – era diventato un pessimista scettico. Provava amarezza non per sé, ma per il destino dell’Italia, che amava, e che era, insieme all’idea liberale, la ragione per cui scriveva di economia. Ecco così che arriva a spiegare “Come si manda in rovina un paese”, libro edito nel 2011 nel “Manuale di sopravvivenza ad uso degli italiani onesti” (Rubbettino). Il suo scetticismo coinvolgeva anche gli economisti e l’utilità della scienza economica. Lo si vede da “La fine dell’economia” (SugarCo, 1986) a da “Maledetti economisti. Le idiozie di una scienza inesistente” (Rizzoli, 1996). Ma intanto scriveva “Impariamo l’economia. Idee, princìpi, teorie”, (Rizzoli, 1988) e “Cento trame di classici dell’economia” (Rizzoli, 1991). Il Vangelo liberale laico, valoriale, di Sergio Ricossa è compendiato in “Vivere è scegliere”. Scritti di libertà, edito dalla Fondazione Achille e Giulia Boroli, nel 2005 a Milano. Si tratta di una raccolta di scritti tratti dalle sue opere, a cura di Paolo Del Debbio. Giulia Boroli era Giulia Gray, figlia di un cugino di mia mamma. Paolo Del Debbio è un filosofo e sociologo liberale cattolico, che ha lavorato nel campo economico con me e ha preso parecchi libri di Carlo Gray dalla mia biblioteca. Io e Ricossa siamo più vicini di quel che io pensassi.

di Francesco Forte

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